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La Baronessa alzò i lembi della veste, 1a parte


di sexitraumer
19.03.2012    |    31.739    |    0 9.2
"Richiamò di nuovo la serva di turno, che tanto sembrava metterci a tornare dalla pulizia del pitale…questa alfine giunse, e si vide dire con un tono..."
Il mondo di Toraldo e Olivina, Terra d’Otranto secolo XVI

Un paio di sbadigli spontanei annunciarono il risveglio della Baronessa; erano circa le dieci del mattino e le ancelle, sveglie fin da due ore dopo l’alba, avevano già aperto le imposte onde lasciar entrare la vigorosa luce del mattino che avrebbe dato il risveglio alla Baronessa. Per la nobildonna del Castello le campane dei cinquant’anni non avevano ancora suonato, ma neppure poteva dirsi che avesse più trent’anni, l’età della risolutezza, oltre che della massima bellezza. No, la vera Signora del castello, la moglie del mio signor Barone cari moderni, era in un’età - direte voi - critica, nella quale aveva paura della menopausa; già fiera madre di tre figli, un maschietto erede ormai pubere, e due baronessine future spose entro un decennio di qualche altro ricco nobile, era decisa a non darsi ancora per vinta, benché percepisse in tutto il suo significato l’avanzare degli anni. Doveva decidersi, lo sapeva che era tardi; pur sentendo l’andirivieni della servitù aveva continuato a dormire lo stesso. Il soffitto di pietra chiara a volta era in sé luminoso ed a quel punto gli occhi da semi chiusi ed appannati si erano ormai aperti. Con uno scatto lasciò le lenzuola, e scese dal lettone e, sollevatasi la veste da notte, si accovacciò sul gran pitale che le ancelle avevano già pulito e sistemato perché accogliesse l’urina della nobildonna. Vuotata e rilassata la vescica, liberò anche il retto con un paio di robusti peti; gesto questo ben poco nobiliare, ma che provocò nel suo viso fine una certa soddisfazione. Rialzatasi in piedi azionò il cordame del campanaccio, e la sua serva si precipitò a prendere il vaso da notte per vuotarlo altrove. Mentre la serva, una schiava negra della baronia regolarmente acquistata, portava via il vaso pieno dell’ancora calda urina della donna, la Baronessa andò allo specchio e spogliatasi della veste si guardò nuda più volte; si avvide che i peli della vulva erano diventati lunghi; era di quelle donne che li avevano serici e biondi, ma ormai troppo lunghi. Si voltò per rimirarsi le natiche, e quelle sembravano, nonostante l’età e ben tre parti a buon fine, ancora piacevoli a vedersi. Richiamò di nuovo la serva di turno, che tanto sembrava metterci a tornare dalla pulizia del pitale…questa alfine giunse, e si vide dire con un tono scortese:
“Sei troppo lumaca, devi tornare prima la prossima volta !”
La Baronessa la rimproverò nuda ma eretta, dritta sulla schiena; la serva attese i nuovi ordini con un inchino davanti alla padrona dopo aver risistemato il pitale pulito sotto il letto.
“Portatemi dell’acqua calda e la tinozza, voglio prendere un bagno !”
“Sì, Madama, subito fatto.”
“Andate ! Svelta ! E fatti aiutare dalle altre ! Provvedete per la colazione, anche!”
La tinozza venne presto portata, e la donna vi entrò sedendovisi; due serve portatrici vuotarono dell’acqua arricchita con dei petali di rosa inclinando due giare sia verso il corpo di lei, che nel recipiente; poi si precipitarono a prenderne dell’altra. Entro sei-otto andate e venute delle sue serve la Baronessa aveva abbastanza acqua tiepida e profumata da lasciare scoperto solo la metà superiore del suo corpo. Mentre si rilassava una delle ancelle attese che si bagnasse i capelli, poi iniziò a frizionarglieli con degli oli comprati al mercato di Otranto da donna Ester, ex confidente della Baronessa, e adesso la capo coordinatrice delle schiave del Castello, implicitamente al loro livello, quello più basso. Istintivamente, mentre il lavaggio dei capelli la rilassava, la donna portò la mano alla sua vulva piacevolmente scaldata dall’acqua, e se la prese e se la smosse come per assicurarsi che fosse ancora morbida alla presa. Gradì il gesto da lei stessa compiuto su quel suo corpo sentendosi gratificata dalla morbidezza della sua vulva. Un lampo di ottimismo attraversò la sua mente, per cui mentre una delle schiave le lavava i capelli, diede nuove disposizioni:
“Lia !”
La servetta nera rispose:
“Comanda voi padrona, Lia pronta.”
“Recati alla Chiesa Matrice, sai già dov’è, e tosto chiedi nella sagrestia che chiamino Suor Paolina; una volta lì ditele di venire qui da me subitissimo per uno delli servigi sui particulari che in passato avemmo ad apprezzare. Le specificherete che mi serve lo servigio del bimestre, anche se di mesi ne son trascorsi tre…”
“Suora Paolina, lo servigio del bimesse, anche se tre sono passati, io dire a ella, padrona,…io va.”
“Ecco andate, andate. E voi intanto, portatemi la colazione…”
La bassa servetta formosa lasciò il Castello mentre la Baronessa si apprestava a bere il latte con il miele, alimento questo di cui andava golosa, ritenendolo un elisir di giovinezza secondo credenze risalenti agli antichi greci. Lia, ormai da qualche anno presente al Castello, aveva imparato, non senza l’aiuto di Donna Ester, a muoversi per il borghetto e per il paese. I paesani la conoscevano come una negretta carina che riceveva sia gli sguardi dei giovani curiosi del suo aspetto, sia il saluto delle persone più anziane, le quali in misura più o meno eguale a quella dei monelli, tendevano occasionalmente a sfotterla o a parlarle dietro; nessuno però avrebbe mai pensato d’impedirle di girare per il paese, benché da sola corresse qualche rischio. Ogni tanto, qualche alabardiere di ronda la fermava per chiederle chi fosse, dove andasse, da dove venisse…erano solo scuse per guardarla un po’ più da vicino, e per palpeggiarla per vedere se ci stava. Anche il mio amico d’infanzia, oggi uomo d’arme della baronia, Barnabito, a sua volta meticcio, cercò di conoscerla onde portarsela al letto. Dato che io gli avevo confidato di essermela fatta. Ignoro se ci sia riuscito; comunque Lia non disdegnava un po’ di sesso con i maschi intraprendenti. Uscita dal borghetto antistante il Castello si recò di corsa verso la Chiesa Matrice. Lia una volta cristianizzata, divenne pratica degli itinerari da seguire e conosceva bene anche l’ingresso della Sagrestia, di lato. Era aperto, ma perché timida o educata (a bacchettate), bussò egualmente:
“Toc, toc !”
Una voce femminile non tanto gentile disse:
“Avanti, è aperto.”
