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Gay & Bisex

il giocattolo dello zio - Parte 5


di honeybear
30.04.2013    |    21.127    |    6 9.2
"“No… Non posso… Non ce la faccio…” E, nudo come un cane, scappai..."
Dalla macchina scese mio padre. Sembrava molto arrabbiato:
“Vi rendete conto di che ora è? Non rispondete al cellulare, men che meno ai messaggi… Ma che cazzo state combinando voi due, si può sapere?”
“È colpa mia, scusami Luigi. Mi sono messo in testa di finire questo lavoro – indicò gli attrezzi in parte smontati – e ho perso la nozione del tempo. Il cellulare devo averlo scordato chissà dove, forse in macchina, e non l’ho sentito…”
“Sì, ma lui! Lui il suo l’ha sempre con sé!”
“Era in silenzioso – mi giustificai – poi devo essermi appisolato e non ho sentito”
“Vabbè – rispose poco convinto – raccogli le tue cose e ti riporto da quella povera donna che è a casa sconvolta per la preoccupazione!”
In macchina nessuno dei due disse una parola. Giunto a casa mi fiondai a letto: non sarei stato in grado di fornire ulteriori spiegazioni a chicchessia. E nessuno me le chiese.
Prima di addormentarmi, ripensai ad ogni singolo momento dell’incontro con lo zio. Involontariamente la mia mano destra s’intrufolò tra le mie gambe cominciando ad accarezzare il mio uccello. Non m’importava se mio fratello mi avesse sentito mugolare: ero talmente elettrizzato da quanto successo che le coccole dello zio non erano bastate a placare l’adrenalina che ancora mi scorreva in corpo.
Partì una sega lenta e dolce al termine della quale mi addormentai profondamente.
La mattina seguente tutto si svolse nella più normale tranquillità: mia madre mi rimproverò riguardo l’uso, a suo dire irrazionale, che facevo del cellulare ma nulla di più. Credo che alla fine mio padre riuscì a calmarla.
La mia vita riprese il suo corso. Sporadicamente il mio pensiero correva a quella domenica irripetibile e la mano scendeva veloce a slacciare la patta dei pantaloni, dando libero sfogo ai miei ricordi.
Rividi lo zio in un paio di occasioni, ma non riuscimmo più a rimanere soli. Almeno fino al giorno in cui m’inviò un sms dandomi appuntamento al capanno per il tardo pomeriggio. Con una scusa, informai i miei genitori di non aspettarmi per cena.
In sella al mio scooter e con il cuore in gola raggiunsi il luogo dell’appuntamento. Lungo la strada pensai per l’ennesima volta a quanto accaduto tra noi, alla facilità ed al piacere con cui mi ero lasciato sottomettere da quell’orso così maschio e possente, alle sensazioni provate, al godimento che quell’uomo rude ed al contempo tenero, riuscì a darmi.
Immerso in questi pensieri giunsi a destinazione. Parcheggiai accanto alla sua auto. La porta del capanno era socchiusa. Mi avvicinai con cautela: dall’intero mi sembrava di sentire qualcuno gemere o sospirare. Lo zio dunque non era solo. O forse c’era qualcun altro e lui non era riuscito ad avvisarmi per tempo del cambio di programma.
Sulla soglia mi arrestai impietrito: seduti su altrettante poltrone c’erano lo zio e gli altri due fratelli intenti a masturbarsi l’un l’altro!
Vedevo le loro mani forti scorrere energiche sui cazzi degli altri, alimentando delle erezioni che mi sembravano mostruosamente enormi:
“Eccoti finalmente!” mi salutò lo zio Enrico sornione, dopo essersi passato una mano sulla lingua, prima di riprendere a giocare placidamente con la cappella dello zio Antonio.
Provai a dire qualcosa, ma le parole mi si fermarono sulle labbra. Non capivo cosa stesse succedendo, ma ci misi un attimo a realizzarlo.
Le gambe mi tremavano: il desiderio era di fuggire, eppure qualcosa mi tratteneva lì. Sicuramente quelle mazze enormi che nascevano da altrettanti triangoli di vigoroso e riccio pelo corvino esercitavano su di me un fascino non indifferente.
Lentamente avanzai fino ad inginocchiarmi di fronte a quella a me più familiare. L’assaggiai timidamente, quasi fosse stata la prima volta.
Tremavo. E nonostante tutto me la infilai in bocca fino a perdermi con il naso tra il nero dei peli pubici. Trassi un profondo respiro, aspirandone appieno l’aroma acre e cominciai a far scorrere la lingua sull’asta. La sentivo pulsare e fremere sul palato mentre la immergevo in quanta più saliva potevo. La estrassi: era completamente fradicia, tanto che alcune sbavate caddero a terra, e me la picchiai sulla punta della lingua e sulle guance.
“Sembra davvero bravo come hai detto” commentò lo zio Giacomo sorridendo e tirandomi a sé con la testa.
Avvicinai le labbra al secondo, grosso uccello, scappellandolo con la lingua.
