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Lui & Lei

Matilde 02-06 - Lavori in corso


di Alex46
20.02.2019    |    2.094    |    0 7.1
"Anche questa lettera si riferisce ai primi tempi della loro storia..."
Il giorno dopo, altra lettera copiata, questa volta come primo attore non Leo, bensì la stessa Debra. Anche questa lettera si riferisce ai primi tempi della loro storia.

«Il freddo della notte non riusciva ancora a indurire quei laghetti, quelle pozzanghere che per tutto il pomeriggio al poco frequente passaggio delle automobili avevano sciacquato i lati ghiacciati della strada: la zuppa di ghiaccio si squagliava sotto i piedi come una granita marcia, dove i piedi affondavano in una colla di pensieri che fanno fatica a definirsi.
Debra entrò in casa sua, con un sospiro di sollievo. Le era parso che la sera non finisse più, un’eternità da quando era uscita per incontrare quelle persone che l’aspettavano. Aveva messo a dormire Pietro, il figlio di sua sorella, che sembrava essere un po’ agitato ma non aveva fatto grandi storie, poi si era cambiata senza piena coscienza di se stessa, a metà tra il dovere, che sentiva forte e giusto, e la voglia di ribellarsi, che sentiva forte e sbagliata. Poi era uscita, aveva sorriso, aveva fatto ospitalità, aveva messo a loro agio alcuni e speso energie per altri.
Rientrando in casa, la giornata si chiudeva su di lei, che era impaziente di vedere i familiari spazi chiusi e la solitudine con se stessa finalmente avvolgerla, proteggerla anche. Finalmente poteva parlare con il proprio cuore, l’unico interlocutore veramente sincero, l’unico amico al quale affidare le proprie debolezze.
Cavatasi le scarpe un po’ umide, sbirciato sul fax per eventuali tardivi messaggi, Debra accese la luce in cucina, poi il bollitore. E mentre pensava a quale tisana le sarebbe piaciuto affidare la propria voglia di carezze, lo sguardo le cadde su una busta con tanto di francobollo. Era una busta bianca del tutto anonima, però il suo nome e il suo indirizzo erano ben chiari e lasciavano poco spazio alle interpretazioni. La lettera veniva da Milano.
Un tuffo al cuore la colpì in pieno petto, perché certo non l’aspettava. Così presto, poi... Era senza mittente, ma non ce n’era bisogno. Anche il postino aveva capito, perfino alla mamma, mentre appoggiava la lettera, era caduta un po’ di cenere di sigaretta sulla superficie pulita del tavolo: che era rimasta lì, vicino alla busta.
Debra decise di non aprirla subito. Meglio bersi con calma la tisana, poi ritirarsi di sopra, gustarsi quell’attesa di fascino e mistero. Mentre sorseggiava la bevanda, caldi scrosci di liquido le entravano dentro e si mescolavano, sprigionando ulteriore calore, a quegli scompensi interni che di solito sono chiamati «tuffi al cuore» ma che invece dovrebbero essere chiamati in altro modo. Ciò in quanto il tuffo parte sì dal cuore ma poi l’acqua, spostata dal corpo che cade, provoca onde che raggiungono il centro della pancia e proseguono fino a rivoltare come un calzino le nostre profondità. Se in quel momento l’amato e l’amata fossero lì assieme si abbraccerebbero e si abbandonerebbero a questo tuffo in comune.
Ma Debra era sola e confusa. Provò piacere in quell’emozione, un piacere così intenso che volle ritardare, con una lettura posticipata, la fine del doloroso incantesimo.
La tazza era vuota, la lettera era ancora chiusa. Debra spense la luce, salì le scale per la prima rampa che portava ai lavori in corso. I bagni erano ancora lì, non piastrellati, ingombri di materiale, c’era anche la radio degli operai. L’odore di cemento fresco ricordò a Debra quanto fosse stato bello chiedere aiuto e consigli per quei lavori. Non perché ne avesse davvero bisogno, ma per lei era così importante il suo nido che voleva coinvolgere altri che abitavano lontano. Riteneva che fosse bello condividere con altri il proprio entusiasmo. E aveva ragione.