La servetta avanzò timida fin addentro sollevando l’orlo della bianca gonna come una vera signora; se non altro il nostro buon vecchio Barone (e la sua augusta più giovane moglie) dava alle femmine sue, anche l’ultima, di che vestirsi con dignità:
“Permette ? Sor…sor…sorella ?! Vero ?!”
Una figura di donna piuttosto anziana con una scopa in mano smise tosto di pulire e si fece avanti verso l’uscio che Lia aveva appena attraversato. Aveva lo sguardo falsamente ostile, più o meno attenta a chi aveva dinanzi.
“Avanti, avanti…ah guarda un po’ chi arriva ! Ormai è proprio a due passi l’Affrica…uhm vi facevo più alte…siete affricana figliola, vero?”
La corpulenta suora, molto più alta di Lia, diede il benvenuto all’ancella, che timida senza saper se fare un sorriso, le chiese:
“Siete lei Suor Paolina ?”
“Siete voi, non lei ! Che volete signorina ?! Vi mandai a chiamare ? Non ricordo davvero. Per le pulizie qui ci penso io finché Nostro Signore me ne darà la forza.”
“Perdono se io che negra di altrui qui da voi così sorella, ma la padrona, la signora baronessa, vuole vedervi tosta !”
“Tosta ?!”
“Sì, tosta, subita, no, io voleva dire ecco…subito…La Baronessa chiede che lei vegna a Castello per lo serviggio del bimesse, che mesi tre sono passati…però lo serviggio del bimesse…che è particulare a padrona baronessa. A mattina era nuda co’ tanti dei peli di sua… insomma sua fessa !... lunghi fino a qui !”
Lia si spiegò ad alta voce, ed a gesti, indicando il proprio bacino ed il sesso:
“Parlate piano signorina ! Che il volgo lì fuori no havvi a trarre cognizion delle abitudini della padrona vostra! Lo dico per voi se non volete esser punita, che madama la castellana al suo privato ci tiene assai. E poi questo è loco sacro, non dite maleparole !”
“Padrona Baronessa parlato a me ha di vostro serviggio di bimesse…”
“Lo servigio del bimestre ! Vero signorina ?! Io in verità ho capito ciò che vuole la padrona vostra !”
“Sì, così disse la Baronessa poca anzi!”
“Va bene, signorina, or vi chiedo fate luogo ! Attendetemi lì fuori ! Che arrivo, ed anche se non sono ancora vecchia, mi darete il vostro braccio fuori.”
Lia andò ad aspettare fuori, e dopo una manciatina di minuti nei quali i passanti guardavano incuriositi questa graziosa e formosa negretta, uscì anche la corpulenta suora con uno scrigno ben chiuso alla mano del quale non avea voluto render partecipe la ragazza. Suor Paolina era donna dabbene e conosceva come nascean li pettegolezzi malevoli. Lia fece per prenderlo, ma la Suora non glielo permise. S’incamminarono sottobraccio ed in un quarto d’ora raggiunsero il Castello e Lia introdusse Suor Paolina, che conosceva la strada, al cospetto della Baronessa ancora nella tinozza. La baronessa le volse lo sguardo verso la suora che poté avvedersi quanto fosse ancora bella e desiderabile la sua singolar cliente:
“Son qui, ringraziando Iddio, mi avete fatto chiamare voi altezza ?!”
“Sì, suor Paolina. Qui s’abbisogna della habilitate vostra colle forbici e lo rasoio.”
La Baronessa si erse nuda davanti alla Suora, e mostrò all’anziana sposa di Nostro Signore il suo pube roseo chiaro ormai troppo ricco di biondo pelo. Non sembrava credere agli occhi suoi suor Paolina, ma i peli pubici della Baronessa ormai formavano quasi un mezzo pennello; chiaramente almeno in parte la Baronessa si era sforbiciata già da sola. Due ancelle colleghe di Lia coprirono la donna quasi per intero con dei panni di cotone onde asciugarne il corpo. Dopo un paio di minuti ritirarono gli asciugamani e tornò nuda. Lia prese un asciugamano più piccolo, asciutto, e vi avvolse i baronali capelli della nobildonna che di tanto in tanto roteava le pupille per valutare il servizio di Lia. La castellana non ritenne opportuno coprirsi il sesso con le mani essendo a proprio agio nuda tra le sue serve. Lo sguardo della suora rimase fisso a terra non essendo la religiosa interessata a troppo ammirare la bellezza femminile. La Baronessa, disinvoltamente nuda, batté le mani due volte, e le serve lasciarono sole le due donne. La suora abituata alle richieste della Baronessa attese che fosse lei a parlare:
“Allora suor Paolina, depilateci anche ai lati e sopra, vorremmo come una macchia in guisa di prato ben corto più o meno qui…lo pelo sì, ma non tanto, né troppo esteso qui sul monte che sapete voi!”
La Baronessa indicò alla suora dove doveva lasciare il pelo dopo averlo convenientemente accorciato. Quindi nuda, con della nobiliare grazia, si stese sul letto allargando le cosce per fare spazio alla sua depilatrice di fiducia. La religiosa si avvicinò, e depose lo scrigno su una sedia, quindi si fermò ad ammirare il sembiante di quella curata quarantenne e qualcosa della Baronessa, che supina attendeva il servigio di pulizia. I capelli di lei vennero liberati dall’avvolgimento incompleto di Lia non appena la Baronessa poggiò la testa sul cuscino. I suoi seni non del tutto cadenti (ma non erano mai stati grandi) erano apparentemente adolescenziali e regolari dotati di due piacevoli capezzoli. Il candido bianco del suo ventre, appena arrotondato dai tre parti, faceva poco contrasto con la sua peluria pubica, serica e non riccia. Nacque veneta la Baronessa, ricca e graziosa rampolla di una famiglia di mercanti della Serenissima: persone gradite sia dalla casa D’Aragona dei nostri amati viceré, che dalla Sublime Porta…qui da noi la Baronessa assorbì e fece sua la nostra terra d’Otranto, il suo sole, il suo mare, il suo vento. Sposò giovane un valido barone più anziano di lei, che dopo averle fatto fare gli eredi, stava invecchiando in compagnia dei suoi vizi di palato, e di mani nelle parti basse delle serve del maniero. La suora accortasi di aver ammirato un corpo di donna ancora erotico seppur non giovanissimo, ritenendo di aver fatto peccato ammirandone la conservazione, si fece il segno della Croce ad occhi chiusi, poi voltatasi aprì lo scrigno, ed estrasse i ferri del mestiere: una forbice lunga più o meno una mano, ed un affilato rasoio tenuto pulito avvolto in un panno di cotone bianco. Aspettò un istante come a prender coraggio, quindi iniziò mettendo la mano con le dita medie a forbice sopra la vulva depilanda della Baronessa, e raccolti una ditata (di lunghezza) di quei serici peli biondi provvide a tagliarli. Nel farlo era inevitabile che toccasse con i polpastrelli il sesso della nobildonna; una vulva tutt’altro che intenzionata al riposo. La religiosa nel poggiarvi le dita sentì il calore, e la piacevolezza del contatto caldo e vellutato con quella pelle con venti anni meno dei suoi. Si auto reprimeva recitando delle preghiere in latinetto et in vulgare deformando le due lingue con una rima finale. Pronunciava quelle parole a mezza voce, imbarazzata senza farle uscire dalle labbra, così almeno credeva lei…e neanche a precisarvelo, cari moderni: la Baronessa restava spesso divertita da quei bisbigli anti tentazione della brava “depilatrice di corte”. Intanto che la suora la depilava coscienziosamente tagliando i peli perché non fossero più alti di un polpastrello di mignolo, la pressione protettiva della sua mano, scaldava la vulva che ancora reagiva al tocco ed al calore, con sottile compiacimento della Baronessa che si faceva sfuggire qualche rantolo di quelli che ai suoi maschi amanti non sarebbero dispiaciuti. Ovviamente il palmo della calda mano nuda e sicura della religiosa aveva sfiorato più e più volte la clitoride della nobildonna.