Continuavo a tremare come una foglia; ripresi fiato.
Sfiorai la cappella rossa con le labbra. Lo sentii gemere. Facendomi forza lo presi in bocca completamente, cominciando a succhiare. La lingua passava e ripassava intorno alla cappella, avvolgendola in un abbraccio bagnato. Di nuovo, mi spostai ad insalivare il resto dell’asta. Lo zio Giacomo non riusciva a stare fermo e cercava di spingere l’uccello sempre più all’interno della mia gola. Dovetti fermarmi un paio di volte a causa dei conati di vomito, ma una volta preso il giusto ritmo, tutto divenne più facile. Sentivo le sue palle sbattermi sul mento mentre il mio naso tornava a perdersi nel folto di un bosco che ancora non conosceva. Godetti appieno di quel nuovo intenso profumo di maschio; ma qualcun altro mi reclamava: lo zio Enrico.
Mi avvicinai anche al suo cazzo. Lo presi in mano e ne baciai la cappella. Sussultò gemendo.
Interposi la mia mano tra il pube e l’asta spingendo quest’ultima verso di me fino a colpirmi le guance ed il mento.
Ripresi a leccare spingendomi fino a quei peli ricci e scuri che, come gli altri, mischiavano la fragranza della virilità a quella del sudore. Infine lo avvicinai alle labbra forzandolo ad entrare. Il mio palato fu inondato, per la terza volta, da un sapore amaro che annientò ogni mia volontà. Lo zio mi stringeva i capelli guidando la mia faccia verso quella pelliccia nera da cui tutto aveva inizio: voleva, al pari degli altri, sentirlo tutto nella mia gola. Ed io cercavo di accontentarlo.
Mi alternai per diverso tempo su quei tre membri enormi: le mie labbra bagnate non si stancavano di assaporarli, soffermandosi a giocare con il glande ed il piccolo sfintere. Me li strofinavo sulle labbra inebriandomi del loro profumo. Riprendevo poi l’azione di lingua per scendere fino ai coglioni che assaggiavo uno alla volta o insieme, lasciandomi solleticare il mento dei folti peli scuri che li ricoprivano.
Sentivo le aste tese allo spasimo: erano pronti a venire ma nessuno sembrava voler rinunciare a quel gioco voluttuoso.
Quando si decisero ad alzarsi, pensai: “Ecco, ci siamo!”
Mi sbagliavo di grosso: era solo l’inizio di una nuova partita!
Mi sfilarono la maglietta mentre mi facevano inginocchiare. Come un automa presi in mano i due cazzi che mi stavano a lato e in bocca il terzo. Iniziai a lavorarli contemporaneamente. In un attimo tutto intorno a me svanì: stavo godendo come mai in vita mia e i miei tre orsi godevano di me!
Avevo abbattuto un nuovo incredibile limite sulla mia personalissima strada della lussuria.
Il gioco proseguì a lungo: la mia ansia e la mia preoccupazione svanirono lentamente. La mia bocca sembrava non saziarsi mai di quanto le veniva chiesto d’ingoiare e si prodigava affinché le già consistenti erezioni che assaggiava, raggiungessero il limite estremo. Non trascuravo alcun dettaglio: succhiavo con foga le palle, gonfie e pelose, le baciavo. Le mordevo.
Ancora una volta, gli odori che si mischiavano nel mio palato erano quasi meglio di ciò che la mia lingua gustava: il profumo dei loro liquidi pre-spermatici era forte, acre, intenso come speravo lo fosse quello della sborra che di lì a poco si sarebbe riversata a fiumi.
Anche le mani non erano affatto stanche di massaggiare quegli enormi randelli che, a rotazione, impugnavano a fatica.
Il momento fatidico infine arrivò: i tre uomini brumirono. All’unisono. E caddero i caldi fiotti di crema chiara che mi inondarono dal volto all’addome. Il seme colato sulle labbra l’ingoiai mentre loro provvidero a pulire il resto. Tre lingue bollenti e ruvide percorsero ogni centimetro della mia pelle. Tre corpi villosi e sudati la inumidirono strusciandosi su di me. Sei mani rudi mi fecero mettere carponi prima di togliermi scarpe, pantaloni e boxer per poi rovistarmi dappertutto.
D’improvviso mi lasciarono solo. Come la volta precedente con lo zio. Si scostarono da me e fu allora che lo vidi.
Lo guardai con gli occhi sbarrati. Ero sconvolto. Ricambiò il mio sguardo con la stessa intensità. A differenza mia, pareva l’uomo più sereno del mondo quando, dopo avermi colpito svariate volte il naso con la cappella purpurea passando poi a forzarmi a prenderla in bocca, commentò:
“Potevate almeno aspettarmi!”
“Papà…” la parola mi si strozzò in gola.
Mi alzai. Cominciai a tremare in maniera convulsa. Stavo per vomitare.
“No… Non posso… Non ce la faccio…”
E, nudo come un cane, scappai.
- CONTINUA –
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