Rope on fire - Parte I

She ripped the wings right off my back.
She whispered deep, keep it on the track.
She said you're no angel, no angel anymore.
(Morphine)

L'abito rosso spicca sulla mia pelle abbronzata, lucente nel buio della notte.
Ti ascolto, a occhi chiusi, mentre parli.
A occhi chiusi divido gli accenti che raccolgo nella tua voce: da una parte quelli dalla mia terra, dall'altra quelli della tua.
Taci. La sedia a sdraio si fa pericolosamente piccola.
Mi sfiori distratto la nuca, una micro carezza.
Nel silenzio, ora vorrei alzarmi.
Camminare lieve fino a quella pozza di luce lunare.
Lasciare scendere piano la lunga zip di quest'abito rosso ciliegia.
Lasciare cadere spalline e inibizioni.
Restare coperta di un soffio di chiffon nel bagliore tenue di questa luce bianca.
Offrirmi a te nell'ampiezza di uno sguardo.
Ma non lo faccio.
E mi odio, per questo.
Mi odio per il pensiero.
E odio anche te.
Questa è la verità.

Ti ho odiato fin dal primo momento. Quel giorno, tornando dalla gita in barca, mi sono sentita il tuo sguardo addosso.
Grave, come una coperta di lana. Hai seguito tutti i miei movimenti, resi impacciati dall'imbarazzo.
Ne hai goduto, istante per istante, di ogni esitazione.
Ti ho odiato, i giorni successivi, per ogni singola occhiata che mi scoccavi: beffarda, ironica, poco avvezza alla tenerezza.
Ti odiavo, ma non tanto da cambiare lido.
Odiavo me stessa, alla ricerca furtiva di quello sguardo che era tutto fuorché un omaggio.

Ti ho detestato cordialmente quella sera quando accostasti l'auto al marciapiede e dal finestrino aperto pronunciasti una sola parola: Sali.
Sono salita, odiandomi per averlo fatto.

E poi fu Sant'Elmo. E con lo stesso vivido livore ripercorro la strada piena di curve, la testa appoggiata alla tua schiena tiepida, l'odore di Malboro e sudore, il bisogno bastardo di cercare una tenerezza a giustificare quel battito pulsante fra le mie gambe.

L'acqua gelida, i sassolini, le tue mani intorno alla mia vita. La pelle, la nostra.
L'acqua che solleva e toglie il peso al mio corpo che fluttua, alga bruna, imperfetta sirena.
Labbra che raccontano storie alla mie pelle.
Storie ancora senza un finale. Mi lasci, molle come creta umida, davanti alla porta di casa.
Donna, ma non ancora femmina.

Settembre è il mese migliore.
La pelle ancora abbronzata spicca sui toni tenui di questa mise scelta apposta per la serata, la mia figuretta contro il tramonto urbano mentre aspetto il tuo arrivo. Capelli lunghi, lustri che catturano e rifrangono bagliori, mille piccoli incendi.
L'uomo, dall'altra parte della strada, mi osserva da cinque minuti.
Non lo guardo, non ho bisogno di vederlo.
I miei sensi percepiscono la sua occhiata. Creatura ricreata femmina da troppo poco tempo, per accontentarmi di un solo tributo volontario alzo la testa e la rovescio, un poco all'indietro scuotendo la massa di capelli ricci.
Nel farlo, raddrizzo le spalle e sento il suo sguardo percorrere avido la curva del mio seno, libero sotto la blusa un poco trasparente.
L'occhiata, triviale, segue il mio profilo, si abbassa a cercare di indovinare il disegno delle gambe, sotto la seta della gonna, tradito dalle balze.
Mi ripercorre a ritroso e io continuo a far finta di nulla, come se non me ne fossi accorta.
Poi, d'un guizzo mi volto e gli pianto gli occhi negli occhi.
Uno sguardo fisso e neutro che non regge che per una manciata di secondi.
Lo abbassa, per primo.
Leggo sulle sue labbra un “puttana” che mi scivola addosso.
Ho vinto.