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L'emiro VII - Il paese della libertà


di Foro_Romano
22.05.2015    |    11.675    |    4 7.6
"Ricordo che da sempre mi sentivo attratto dagli uomini..."
(segue)

I colpi si fecero sempre più stretti, sempre più violenti, sempre più feroci finché, con un urlo che tutto il palazzo sentì certamente, mi sparò dentro una quantità enorme di sborra. E tutti seppero che il matrimonio era stato consumato.
Le feste durarono tre giorni, tra canti, balli e gran quantità di cibo. Tutta la servitù con tutti i loro familiari, venuti apposta dalla città, parteciparono con noi alla nostra felicità. Mia e dell'emiro. Ma noi non fummo quasi mai con loro. Noi ci estraniammo. Per tre giorni. Ci alternammo tra il letto ed una grande vasca (o piccola piscina, si potrebbe dire) che era dall'altra parte della stanza, circondata di piante dalle foglie colorate. A volte Omar accendeva anche l'idromassaggio. Non avevamo tempo. Non avevamo orari. Quando la fame si faceva sentire, Omar suonava e qualcuno della servitù ci portava da mangiare e bere.
Il letto, poi, era una meraviglia. Molto grande, era fornito di baldacchino, con colonne dorate e tende azzurre raccolte verso di esse. Mi accorsi solo dopo il primo orgasmo che il soffitto del baldacchino era costituito da un enorme specchio che ci rifletteva, ci trasmetteva le nostre "azioni" da un altro punto di vista. Ogni volta che il mio uomo godeva del mio corpo, anche in maniera selvaggia, mi accarezzava, quasi a chiedermi scusa. Dopo avermi riversato addosso una serie di volgarità in diverse lingue, mi diceva tenere paroline tenere e dolci. Poi si addormentava. Io no. Il più delle volte non riuscivo a dormire. Vedevo estasiato in quello specchio la bellezza virile del suo corpo e quello mio. Ma non mi riconoscevo. Vedevo al mio posto il corpo di un qualche bellissimo attore americano. Quello non potevo essere io. Era come se vedessi un film. Stavo vivendo in un film.
Uscimmo solo una volta in tre giorni ma fuori tutto era silenzio. Era notte fonda e noi eravamo vestiti di poco. C'era solo la luce intensa della Luna. Mi condusse a piedi in una parte remota della tenuta dalla quale si poteva ammirare un bellissimo panorama, anche se non eravamo molto in alto. Da una parte brillavano le luci della città, dall'altra brillava un mare liscio, tranquillo, increspato da un leggero alito di vento fresco, certo più dell'aria che ci circondava. Mi strinse a sé, mi accarezzò la testa, mi disse di amarmi veramente, che andava oltre la sensualità e che la cosa gli aveva preso la mano. Quella che, ammise, era nata per essere solo un'esperienza diversa si era trasformata in vera passione. Avrebbe voluto che anche la sua religione, che tutto il suo popolo, comprendesse che anche questo Allah ci aveva donato per la nostra felicità. Che tutto il mondo e tutta la vita andava goduta come meglio sentivamo di viverla. Senza costrizioni di sorta. A quelle parole, alzai lo sguardo verso di lui, sollevando il viso dal suo torace, dicendo che anche io la pensavo così. E certamente anche il mio Dio. Mi aveva fatto piangere di felicità e le mie lacrime avevano bagnato il suo petto villoso. Me lo fece notare. Ci sorridemmo sopra e tornammo indietro.
Riprendemmo a fare l'amore e sesso sfrenato indisturbati. Ricevetti il suo grosso cazzo più volte in bocca e nel sedere. Mi strozzava il respiro e mi svangava ripetutamente il culo, a cui non lasciava mai il tempo di richiudersi dopo una violenta chiavata. Dolore e piacere erano mescolati senza interruzione di continuità. Quando arrivava al culmine, mi riempiva della sua dolce crema. Dico dolce per la sensazione di amore che provavo ma non saprei dirne il sapore. Ora acre, ora acidulo, ora amaro, ora dolce, ora era cremoso ed ora più liquido. Era il suo succo di maschio.