“…Ahn!”
Per tutta risposta, mentre il taglio proseguiva a colpi di forbice:
“…et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo…”
La depilatrice pregava per non dover restar turbata da quella vulva ancora piacevole perché pulita e profumata dai petali delle rose nell’acqua…i suoi colpi di forbice erano rapidi, precisi, e sicuri. Il tempo di due preghiere, e la vulva era pronta per la rifinitura con gli oli d’oriente ed il rasoio. Dei delicati colpetti di spazzola allontanarono i peli tagliati della Baronessa non senza un po’ di solletico. La suora prese un vasetto dove vi era custodita una crema densa ed oleosa, e con un pennello ne mise su tutto quel biondo pube dal pelo oramai corto. Finito che ebbe di stenderla ben bene, prese l’affilato rasoio con la sinistra e rifattosi il segno della Croce passò il rasoio alla mano destra, e rapida la sinistra poggiò sopra la clitoride onde proteggere l’organo di senso della Baronessa. Quest’ultima capì e tenne le cosce aperte e ben ferme. La Suora avvicinò il volto per meglio veder dove tagliare, ed iniziò a dare i primi leggeri colpi di rasoio di lato, piccoli e rapidi onde asportare del tutto il pelo. Dopo una ventina di respiri e sospiri della Baronessa, la Suora silenziosa e concentrata, che sembrava che non respirasse punto, spostò la mano sinistra verso la parte orientata stavolta verso la coscia destra. L’isola di pelo era stata creata come da istruzioni della Baronessa, ma l’opera dell’abile suora era solo a metà. Adesso si trattava di eradicare una seconda volta quei filiformi gambi biondi alti non più dello spessore di una ciglia dopo il primo taglio. La suora avendo rivisto ancora la vulva di lei piacevole, ripulita dall’eccesso di peluria col grazioso fiorellino ben in vista voltò le spalle alla Baronessa, che finse di non aver visto quel gesto irrispettoso, ed andò verso lo scrigno a ripulire col il panno lindo il rasoio recitando ad alta voce un’Ave Maria in latino.
“Ave Maria, Gratia plena, Dominus Tecum, Benedicta tu in mulieribus…”
Passò quel panno più volte sulla lama secondo la lunghezza senza tagliarsi mentre pregava, e poi contro una piccola superficie di una certa pelle tesa in dotazione allo scrigno onde riaffilarlo, e non smise fino a quando non fu certa che il rasoio fosse di nuovo pronto; cosa che valutò osservandolo alla luce che trapelava dalle finestre. Poi tornò dalla Baronessa che attendeva a cosce larghe e rilassate. Dopo aver ripassato la crema sulla parte depilata della vulva usando delicatamente una pennellessa, ai lati, coprì di nuovo la clitoride con la mano sinistra, e tagliò via le radici rimaste con più o meno gli stessi colpi rapidi, delicati e sapienti dati prima. Ripeté l’operazione anche a destra ed in breve la vulva della Baronessa era stata rimessa a nuovo. Nelle parti dove il rasoio aveva lavorato la seconda volta la vulva della Baronessa era glabra. La nobildonna si alzò, e d’abrupto comandò:
“Non mettete via gli arnesi Suor Paolina ! Non vi abbiamo ancora congedata…”
“…et in hora nostrae mortis, amen. Ditemi illustrissima !”
La Baronessa si voltò a pancia sotto, e mostrò il suo baronale culo alla religiosa. Il panaro della Baronessa era ancora bello, regolare, con poca buccia d’arancia; due tondi ovali di carne da ben stringere o da baciare secondo la fantasia del momento. E dopo essersi assicurata di avere l’attenzione della suora disse:
“Degnatevi di scostar le natiche. Aprite lì, proprio lì, e non temete, guardate !”
“Santissima…non vi sarete dunque amicata a Satanasso ?”
“Vada al Diavolo il medesimo! Aprite vi dico…”
La suora rassegnata scostò le natiche, e vide l’ano roseo striato con dei peli a raggiera della Baronessa, lunghi anch’essi. Gelida la suora chiese:
“Mi sembra che sia a posto, così ci fece Iddio in fondo, quindi cosa volete illustrissima ?! Son pulitrice, non cerusico.”
“Con lo sesso nostro siete stata bravissima, come sempre ! Ma se Iddio me l’avesse domandato prima di creare l’uomo e la donna, gli avrei detto di non metter così vicini due buchi così importanti…e poi proprio colli peli tutti e due !... adesso, ecco ! Come dire ?! Insomma compiacetevi di togliermeli anche lì dietro. Staremo ben ferme, e cercheremo di non farvi peto alcuno, dacché ricevemmo un’educazione da baronessa…allora ?!”
La Baronessa lasciò la posizione a pancia sotto per una più pratica posizione canina nella quale si scostò le natiche decisa mostrando l’ano roseo e pelosetto. La suora non approvò quel pratico necessario gesto, limitandosi a dire:
“Li peti son necessari onde far uscir li fluidi di troppo, ma lì dietro, dove ben m’accorgo che ispira li cattivi sentimenti Satanasso, mai le mani in vita mia ci misi illustrissima.”
La Baronessa, delusa, tornò a pancia sotto, seccata per l’atteggiamento moralista della sua depilatrice privata; era stata nei giorni precedenti, mi disse Donna Ester spettegolando, indecisa se rivolgersi ad un cerusico chirurgo o a quella suora, che aveva saputo desse consigli e conforto alle femmine del borgo, molto brava con la pulizia intima…
“Non vediamo lo problema, consentiteci! Ma se siete brava davanti, lo sarete anche dietro, orsù diteci come dobbiamo metterci. Vi pagheremo per doppio lo servigio, non fatevi di bile con noi !”
