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A - P - O - C - A - L - I - S - S - E - ATTO PRIMO - L'INFERNO DEI VIVENTI


di CUMCONTROL
16.06.2016    |    5.052    |    6 8.8
"Reclinò il sedile ed io mi abbandonai su di lui lasciando che le sue mani spogliassero le mie natiche dai calzoni..."
Riuscii a scappare.
Bisogna che talvolta la bobina si riavvolga per ripartire da un basta.
Dissi basta. Dal girone io volli uscire.

Basta.

Raccolsi i cocci del mio orgoglio e riuscii a scappare. Abbandonai la dimora molesta del mio maligno compagno. Le botte, gli sputi, l’egoismo e l’arbitrio. Nessuno di noi avrebbe accetto ad oltranza tutto quell’abominio. Mi feci forza, raccolsi le mie povere cose che infilai nello zaino e mi incamminai quando non era ancora l’alba, sotto un temporale deflagrato in una notte cupa e che sui quei luoghi pareva riversasse tutte le acque del mondo.
Discesi il monte tagliando per i boschi, nel buio fitto e con indosso il terrore dei cinghiali. Capitombolavo e scivolavo maldestramente su un fogliame liquefatto. Ogni metro di discesa era per me la conquista del naufrago. Nella discesa, e dentro il mio cuore, si dischiudevano le porte galere del graziato da una sicura condanna.

L’emozione nel cuore roboava all’unisono al fragore di quelle grandi acque, e nel buio di quella notte nel bosco, nella corsa affannosa della mia liberazione, io vidi tutta la bellezza del mondo che in sé si realizza. Rivelazione. Rivelazione celeste del miracolo che si avvera.
Tra i boschi, sotto l’acqua che violentava le foglie, io metro dopo metro avanzavo lontano dai concentrici gironi di una dannazione recente. Era finito tutto. E per mano mia. Nonostante nella bocca serpeggiasse ancora lo sperma di sconosciuti, fatto versare per Suo piacere, ultimo atto ingiusto che io concedevo a quell’uomo, immolandomi ancora a beneficio di un dio caprone.
Dal folto degli abeti vidi schegge di luce aranciate provenire dal piccolo abitato sdraiato nella valle. Vidi poi le guglie modeste della piccola chiesa. Arrestai la corsa obliqua su foglie e aghi liquefatti, per vedere sotto la pioggia la bellezza di quel nugolo di case sdraiate ai miei piedi, silenzioso, addormentato, e persino i cani nei cortili tacevano udendo forse con me il fragore di grandi acque. Vibrava la tenue luce pendula dei pochi lampioni, affissi e oscillanti in mezzo alla via fra case di pietra e cosparse di muschio.

Mi persi in una risata nervosa e tra gli spasmi di un sorriso nervoso, io esalavo sotto il diluvio tutto il vapore spermatico dei bovini ai quali la mia bocca s’era prestata, proprio nel giorno del mio compleanno.
Era quello il regalo del mio uomo. Mi feci serio. Era quello. Salvo poi sparire in camera con alcuni di essi.

Oh sì, lo sentivo gemere. E che male al cuore sentire la spalliera del talamo che fu solo il nostro talamo al tempo dell’amore. Quel talamo, quella spalliera di legno che udii battere ritmico contro il tramezzo che ci separava, procurò una ferita insanabile nel mio cuore malato. I colpi a turno gli sfondavano il ventre, così come i colpi a turno sconquassavano la mia gola ad opera sconosciuti. A due passi da me, oltre la tramezza battente, si compiva il suo delitto.

Era per me. “Ti piace, eh? Ti piace?” mi ripeteva mentre prima di appartarsi riprendeva il mio viso stanco e irriconoscibilmente burlato dai tanti fiotti di sborra. Quella sborra. Quella sborra era talvolta così densa da emanare un forte miasma. Impugnava il suo telefonino di ultima generazione e di tanto in tanto mi chiedeva di mostrargli la lingua. Ma io non era di quello che avevo bisogno. Sarebbe bastato poco, quasi niente. Avrei voluto per i miei quarant’anni una notte intima tra i monti. Mi fu venduta la convinzione che tutto questo mi sarebbe piaciuto. Ma era a lui che tutto questo piaceva. Io non osavo dirgli di no, sicuro che col mio negarmi, io lo avrei perduto.

Fece di quanto aizzava la sua goliardica libìdo un regalo per il suo compagno, per poi trarre per sé un cospicuo compenso, per tutto il lavoro di una minuziosa ricerca. Uomini forti, sposati e non, brutali e taurini, forse pagati, e richiamati a casa da ogni dove per soddisfare le sue e le mie supposte voglie. Uomini verso i quali da sempre nutriva un debole e al cospetto dei quali io non c’entravo proprio nulla per stazza, per intelletto o modi di fare. Uomini forti, taurini, da scegliere con cura nelle notti trascorse davanti al computer mente di là io spegnevo a poco a poco tutte le luci delle mie speranze, in lenzuola solitarie, svaporanti di bianco e in attesa di lungo sogno dove magari incontrarlo.