In un momento di pausa gli chiesi se aveva avuto altre esperienze omosessuali prima e perché si era deciso a fare questa scelta, anche se per lui, forse, non definitiva. Nella pubertà aveva avuto qualche ingenua esperienza con gli amici di gioco, quando in gioco si era trasformata la loro curiosità verso la vita. Ma nulla di più. Ribadì che anche quella volta era nata per gioco, per voglia di cambiare, di trovare qualcosa di diverso con cui riempire una vita resa vuota dal lusso. Però la cosa gli era sfuggita di mano e io l'avevo riempita troppo! Aveva quindi deciso di sposarmi, facendo un'eccezione riguardo l'età: non avevo quattordici anni ed ero già avvezzo a certe cose. Meglio così. Ci facemmo una risata su.
Da parte mia gli raccontai le mie prime esperienze. Ricordo che da sempre mi sentivo attratto dagli uomini. Sin da piccolo preferivo essere preso in braccio dagli uomini che dalle donne. E ogni volta che stavo loro in braccio li riempivo di baci in faccia. Da bambino io e mia madre andavamo tre mesi in villeggiatura estiva in un paese delle Marche. In collina ma poco distante dal mare. Mio padre ci raggiungeva nei fine settimana perché doveva rimanere in città per lavoro. Lì mi innamorai del capitano dei Carabinieri, napoletano, con due grossi baffi decisi, di un funzionario del Dazio, giovane, molto peloso, e di altri uomini del paese.
Fu lì che successe il fatto. Fu lì che lasciai la mia verginità, felice di lasciarla. Ogni settimana veniva la fiera. Un grande spiazzo era riempito dai banchi dei venditori. Ogni genere di merce. Forse più abbigliamento, merceria, oggetti per la casa e cose del genere e meno alimentari: il paese ne aveva a sufficienza di produzione propria. Uno di questi banchi era gestito da un meridionale (napoletano anche lui? boh) coi due figli. Non ricordo cosa vendessero. So solo che feci amicizia con uno dei figli. Io avevo sei anni e mezzo, lui era grande. Insomma, più grande di me. Giocavamo insieme. Un giorno, mi disse che mi avrebbe insegnato un gioco nuovo. Mi portò negli orinatoi pubblici posti a ridosso delle mura, fuori del paese. Mi voltò, mi fece calare pantaloncini e mutande e, lentamente, mi mise qualcosa nel sederino, facendolo andare su e giù. Il gioco mi piacque moltissimo e lo volli ripetere tutte le settimane finché, con mio rammarico, l'estate finì. L'anno successivo, appena arrivò la fiera e vidi il figlio dell'ambulante, lo portai agli orinatoi e gli dissi di rifare quel bellissimo gioco. Lui era restio, sembrava non capite. Fui io a tirarglielo fuori, così di poterlo vedere da vicino (l'anno prima non ero mai riuscito a vederglielo bene), ad accarezzarlo fino a sentirlo diventare duro sotto le mie manine forse già esperte, a farmelo mettere dentro. Questa volta mi fece un po' male, sembrava ancora più grosso, e questa volta potei sentire il calore che mi riempiva.
Quando finimmo dovetti dirgli di aspettarmi lì perché dovevo andare in bagno. Corsi nella camera della pensione che occupavamo e mi svuotai. Pensavo fosse un po' di diarrea ma mi accorsi che il calore che avevo provato dipendeva dal liquido che il ragazzo mi aveva messo dentro, come se mi avesse fatto una lavanda gastrica, per tanto che era. Perché l'anno precedente non era stato così? Fu in quel momento che mi resi conto della gaffe che avevo fatto. Avevo scambiato i fratelli. Ecco perché questo non capiva e fu il mio comportamento a fargli capire quello che il fratello aveva fatto. L'altro non c'era perché era partito per il militare, quindi l'anno precedente aveva 17 anni e io 6 e mezzo. Lui era più grande.
Ero stato violentato (con dolcezza però), lo avrei capito più tardi, ma così, con mio estremo piacere e, almeno allora, senza traumi. Avevo scoperto il gioco più bello del mondo.

(segue)

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