Pronunciò queste parole senza neppure voltarsi con l’interlocutrice, la quale rispose:
“Ma io altezza, non so se vi rendete conto, son timorata di Dio ! Perché mai vorreste toglierli anche lì ?”
Pronta replicò la nobildonna:
“Solo perché noi si vada di corpo più pulite, ringraziando Dio che ci andiamo…e voi suor Paolina avete la mano ben ferma ! L’abbiamo ben visto ciò, mentre ci depilavate la fessa, perdonate la vulgarità ! Un chirurgo, riteniamo, ci costerebbe assai…e poi cosa vorreste ? Che noi si apra codesto pertugio a maschio diverso dallo marito nostro illustrissimo ?! Questo volete ?!”
La Baronessa nervosamente riscostò brevemente una delle natiche. Suor Paolina sembrava non volerne sapere…
“Perdonate mia signora, ma li cerusici ci sono apposta ! Di quel pertugio si preoccupano solo le donnacce delle taberne con la soldataglia, e gli ubriaconi, e a quelle sanguina assai…e voi Baronessa avete già un buon fiore - Dio mi perdoni ! - molto desiderabile, sul quale io, tutto sommato e con la grazia di Dio, debbo lavorare poco ! Tanto dovrebbe bastar per consumar lo matrimonio…anelate dunque a proporre al marito vostro, com’io penso per sicuro, coito contra Deum come le folli forsennate ? O fu lui a proporvelo ? In tal caso ditegli…”
L’anziana suora era stata una gran faccia tosta. Come osava intromettersi tanto ?! Anche una sua parente la Baronessa l’avrebbe fatta battere per molto meno, mandando la parentela ai turchi...ma con suor Paolina, maligna, fu ipocrita benché il suo ragionare fosse inattaccabile nella sua logica; dandole le spalle precisò a voce ferma:
“Aneliamo, per vostra norma, a presentarci pulite dopo la defecazione a lo marito nostro, Paolina! Fu questo un peccato ? Vi paghiamo doppio imperocché vogliamo meglio ripulirci dopo ! Perché ci fate ripetere ?! E poi, a parte il nostro tedio, vi facciamo notare che poc’anzi stavate tacciando con opportuni giri di parole la nostra augusta persona di curiosità e passione per la sodomia !…Volevate offenderci per sicuro ! Se volete che ne parliamo al Vescovo…! Dopo l’anni qui da noi trascorsi nella nostra piacevole campagna, io vi chiedo: v’aggraderebbe d’accudire le coetanee vostre colleghe di Capo Leuca?...no, vero?!”
La Baronessa, quasi alterata dalle osservazioni dell’anziana suora, aveva omesso il Suor limitandosi al nome; era il suo modo di farle notare che se l’avesse troppo contrariata l’avrebbe considerata una popolana impudente, e come tale -chissà ?! – l’avrebbe fatta battere, e cacciare. Certo no ! Era pur sempre una religiosa. Tuttavia mi venne raccontato dalle serve origlianti, cari moderni, che Suor Paolina ebbe del coraggio, e precisò senza indugi alla Baronessa di che natura era la missione in cui era più brava: l’educazione alla cura del sesso alle bambine, alle ragazze, ed alle madri di famiglia; la Baronessa che aveva un suo discreto servizio d’informazioni, era perfettamente al corrente dell’attività lodevole di quell’arcigna donna presso le femmine del borgo:
“Io curo gratuitamente le povere, e le pute quelle umili; ma per lo buco delle puzze non saprei come fare ! – e rifacendosi ostentatamente il segno della Croce proseguì: - Mai permisi a Satana di farmi appassionare al di dietro delle donne ! Son donna, e suora sì felice quando la donna comune mi dice che lo marito desìa la moglie sua istessa, della cui vulva parata a ben provocarlo son leggera complice ! Ma, - Dio mi perdoni ! - solo perché lui non abbia a tradirla con le pute portandole lo scolo!”
La Baronessa ebbe un moto di stizza a sentirsi nominare la malattia delle pute; ma ebbe comunque la fredda pazienza che la contraddistingueva nella sua piccola corte. Forse suor Paolina, che ben sapeva che alla Baronessa il rettal coito non dispiaceva, la stava mandando per lunghe come per chiarire che opinione avesse delle donne spregiudicate; la Baronessa tuttavia era disposta a riconoscere il posto che la religiosa si era guadagnato nel borgo od anche nel paese; la Baronessa cercò ancora una volta d’esser conciliante, sperando che fosse l’ultima volta che doveva pregarla.
“Per ciò che fate per le ragazze dello borgo, financo le pute, noi v’ammiriamo, e per la cura della vulva nostra siam felici di pagarvi Suor Paolina ! Una più brava di voi invero qui non havvi. Perciò or vi diciamo: prendete li glutei nostri come meglio vi occorra, che di voi ci fidiamo ! E procedete ! Paga doppia se non ci tormenterete ancora! Dobbiamo metterci a carponi ?!”
La suora, recependo il tono deciso della Baronessa, sudò freddo; poi asciugandosi la fronte, si rifece il segno della Croce, e rassegnata sussurrando disse:
“E sia ! E Voi Dio perdonatemi per la mia habilitate a render la malizia a questa peccatrice acciocché lo marito suo peccaminoso disìo ne tragga …”
La Baronessa, che avea sentito quei sussurri, divertita chiese sorridendo; la parola “peccaminoso disìo” doveva esserle piaciuta assai:
“Dunque ?”
La suora disse:
“Solo un tentativo, e potrei pure farvi male…questo sappiatelo altezza!”
“Ci fa male anche di strappar lo sterco dalli peli infami Suor Paolina ! A strappar vien via lo pelo tutto, ed è doloroso assai. Licenza vi diamo di correre il rischio. Non sarete punita, orsù!”
La nobildonna, ancora tutta nuda, si apprestava a mettersi in posa canina allargando le natiche quando suor Paolina la fermò d’istinto e le disse:
“Mettetevi di fianco, e lasciatemi scostar la natica vostra senza movimento veruno quando ve lo dirò come d’imperio!”
La Baronessa, piazzatasi di fianco formando col bianco corpo una lettera esse, si voltò, e disse:
“Fate pure Suor Paolina! Secondo il vostro comando ! Prego !”
La Baronessa diede le spalle (ed il culo) a Suor Paolina, che scostò verso l’alto la natica superiore vista di fianco, e metà del peloso muscoletto roseo venne ben illuminato dalla diurna luce. Aveva un che di peccaminoso, ancorché era solo un muscoletto in guisa di anello con dei disordinati peli ad ornarlo. La suora valutò le dimensioni guardandolo da vicino come fosse un cerusico, e con esse mentalmente il tempo che il rasoio avrebbe passato su quella delicata superficie striata pronta a reagire ad una eventuale lesione. Quindi disse come a dar un ordine:
“Altezza, terrete la natica alta reggendola da voi stessa, ch’io debbo scostarvi un poco l’altra, e tagliar lo pelo ad un tempo ! Voi impegnerete una mano, io due! Venite più dietro, la natica che scosterò io, quella di sotto, la voglio fuori dal bordo del letto!”