La rampa superiore la portò a dare un’occhiata a Pietro che dormiva profondo. Con tenerezza di zia lo ricoprì con il piumone che era quasi caduto sul pavimento, si chinò vicina al viso del bimbo e lo baciò sulla fronte come solo una zia sa fare. Si accertò che il respiro fosse regolare, guardò l’espressione del volto e, non vedendo alcun brutto sogno, con un’ultima carezza sui capelli, si decise ad allontanarsi. Più tardi gli avrebbe fatto fare la pipì.
Non andò in bagno, anzi. Accese un po’ di candele, non tutte perché quella sera era davvero tardi. Ne accese un numero sufficiente a calmare la sua sete di rito e di sacro. La mansarda era ancora così come l’avevano lasciata, sembrava che l’ondeggiare del chiarore delle candele talvolta ricordasse il soprassalto dei flash del pomeriggio, 12 ore prima. Il cuscino blu era sempre là, sopra gli altri a coprire il muro bianco. La confezione aperta di Barry White era ancora lì, come pure le foto e i ritratti e i ricordi che anche lui aveva visto. Anche lo scatolone era ancora nell’angolo di destra, con il suo messaggio a lettere cubitali che parlava di grande distanza ma di anime vicine. Anche quello aveva visto e anche la stella che continuava a occhieggiare dietro alla grande finestra che dava sul laghetto.
Per ultimo accese un piccolo bastoncino d’incenso, quindi si sdraiò comoda sul quel divano così immobile ma così complice: e finalmente aprì la busta.

La lettera non era lunga e Debra si ritrovò alla fine in breve tempo. Ciò che Michele le scriveva era semplice: le raccontava quello che assieme non avevano avuto il coraggio di fare, nei particolari più concreti come nelle sfumature più sottili.
Da tempo le anime dei due avevano fatto l’amore assieme, anche se relativamente a due anime non si può parlare di tempi e di luoghi. Ci sono a disposizione delle fotografie, neppure troppo nitide, degli spezzoni di film che documentano quell’evento etereo in una continuità elevata che non ha nulla del nostro tempo e del nostro spazio. Nei bar a Milano, per telefono, in quel bacio davanti all’albergo e anche in altri momenti o frasi o ricordi.
Quella sera i loro corpi erano stati sottoposti a una tensione davvero estrema e mentre le anime urlavano a loro di unirsi, i loro nomi e cognomi avevano paura, specialmente lei. In entrambi si era svolta una lotta durissima, come se ciascun nome e cognome avesse paura di perdersi in un mare più grande di quanto mai immaginato.
Lei era lì, sdraiata sul divano senza più forze. Solo nella sua mente si svolgeva ancora quella lotta che ormai sembrava disperata. Tutto di lei giaceva sul divano, i vestiti gettati a terra uno per uno, concessione dopo concessione. Ad occhi chiusi, aveva rovesciato un po’ indietro il capo. Mani, braccia distese accanto al corpo, e così pure le gambe appena piegate verso l’alto in modo che la pianta dei piedi aderisse perfettamente al divano dove qualche cuscino ancora continuava a essere spostato. Un corpo che aveva concentrato la sua sensibilità nella parte centrale, da quel leggerissimo senso di nausea unito a un breve ansimare, al tremore elettrico dei capezzoli sui seni sodi, fino al calore che incominciava ad avvertirsi alla fine dello stomaco e s’irradiava lento e potente, poi proseguiva invincibile fino a concentrarsi nel punto focale, nella necessità della figa, aperta e fradicia, per entrambi l’oggetto del desiderio più semplice, così forte perché solo quel bagnato poteva permettere lo spegnimento d’un fuoco che ormai li divorava.
Lui si era staccato da lei e per il momento non l’abbracciava. Un attimo dopo la stava leccando per sentirne il sapore, per farle piacere, per perdersi, per sentire anche solo in parte la sensazione di una conquista che forse mai sarebbe stata tale. Sotto la sua lingua si alternavano come componenti di un fiore quelle parti anatomiche che costituiscono qualunque sesso femminile, ma che in quel momento gli sembravano elementi del tutto esclusivi, unici, padroni del suo mondo maschile che in quel momento si ritrovava esattamente in quel sesso e nel fatto che lui ne stava bevendo in qualche modo l’essenza più intima, che poi non era altro che Debra stessa perché anche lei, in quel momento, era quasi del tutto concentrata in quella parte del suo corpo.