Le cronache della sera prima mi attanagliavano. Lui si faceva largo tra gli sconosciuti. Con una mano scansava gli altri racchiusi attorno a me e con l’altra riprendeva estasiato col telefonino tutta la bruttura del mio volto cosparso di sperma. “Ti piace amore? Ti stiamo facendo la festa” mi ripeteva. “Aprimi la bocca, così, da bravo. Fuori la lingua” e la lingua mia io estraevo tra filamenti densi di materia umana. “Amore, dovresti guardarti, sembra yogurt. Ma non è yogurt, è sborra”.

Le sue parole aizzarono ancora di più l’eccitazione dei maschi. Uno di loro sopraggiunse alle sue spalle che prese ad abbracciarlo tastandogli il ventre. Lui si voltò all’indietro verso l'altro e con il telefonino ormai distratto si perse nel furore di un bacio animale. Quelle mani estranee, calate dalle sue ascelle, scesero in basso ed uno ad uno sbottonarono la patta, dalla quale fuoriuscì la minchia marmorea del mio amato.
Poi si rivoltò verso di me e con le dita spalmò il cavo caldo della mia bocca, mentre l’altro leccava la sua nuca, infojato nel volerlo scopare.
Riky, il mio uomo, o quello che mi restò di lui, fece largo con le sue due dita attorno al cavo della mia bocca per poi affondarvi il membro. Pulì nel mentre le sue dita sul colletto della mia camicia aperta. Polpastrelli e nocche. L’ingresso del di lui fallo, abbuffò le mie fauci e ne costrinse la fuoriuscita di liquido in giacenza in uno spurgo orale per infissione in gola. Liquido in giacenza, disperso in etere per ingresso del suo fallo e recatomi in gola dagli altri del branco... e tanto fu lo strazio di quell’ingombro carnoso del mio lui, che per farvi posto, dovetti ingoiare le secrezioni testicolari di chi lo aveva testè preceduto.

“Amore che calda sta bocca, che bello fotterla con la sborra di tutti questi maschi”. Fu per me l’appagamento del suo cazzo, che dei suoi baci ormai avevo perduto ogni ricordo.
Poi lo estrasse, ritirandosi nel bacio avvolgente del terzo e tra me e la sua cappella, l’unico legame possibile fu la lunga bava pendente di saliva e di sborra altrui. Poi il cordone si ruppe e attorno a me si chiuse il sipario oltre cui lo vidi scomparire. Sipario di corpi, che con fare goliardico dei camerati, tornarono a darsi turno presso la mia bocca.



“Ma ora tutto questo è passato” – mi sussurravo – “basta pensare, è ora di agire” e così tornai a me e presi a discendere la scarpata sotto la pioggia. Varcai il ponte di pietra, il ponte del Diavolo come dicevan da queste parti. Mi fermai a metà dell’arco e sotto la pioggia, gettai lo sguardo sulla rabbiosa corsa del torrente rigonfio.
Varcai il torrente e corsi costeggiando il muro del vecchio cimitero. Da lì alle prime case. Corsi radente ai muri e discesi per le scalinate di pietra udendo nello scroscio il sommesso latrare dei cani nei pantani.
Ecco. Ecco di fronte a me la stazione. Sulla bacheca il primo treno. Mancavano solo cinque ore alla mia liberazione. Cosa fare… Dalla valle spirava il vento dei ghiacciai disceso dai monti come quel gonfio corso d’acqua lasciato nella sua rabbia sotto il ponte del Diavolo.

Attendere, non potei far altro.
Mi accucciai sotto la pensilina infreddolito e cercai di scaldare le mie mani umide...
Ecco che nel silenzio offeso solo dallo scrosciare della pioggia udii il motore di un mezzo. Un furgone bianco. Venne incontro, fece inversione attorno all’aiuola e prese ad andar via.