La nobildonna eseguì collaborando e si risistemò. Suor Paolina passò la crema sulla mezza porzione di quel buco di carne scoperta, e dopo qualche secondo, quando fu certa che la Baronessa tenesse ben ferma la natica verso l’alto afferrò il rasoio, e tagliò via delicatamente quei peletti come aveva fatto con quelli della vulva. Ci vollero pochi angosciosi secondi, e la prima metà era libera dai peli. La suora usò la propria mano, con cui aveva scostato la natica, per allontanarli sporcandosene il palmo dei resti della crema e dei peli. Si allontanò un attimo per nettarsi la mano col tovagliolo che avvolgeva il rasoio, poi tornò al culo della Baronessa. Per la seconda metà la Baronessa dovette alzarsi, e mostrato il corpo snello per intero, si rimise di lato dalla stessa parte onde permettere alla luce d’illuminarle l’ano abbastanza da permettere alla suora di tagliare in sicurezza la seconda semi corona di peli. La suora passò la crema, e dopo aver risollevato la natica cercò il giusto movimento, quindi passò di nuovo il rasoio, e l’ano roseo della nobildonna restò libero dai peli. Seguì la pulizia, poi disse alla Baronessa:
“Altezza ho finito, siete di nuovo glabra, proprio lì adesso!”
Divertita per la riuscita dell’operazione di pulizia estrema scese dal letto, si diresse davanti allo specchio, e cercò di vedere il lavoro fatto dalla pratica suora. Ne rimase soddisfatta, e si diresse nuovamente dentro la tinozza. La suora che aveva sudato per la tensione durante tutta l’operazione ignorò la sua cliente, e ripose gli attrezzi nello scrigno. Attese però che la donna la congedasse prima di andarsene; la Baronessa continuava a passarsi la spugna di acqua sul corpo, quindi disse:
“Suor Paolina, andate nell’offizio di Messer Toraldo, l’intendente nostro, e fatevi liquidare li dieci ducati, come d’accordo. Le serve v’accompagneranno una volta fuori dalla stanza nostra…detto questo vi saluto e arrivederci allo bimestre che viene…”
“Perdonatemi illustrissima, son venti, li ducati ! Debbo rammentarvi che avevate promesso il doppio della somma poiché doppio servigio vi feci poc’anzi, ed andranno, aggiungo, in massima parte alle opere di caritate…”
La Baronessa era contenta come una ragazzina, e aveva dimenticato tre cose: la quasi lite di prima; il plurale maiestatis con il quale non aveva impressionato la suora più di tanto; e manco a dirlo la somma pattuita, quella corretta.
“E sia ! Darò ordine che sian venti ! Manderò una serva che avverta immantinente messer Toraldo. Non vi trattengo oltre, e vi ringrazio. ”
La suora non sembrava rinunziare all’idea di una predica alla Baronessa, una peccatrice che lei riteneva di rango. La Baronessa, avendo ottenuto ciò che voleva, voleva esser lasciata sola. Le sorrise seduta nuda nella tiepida tinozza guardando in direzione dell’uscio tenendo le mani sul bordo di legno.
“Ringraziate Iddio che mi diede mano ferma, onde compiacervi lì, solo dove Satanasso invita a entrare. Ricordatevi di confessarvi illustrissima. Altro non ho da dirvi ! Vi benedica Dio, mia povera peccatrice! E se siete la donna onesta che dicon tutti, non cedete a Satanasso!”
Voltatasi la suora l’allegra Baronessa fece i dovuti scongiuri pensando “Povera, mai!” e tuttavia rispose:
“Non mancherò, e che Dio ve ne renda merito. Andate.”
La Baronessa distolse lo sguardo e proseguì con il trastullo tra un lavacro e l’altro. E la suora chiese alle servette disposizioni su come raggiungere il mio uffizio dove mi guadagnavo il desinare mio e per la moglie mia Francesca, non senza distrarre qualche moneta delle gabelle dovute al signor Barone mio. La religiosa si presentò davanti a me accompagnata da un’anziana serva bianca che bussando senza entrare disse facendo capolino dall’uscio:
“…perdonate messer Toraldo, qui con me havvi suor Paolina; la Baronessa disse che avete da liquidarle venti ducati… secondo la legge, beninteso !”
La serva, una cinquantenne di nome Amalia, mi strizzò l’occhio ricordandomi che data l’ingenuità della suora potevasi tentare un prelievo “a due metà”; come ragioniere del Barone m’intendevo di tasse, gabelle, e diritti di bannalità; ero perciò autorizzato a trattenere una ritenuta su ogni pagamento la cui percentuale era pari al cinque per cento per ogni transazione tra il patrimonio privato baronale e gli altri privati. Con suor Paolina il mio prelievo fu pari al doppio: 2 ducati sui 20 dovuti, e naturalmente “facemmo a due metà”: 1 al sottoscritto ed 1 alla serva furbetta Amalia…in fondo pagava il Barone con il suo patrimonio privato…certo, ci fosse stato l’avvocato San Fedele, il mio superiore, o Messer Vezio, il capo della servitù, l’imbroglio non avremmo potuto tentarlo; questi ultimi erano a conoscenza che l’imposta sulle transazioni era vigesima pars e non decima. Esordii con suor Paolina facendole cenno col capo che poteva entrare:
“I miei rispetti suor Paolina ! Ora vi darò la somma…a cosa debbo imputarla ?”
“Che volete dire messere ? Di finanze poco m’intendo…”
“Intendevo, per che cosa sono ?”
La suora cambiò espressione: da umile a garbatamente ostile per l’imbarazzo di dover parlare al sottoscritto della privatezza intima della Baronessa…
“Ah,…figliolo ! Avete zelo, non havvi dubbio alcuno. Diciamo, cose delicate, che nomar di preciso,…ecco non si puote ! Aiuto e pulizia del corpo certo, sarebbe materia delicata messere per sole donne…ed io non vorrei far torto alla castellana…”
Da fuori la porta Amalia mi fece capire a cenni che la nostra Baronessa si era fatta depilare; maliziosamente ridendo Amalia indicò anche il di dietro col proprio dito…magnanimo dissi all’imbarazzata suora:
“Ah, non preoccupatevi comprendo. Scriverò: abbellimenti vari.”
“Oh, bravo figliolo, vedo che compreso avete la situazione.”
“Ma tornando a noi, son desolato ! Debbo avvertirvi che per legge debbo trattenere due ducati come ritenuta imperocché le transazioni e li pagamenti son tassate per decima parte…quanto vi dovrebbe la Baronessa ?”