Quasi, perché solo la sua mente si rifiutava di procedere, di dare il cenno per il via definitivo. Il cenno che anche lui aspettava, per paura di non andare troppo avanti da solo. Poi il cenno arrivò: era un grande sospiro, qualcosa che si allontanava forse per sempre, forse una liberazione. Lei con le mani cercò le sue spalle, lo aiutò a risalire lungo tutto il suo corpo fino a poterlo ancora baciare sulla bocca nell’umido della quale affiorava come un ricordo ben vivo tutto il suo umore più profondo.
Mentre si baciavano, ancora le sue mani afferrarono la cintura dei pantaloni di lui, la slacciarono, poi si concentrarono sulla cerniera fino a permettere la libertà, finalmente, a quel membro duro e fradicio del quale si sentiva da tempo l’ingombro prigioniero. Michele, come lei nudo, si appoggiò a lei per godere assieme di quel momento di attesa e di dolcissimo tormento che precede l’unione definitiva.
Debra rilesse la lettera: i tuffi al cuore non l’avevano abbandonata ma una dolcissima sensazione di abbandono e di rilassatezza si stava impadronendo di tutto il suo essere. Era quello il più bello di tutti i paradisi possibili.
La lettera era semplice e diretta, si faceva esplicito riferimento ai particolari e ai fatti di cui ogni unione corporea è fatta. Ma ciò che faceva bella la lettera era l’assoluta mancanza di rimpianto, come se non ci fosse alcuna sensazione di una cosa mancata, non realizzata. Alla fantasia, perché tale era, non mancava nulla per essere veramente reale: con le sue ali volava altissima e la carne, quella parte di noi che rimane legata alla terra, la guardava come un aquilone senza alcuna invidia per quell’oggetto leggero di carta ma con tanta gioia di essere ugualmente leggera nello spirito.
La lettera proseguiva ancora per qualche riga, sembrava che le parole scritte andassero e venissero, proprio come quando si fa l’amore, come quando ci si perde nell’altro, e le parole si confondevano con la lettrice e con colui che le aveva scritte. E terminava con la parola «dai, dai!» ripetuta decine e decine di volte, e scritta sempre più grossa e più marcata, come urlata e sudata, come se la lettera e quell’unione non dovessero finire mai. «Dai, dai!» per continuare così, per sempre in un viaggio che subisce un’accelerazione infinita, come nei sogni più belli nei quali fai l’amore per un’eternità e non vieni mai.
Alla fine della seconda lettura Debra era spossata come di certo lo era stato anche Michele subito dopo aver scritto quelle cose. Così spossata da sentirsi quasi appagata, perché l’unione delle fantasie è il passo successivo all’unione delle anime.
Si vide sola in quella stanza ed era ora di andare a dormire. Rimise la lettera nella sua busta e la depose in un cassetto. Un po’ debole sulle gambe e a passi non così decisi si recò nella camera dove Pietro continuava a dormire. Lo sollevò, lo portò in bagno, gli disse qualche dolce parolina mentre lo aiutava a fare la pipì. Poi lo riportò a letto e lo coprì ancora con il piumone.
Ritornò in bagno dove si spogliò completamente; sentiva su di sé lo sguardo di Michele, che non era lì ma era come se ci fosse. Chiuse ancora gli occhi desiderando di essere guardata da lui, come solo lui poteva guardarla. Si buttò addosso una morbida maglia a maniche lunghe e così com’era s'infilò a letto. Il piumone le accarezzava e le avvolgeva compiacente le gambe e la pancia, appena scoperta dalla maglia; e accennava a sfiorarle anche le intimità.
Debra spostò una mano esitante e la appoggiò sul sesso: esitava se accarezzarsi o se semplicemente nascondersi alla vista di Michele che sentiva lì presente, come se anche lui fosse sotto al piumone. E bastarono quel calore e quel pudore appena accennato per cristallizzare quella situazione d’incanto. La mano rimase immobile, l’esplosione di corpo e mente erano rimandate alla prossima occasione. Così lentamente si addormentò, permettendo quindi alla sua anima di crogiolarsi in quella dolce, sfinente e timorosa attesa».
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