Abbassai lo sguardo e ripresi a soffiare sulle mie mani. Ecco però che i miei occhi si sollevarono di nuovo. Le luci bianche di quel furgone si accesero come occhi sotto la pioggia per percorrere una breve retromarcia. Preso dal timore, allora mi alzai dal ciglio del cordolo ma vidi spegnersi i fari della retro. La marmitta fumava e dal finestrino, la giù al fondo del piccolo viale vidi sbucare un braccio, facendomi cenno di avanzare…

Lentamente mi voltai a destra, poi a sinistra. Lentamente mi alzai puntando dritto verso di me. Alzai lentamente il cappuccio della felpa.. il primo passo… il secondo… avanzai… a passo lento, sicuro però.
Nel tratto di strada non badai alla pioggia, alle pozze, a tutto quello scrosciare… e mi avvicinavo lentamente a quel furgone spento ma fumante di marmitta. A pochi passi dal mezzo gettai uno sguardo nel finestroni del suo posteriore. Nell’abitacolo occulto, pendevano le costole straziate di bovi agganciati a binari d’acciaio. Animali muti di cessate sofferenze, ridotti a carne e costole, infissi tra i tendini di arti capoversi.

Avanzai sul fianco. E raggiunsi quel finestrino.
Lo riconobbi.
Ai lettori meno distratti ricorderemo il macellaio del paese, figura sessuale già delineata nel Girone della M.
Profilo sicuro, nerboruto, baffuto e fumante di sigaro. Quanti di voi concederebbero le proprie grazie per un tale così. Si voltò, “cosa fai la giù, è troppo presto. Il primo treno è alle 5… Dai, sali, morirai dal freddo stando li fuori”.

Esitai per un attimo. Ma poi feci il giro del furgone e salii.
Accese subito l’aria condizionata.
“So chi sei e so da chi e da cosa scappi” mi pronunciò guardando in un punto fermo dinnanzi a sè.
Senza guardarmi sollevò il braccio e lo portò sulle mie spalle fino a raggiungere il mio braccio a lui più distante. Lentamente mi trasse a sé. Infreddolito, esitante, senza proferir parola sentii la sua pressione che mi diresse nei pressi del suo petto. Seguitava a non fissarmi. Sul parabrezza scivolavano le acque di tutto il mondo.

Rimasi muto cedendo al calore umano di quelle dite distese a rovistarmi i capelli. Appoggiai la mano sulla sua coscia e mi abbandonai al petto. Baciò i miei capelli e per la prima volta tra i miei calzoni sentii smovere le nuove albe del mio sesso.
Intravidi il suo che al cospetto del mio risultò ben più prominente nonostante i jeans. Allora osai e con il mio pollice e l’indice presi a tastargli morbidamente la base del glande. Pulsava.
Pulsava come la carne ultima che urla prepotente la vita, prima dell'offesa di una lama. Come quella carne ora muta, ciondolante senza più vita e capoversa immobile nell’abitacolo buio alle nostre spalle.

Fu in quell’attimo che io sentii le sue labbra posarsi sui ciuffi miei bagnati. Fu in quell’attimo che reclinai il capo ad inseguire le sue di labbra. Sotto quel riparo liquido dilagò il calore di un bacio tra maschi.
Poi si ritrasse e poi prese nuovamente a guardar fisso verso quel fisso punto oltre il dilavare del parabrezza.

“Avessi casa libera ti terrei nel mio letto. Ma io sono un uomo sposato e mia moglie tornerebbe su da un momento all’altro. Lavora in città e non ha mai un orario fisso per il rientro”.
Non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo mentre egli seguitava a guardar fisso oltre il parabrezza. Si voltò e il bacio riprese. Montai su di lui che si arrese ai miei baci mentre le sue mani s’infilarono sotto la mia felpa, a contarmi una per una le vertebre della mia schiena. Reclinò il sedile ed io mi abbandonai su di lui lasciando che le sue mani spogliassero le mie natiche dai calzoni.

Le mani si posarono sulle mie natiche e dolcemente le dita scrutarono la valle vergine dove la peluria del mio bosco proteggeva il mio ingresso mai violato. Le nostre barbe si fusero nell’umido di un bacio ardente. Le mani sue stirarono le mie natiche e l’indice, insieme al suo medio, lambirono le soglie del cratere fino a danzarci attorno, e a tentare – nel bacio – l’affondo mio divenuto umido.

Il mio fallo diviso dal suo dal cotone delle mie mutande e dai suoi calzoni di tela prese a strusciarvici contro. Nello strofinio io inarcavo la schiena e favorivo sempre di più la speleologia connaturata al moto delle sue dita. Aprii gli occhi nell’estasi e vidi vicini ai miei i suoi lucenti della penombra. Occhi ripiegati in un sorriso benigno e allora nello scrutarmi egli con una mano raggiunse la mia nuca e nella morsa mi obbligò a prolungare d’eterno la comunione delle nostre labbra.
I corpi si misero a fremere.

Cercare bisogna, cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.

Ma poi tutto si interruppe.

Nell’affanno l’uomo sollevò il sedile. Riaccese i fari ed avviò il motore.
“Andiamo a casa, vale la pena di rischiare”….



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