“Promise in verità venti ducati come d’accordo per lo servigio resole per questo bimestre.”
Intervenne da fuori la serva Amalia:
“La signora Baronessa le accordò venti, ma dimenticò la ritenuta…”
“Oh, bene, il conto è presto fatto: ve ne liquido diciotto ! Due son d’imposte ! Compiacetevi d’attendermi, intanto accomodatevi, anzi sedetevi sorella !”
“Grazie giovinotto, fate, fate, voi che ve n’intendete assai. Qui havvi il mio sacchetto, prendete…”
Mi recai nella stanza attigua e prelevai venti ducati da taluni sacchetti; due me li misi in tasca, quindi tornai dalla suora che mi attendeva seduta con lo scrigno sulle gambe. Li contai davanti a lei e glieli consegnai dopo averli avvolti in un fazzoletto bianco che lei stessa all’uopo mi aveva dato:
“…e diciotto ! Son vostri sorella.”
“Grazie tante figliolo, andranno quasi tutti alli poveri del borgo…”
“Sia lodato Gesù Cristo, sorella.”
“Sempre sia lodato figliolo. Mi accompagnate voi signora ?!”
“Certamente suor Paolina, per me è un piacere accompagnarla. Andiamo.”
La religiosa ci lasciò, come fece tre o quattro passi avanti ad Amalia, quest’ultima si voltò verso di me, e raccolse al volo il ducato che le lanciai immediatamente. Poi finì d’accompagnar fuori dal maniero la suora perché se ne tornasse alla Chiesa Matrice. Nel frattempo la bionda Baronessa aveva indossato un vestito nero con un cappello dotato di velo annerito; il vestito aveva una discreta scollatura e lasciava anche le gambe e le caviglie coperte. Era vestita come se andasse ad un funerale, o ad un esecuzione capitale; aveva disposto, con l’approvazione del Barone illustrissimo, che Messer Vezio andasse con lei per discreta ed efficiente scorta; l’attempato capo e guardiano del personale era un uomo molto curato e sveglio, e sapeva ben condurre una carrozza nella quale s’accomodò da sola la signora Baronessa. La vettura dopo un paio d’ore di viaggio per le pur sempre perigliose strade che portavano verso Otranto arrivò nella baia, e tosto si diresse verso la Gran Locanda d’Oriente dove usavano prendere alloggio sia li mercanti adriatici, quelli de’ Venezia la Serenissima, sia taluni altri mercanti orientali, quasi sempre degli egiziani convertiti alla cristiana fede, ad ogni modo. Quando le relazioni del dopoguerra lo consentivano anche dei ricchi musulmani di passaggio erano clienti graditi per via della pecunia che di per sé non puzza mai. Men che meno in un porto dove uomini, schiavi, merci e denaro vanno e vengono di continuo. Se ci foste stati, cari moderni, avreste potuto vedere diversi velieri da carico, e da pesca e qualche galera multiremi che avevano gettato l’ancora nel porto. Navi spagnole con le vele al vento pattugliavano da più lontano gli accessi sorvegliando i piloti del porto che accompagnavano le navi, in entrata, ed in uscita. Delle colorate vele ornavano oltre che moveano quei lignei vascelli che permettevano nel tacco d’Italia la sopravvivenza della cristianità. Messer Vezio fermò la vettura in prossimità dell’ingresso della locanda, e ne discese, non senza aver bussato due volte brevemente: era il segnale che la passeggera dovea tener la portellatura ben chiusa onde impedir alli popolani di guardare, e peggio ancora di salirvi a curiosare…una carrozza di lusso, tuttavia, è impossibile che non attiri l’attenzione, e manco a dirlo non pochi plebei, e altri curiosi si fermarono a fissare quella nuova visitatrice del viale della gran locanda. Messer Vezio legò la coppia di cavalli ad un palo apposito, quindi entrò nella locanda togliendosi il cappello come era d’uso tra gentiluomini. Tosto che fu entrato si diresse dal locandiere dicendo:
“Salve a voi mastro locandiere, mi chiamo messer Vezio, e vo’ cercando il giovin marchese Luigino Dresser di anni meno che venti. Verrebbe egli dalla Serenissima et oggi le mie informazioni dicean che qui lo avrei trovato; per cortesia lo mandereste a chiamare, se qui vero è che prese alloggio ?”
Il locandiere, un uomo di una sessantina d’anni, annuì:
“Il nome che mi dite corrisponde; invero egli alloggia qui, alla Gran Locanda d’Oriente, messer Vezio; compiacetevi d’attender pochi istanti che lo mando a chiamar tosto…devo farlo scendere qui dabbasso, o salite voi ?”
“No, meglio che scenda lui. Sì, ve ne sarei grato se lo mandaste a chiamare. Atteso egli è dalla padrona mia nella carrozza qui di fuori. Al più presto lasceremo libero il passaggio. Oh ! Perdonate un istante che ritorno ! Debbo veder se li popolani s’accalcarono davanti alli cavalli che s’imbizzarriscono se troppo circondati…”
Messer Vezio uscì, e scacciò non pochi curiosi che si avvicinavano troppo agli animali da tiro, i quali pur abituati agli esseri umani non amano vedersi circondati da estranei, men che meno da perditori del loro tempo. Poi tornò dal locandiere:
Il locandiere senza declinare punto alcun nome mosse un campanello vigorosamente, ed un ragazzo con la camicia sudata per la fatica ed il calzoni corti si presentò all’istante:
“Vai al secondo piano, di corsa ! E dopo aver bussato alla venticinque, dì al signor marchese di scendere che è atteso…”
Il garzoncello andò di lena, e dopo tre quattro minuti un giovin signore di una ventina d’anni o forse meno di tutto punto vivacemente vestito con delle fini e costose stoffe colorate si presentò dabbasso alla portineria. Portava un collare bianco ondulato d’autentica seta, ed un copricapo ornato di un paio di magnifiche ed esotiche penne di pavone. Anche le polsiere delle sue maniche erano fatte con dei ricami piacevoli a vedersi. Non ritengo portasse mutande, ma degli aderenti pantaloni che lasciavano dedurre le piacevoli forme della sua muscolatura. I suoi capelli erano dei boccoli ondulati non troppo lunghi; il suo viso di un bell’ovale forse un tantino squadrato, ma pulito, ed aveva degli belli occhi castani. Come s’addiceva agli uomini nobili portava uno spadino ai fianchi, forse posticcio; ignoro se quel fortunato nipote, più o meno parente di cotanta donna, foss’anche uomo d’arme, disposto ad affrontare un duello per l’onore suo o di una dama; stando alle scarne informazioni di messer Vezio non era nemmeno ventenne…certo, sia il sottoscritto, che messer Vezio avevamo contezza che ben altra era la spada che sapeva usare quel giovin signore. Sul pettorale del vestito poco sotto il colletto ricamato fin sulle spalle vi era ricamato un simbolo gentilizio contenente un Leone di San Marco a sottolineare la sua provenienza veneta. Scendendo le scale aveva guardato davanti a sé senza curarsi di chi avesse intorno. Il locandiere gli disse:
“Perdonate se fummo costretti a disturbarvi marchesino. Tal messere che nomasi Vezio di voi chiese poc’anzi…se permettete ch’egli vi parli…”
Non appena il ragazzo si voltò verso di lui Messer Vezio, abituato a non giudicare al primo sguardo, accennò un inchino dopo aver mosso il cappello movendosi con grazia e sicurezza militare dato che era stato anni prima un disciplinato e valoroso uomo d’arme, e chiarì al giovin signore:
“Permettete marchese ?! I miei rispetti. La mia padrona, la Baronessa vostra augusta zia, mi mandò a prendervi onde portarvi allo Castello…avete dei bagagli con voi ?”
“Tre bauli in verità messer Vezio, son di sopra. Lieto son di fare la conoscenza vostra ! Vi manda dunque la mia augusta zia ?”
“Onorato sono serenissimo marchese, vogliamo andare ?”
“Siam pronti caro Vezio! Ma il mio bagaglio è ancor di sopra…”
Messer Vezio il fatto suo lo conosceva; non era tipo che amasse perder tempo:
“Mastro ! Se poteste farmi aiutare, io e due altri servi vostri li avreste ? Mi caricherei anch’io un baule, e se voi permettete marchesino ci recheremmo nella vostra stanza onde prendere il vostro bagaglio…se voi intanto gradireste recarvi in carrozza potreste intanto portare i vostri rispettosi saluti a vostra zia che vi attende in vettura…avete già regolato con il locandiere ?”
“Sì, regolammo all’arrivo due giorni addietro; per l’alloggio della persona nostra è tutto a posto…”
Il locandiere annuiva alle specificazioni del ragazzo
“…ma debbo ancor pagare la cena di ieri sera, poiché a mezza pensione pensai di alloggiare; sapete, preferimmo girare per la città d’Otranto, tranne ieri che…insomma…poco ci mancò che noi si restasse senza…”
Messer Vezio interruppe il giovin signore con un cenno; non era bene che parlasse troppo; evidentemente il marchesino Luigino aveva preferito desinare (ed ubriacarsi) nelle taverne piuttosto che nella locanda; c’era solo da sperare che non si fosse accompagnato con delle pute quasi sempre capaci di portar malanni vari…
“Capisco. Altro non dite ! Ve ne prego.”
Poi rivolgendosi al locandiere:
“Mastro locandiere, quanto ancor dobbiamo per lo parente nostro ? Generosa è la di lui zia nobildonna…non temete!”
“Per carità! Alla peggio il marchesino m’avrebbe potuto pagar con lo spadino…comunque ho tenuto i conti bene: sono dodici ducati per una cena ed un pranzo ancora da pagare caro voi, e vi ricordo che il discarico dei bauli colli servi nostri costa due ducati in più…a meno non se li porti lui da solo…sapete è un servigio a parte…”
“No, no, va bene, son quattordici ho capito! Chiamate i due portatori che mi servono, che la carrozza attende qui fuori…”
Messer Vezio tirò fuori i soldi da un sacchetto, e li diede al locandiere, il quale in cambio gli diede una ricevuta su una pergamena piccola; ad un suo cenno due portatori comparvero e aiutarono Messer Vezio a caricare i bagagli del marchesino che limitandosi a sorridere prese congedo dal locandiere e dalla locanda. Il marchesino Luigino Dresser parente della veneta Baronessa, ora salentina, andò allo sportello della carrozza, e dopo esser salito sul predellino, bussò una volta, attese, quindi diede tre colpi regolari e lenti: era il segnale concordato con sua zia, la quale capì, e sbloccò la serratura; il portello si aprì ed il giovin signore entrò rapido e richiuse, lasciando delusi li passanti, e li curiosi. Salito che fu, e bloccato di nuovo lo portello, la zia da dietro il velo gli comandò indicandogli il seggio sul lato opposto:
“Zia, finalmente, come state? ”
“Pazientate ancora un po’ senza movenza veruna nipote mio ! Restate dove siete.”
“Zia che vi prende ? E cos’è la veste nera ? Andate dunque ad un funerale ?...”
“L’ho indossato onde vostro zio, mio marito, lo credesse stamani.”
“E perché vi ritraete ? Non gradite che v’abbracci ?”
“State quieto assai nipote mio Luigino, che la gente vede e mormora ! Le male lingue son più rapide del vento ! E poi io li vostri abbracci tentacolari li conosco! Sapete, vorrei fossimo prima fuori di qui, lontani da codesta vil plebaglia curiosa!”
“Come volete, zia!”
“Madame mi piace assai di più, sapete! Se mi chiamate zia mi farete sentire vecchia…ditemi come stanno le sorelle vostre ? Presero marito ?”
“Sì, zi… cioè Madame: Porzia sposò il figlio d’un armatore inglese, un tale di nome Joseph Trenton, che ha investito tutte le ricchezze paterne nella produzione del vino in una tenuta poco fuori Londra ed ora vivono in Inghilterra. Alessia invece ha sposato un diplomatico, pro nipote del Doge: è segretario d’ambasciata in quel di Copenhagen, nello Regno di Danimarca. Non le invidio, lì è sempre nebbia e freddo…mentre qui da voi zi…Madame c’è un paesaggio magnifico e dell’ottimo vino. Sapete una di queste sere mi chiesero d’assaggiare il nero di Martano, un pecorino che non vi dico…”
“Immagino Luigino, immagino…e ditemi, avete seguito i miei consigli ?”
“Beh, stetti lontano dalle donnine, e dal vinaccio delle taberne; tuttavia vi ringrazio che siete stata tempestiva. Stavo meditando di vender lo spadino; invero ieri persi una consistente somma al gioco…”
“Siete sempre il solito Luigino ! Ma possibile che crediate al gioco leale tra li farabutti furbi ?”
“Non ho amici tra di quelli zi…Madame ! Certo fu il denaro facile a tentarmi. E quelli delle campanelle eran persone simpatiche e colla barba fatta…”
“E con quale instrumento vi siete fatto ripulire ?”
“Le tre campanelle all’arrivo, dopo il molo, per gioco. Perdetti poco ed essi, uomini cortesi non insistettero punto…”
“E cosa faceste dopo, nipote mio?”
“Nella taberna di ieri dovetti guadagnar l’uscita di repente, poiché m’arrabbiai e tagliai li dadi, sapete ! Disperato che perdevo ad un certo punto m’ero insospettito, e vidi dopo lo taglio che aveano li pesi interni di metallo a sbilanciare. Non riebbi indietro i soldi persi. Si fecero avanti tre ceffi armati di pugnale sotto il camisaccio, che volevano tentare di dare una lezione alla persona mia cara zia, quando d’abrupto passò una ronda di gendarmi alabardieri che da una parte mi salvarono facendoli fuggire per i vicoli, ma dall’altra mi portarono in prigione una notte tra li ceffi e la feccia comune; e stamattina all’ora sesta mi liberarono dicendo che non era necessario avvertire il console veneziano, che la lezione l’avevo avuta…”
Parlando il Luigino si stava rimirando lo spadino:
“Bah, mettetelo via, che qui non serve. Nessuno v’aggredirà qui dentro!”
“Perché mi guardate così zia ?”
La zia lo guardò abbastanza male compatendolo, e facendogli un’ovvia ramanzina:
“Luigino, passi il gioco una volta ! Ma due ! …Bah se non altro adesso almeno sarete più avveduto…ma dite davvero che usaste lo spadino per tagliare i dadi truccati davanti ai ceffi con cui v’accompagnavate?…”
“Beh, io…”
“Li avete provocati voi istesso…perché non ve ne siete andato dopo le prime mani perse? Li dadi, ve ne sarete accorto, son facili a truccarsi…”
“…”
“Toglietevi lo spadino con me nipote mio, non siete uomo d’arme ! Altrimenti avreste valutato meglio il campo prima di tentar la rissa o la pugna, fate voi! E poi da noi li gendarmi alabardieri li arrestano tutti imperocché prendon parte a pubblica rissa…”
“Zia, io non so cosa…”
“Lasciamo perdere perdiana ! Almeno vi siete tenuto lontano dalle pute? Lo sapete, dovete conservarvi per me sola, senza li malanni delle pute !”
“Sì, zia, no volevo dire Madame, ve l’assicuro sì. Mi son tenuto lontano dalle pute, e di vino ne bevo assai poco, forse son anche astemio un pochino, certo meno, e m’arrossisco, quando faccio bisboccia con gli amici…per far contenta voi zia ho mangiato comunque parecchia frutta e aggiungo che non l’ho dovuta comprare; ne avevo da parte parecchia alla partenza, e so quanto a voi piaccia…non vi deluderò carissima zia ! Oh perdonatemi Madame !”
“Toc, Toc, Toc.”
“Ah, è messer Vezio; probabilmente ha finito di caricare, direi che possiamo andare.”
“Toc-toc !”
Con un bastone in dotazione all’interno della carrozza dando due colpetti rapidi la Baronessa fece cenno a Messer Vezio che era anche solo (e discreto) conducente di partire. La carrozza si mosse, e quando furono fuori dal viale la Baronessa si alzò il velo mostrando al giovane nipote il suo biondo viso, e la sua impeccabile pettinatura che le faceva risaltare i contorni del viso. Il ragazzo si fece avanti di scatto nonostante il poco spazio, e si precipitò a baciarla sulla bocca, ed un istante dopo, avendole appena schiuso le labbra le cercò la lingua con la propria. I loro visi rimasero congiunti diversi minuti saldi in un solo essere mentre la carrozza prendeva non pochi scossoni per via del terreno e del veloce trotto della coppia di cavalli. Il ragazzo felice di nutrirsi della saliva della zia cercò con la mano destra la sua coscia frugandola sotto la veste onde vedere se riusciva a trovare il varco verso quella calda carne vellutata un po’ più calda e pulsante. Staccò le labbra non curandosi di aver sbavato la loro saliva mescolata sulla veste di lei e disse affannando:
“Ahn, ahn, ahn Madame, quanto mi siete mancata !...Ahn, vi voglio tutta !”
“Sì ?! Come baciate bene Luigino mio ! Beata colei che sarà vostra moglie !”
“Zia, amore mio lo sapete cosa è che più voglio ! Vi prego non posso aspettare ! Debbo sentirla sulla lingua la vostra femminilità ! Aiutatemi con questa veste che non trovo niente…”
“Ho capito ! Scostatevi ! Vi prego !”
La Baronessa afferrò i lembi della veste, e la alzò scoprendo dapprima le caviglie, poi le gambe, le cosce, ed infine la sua vulva rosea e bionda, resa fresca delle necessarie cure estetiche. Tenendo alta la veste, rimboccata all’altezza dell’ombelico più o meno, aprì le cosce e tutta la sua carnalissima vulva rosea semiglabra si presentò agli occhi del giovane, che per una reazione fisiologica la vide schiudersi seppure solo parzialmente e di poco con delle lievi movenze dei lembi delle grandi labbra carnose e profumate da quella crema che suor Paolina aveva usato per depilarla. Il ragazzo si precipitò a baciarla come fosse un falco da preda, a bocca abbastanza aperta, in modo tale che la lingua sua aderisse il più possibile a quei lembi di pelle dolcissima, fresca ed al tempo stesso calda e vellutata. Dopo aver colto famelicamente i primi sapori intimissimi che s’illudeva di cogliere sciabolando la lingua a caso su tutta quella pelle di sesso femminile cominciò a muoverla con più delicatezza onde cercarle il clitoride e stimolarglielo con dei sapienti colpetti leggerissimi ed imprevedibili, come anni addietro le aveva insegnato quella sua zietta che lo aveva visto nascere e crescere; tempo prima, e quel ragazzo in quell’amplesso di intimità concentrata, non avrebbe saputo dire quanto ne era passato, aveva imparato una cosa delle donne: lingua leggerissima lì sul clitoride ed un bel dito contemporaneamente nell’ano. Il ragazzo lo ficcò deciso il suo medio; poi lo mosse più e più volte, quindi fece scendere la lingua serpentella sull’inguine di lei; un paio di lappate, e la vulva bionda e rosea, ben ravvivata dallo stimolo linguale del ragazzo, lasciò scendere un rigagnolo trasparente un po’ argenteo, salaticcio, poco cremoso, poco più che una bava che la donna non aveva saputo trattenere...cos’era miele o sale ? Uovo, o pesce ? Il ragazzo, morbosamente innamorato del sesso della giovane zia Baronessa, lo assaggiò molto volentieri, sulla metà superiore del suo organo di vero senso: la lingua, che gli restituiva i sapori della zietta. Poi lo ingoiò ricevendo meno piacere. Riprese allora a leccare sperando che quella vulva di quella stupenda nobildonna, sua sverginatrice in passato, gliene mandasse un altro… Luigino era tornato un animale, e si stava bagnando volentieri la faccia con la fica ormai calda ed umidiccia di lei. La Baronessa era una donna, non una ragazzetta alle prime armi che scambiava qualche oralità d’esplorazione col fidanzatino…il che voleva dire che non avrebbe tardato a chiedere una corposa penetrazione col cazzo, che le desse ben altra soddisfazione che quei suoi giochetti linguali che il nipote era in grado di condurre come se fosse un inesperto adolescente, che assaggiava la vulva della fidanzatina. In questo consisteva la sua abilità…

- continua –
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