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006 I VESPRI E LE OSCENITÀ' DELLA SBORRA- [ HUNGARIAN RHAPSODY ]


di CUMCONTROL
10.09.2019    |    9.385    |    11 6.1
"Dalle stanze di sopra udivo gemere e gridare..."
Quando in collegio mi diedi conto di essere finito in un luogo dove il vizio poteva imperare indisturbato sulle nostre teste, fu per me occasione di profonda sgomento. Era un senso oscuro che mi pervadeva fino a gelarmi gli arti e che mi gettava come in uno stato di immediata prossimità al pericolo. Temevo sempre nello sviluppo di eventi dalle conseguenze sfavorevoli. Fatali.
C’era in quel luogo qualcosa di davvero sinistro. Non erano le guglie, i pinnacoli, le pietre o le effigi che ornavano il grande monastero. Di certo non incoraggiavano, ma erano i grandi spazi chiusi, il silenzio, l’eco di voci e urla disperate, ed il frenetico muoversi di passi improvvisi a gelarmi il sangue in quel mio lungo soggiorno.
Ero in quel luogo da non più di tre giorni. Ero come in isolamento dentro una cella di due metri per due con un annesso piccolo servizio igienico.

Il quarto giorno parve che qualcuno si fosse finalmente ricordato di me.
Erano le quattro del mattino ed una voce mi destò dal lungo sonno. Quando aprii gli occhi vidi un monaco vizzo in volto con due grossi occhi glauchi che mi fissavano immobili. In un italiano imperfetto mi ingiunse di spogliarmi. Ormai avevo superato la fase iniziale della mia disperazione e così ero come entrato in uno stato mentale che mi rendeva docile animale disposto a tutto pur di restare lontano da quel sentimento di prossimità al pericolo.
Mi spogliai, ma poi si mise a latrare come cane rabbioso indicando l’uscita. Io mi misi a correre nudo, e dalle stanze attigue dalle porte semi aperte udii urla latranti di altri monaci che infierivano su poveri malcapitati come me.
Corsi come un dissennato per il grande corridoio e ricordo che mi chiedevo cosa mai stesse capitando, se tutto questo fosse normale o se questa follia così organizzata non fosse per me un nuovo ordine di normalità a cui avrei dovuto presto adeguarmici.
Dalle porte ai lati del grande corridoio sciamavano coetanei nudi anche loro, con la pelle marcata da cinghiate e graffi. C’era nei volti di quei ragazzi come un espressione di rassegnazione. In altri vi albergava il puro terrore. In altri ancora vi era come l’espressione di certi morti, impassibili e contratti.

Seguii la fiumana di femminielli doloranti fin verso il salone delle docce. Mi misi subito sotto lo sciacquone e nell'abluzione scorsi quei corpi angusti con le loro movenze femminee. Erano tutti, o quasi, effeminati e mi parve che la “correzione” comportamentale a nostro carico non sortisse alcun effetto sui corpi di giovinetti rinchiusi in quel luogo da diverso tempo.
Qualcuno ostentava nelle movenze delle goffe parvenze virili; ma un polso, una mano o la stessa ponderazione del loro stare eretti tradiva una condizione tutt'altro che maschile.
Era chiaro che quelle giovani creature erano state strappate dalle loro case felici, dai loro giochi da bambine e dalle loro gaie aspirazioni per essere "rettificati" nel loro comportamento.
L’acqua a tratti era rovente, a tratti gelata. Dovevamo lavarci in coppia poiché i doccioni disponibili non erano sufficienti a coprire tutti gli ospiti dell’istituto. I preti se ne stavano invece allineati ad osservarci, con le verghe o le cinghie in mano, o le braccia dietro alla schiena. Tra noi e loro v’era come un’aura lasciva di lussuria macerata allo scrosciare di tutta quell’acqua. Ci osservavano con sguardi severi e licenziosi.
D'un tratto alcuni di loro indossarono grembiuli di tela cerata di colore scuro e varcarono il cordolo di separazione tra pavimento asciutto e pavimento bagnato.
Ad ognuno di noi fu inflitto enteroclisi.

I veterani attendevano quieti il proprio turno, mentre restava evidente quanti di noi fossero giunti in istituto da poco tempo, poiché atterriti dalla completa assenza di ogni privacy e da quanto ci avrebbe aspettato.
I monaci muniti di grembiule svitavano i doccioni dal flessibile e infilavano l’estremità nell’ano cosi che ciascuno subisse - tutti i giorni - la pulizia della propria ampolla rettale.
E' per decenza e pudore che non mi soffermerò sui dettagli impropri di quello schifo che vidi dispiegarsi sul pavimento alle docce durante quell' immondo risciacquo quotidiano.
Mi spiegai solo in seguito quanto l'assunzione di fermenti lattici che ci furono somministrati costantemente ci fosse necessaria, perché quegli impropri lavaggi del retto procuravano seri scompensi alla flora batterica che tuttavia.. tuttavia non aveva occasione di svilupparsi a fronte dei quotidiani enteroclismi.
Ma era la regola ferrea dell'istituto. E noi deperivamo ogni giorno.

Se i veterani mostravano dagli spurghi d'acqua limpida le proprie interiora più pulite, ostentando per altro una buona capacità di sopportazione, noi altri giunti da poco, trattenevamo disperatamente le nostre vergogne ma il cedimento degli sfinteri era pubblicamente inevitabile. Scaricammo ogni possibile sostanza di noi stessi, compreso la dignità.
Passammo poi alle preghiere, poi al refettorio per la colazione e all'albeggiare si passava a tutte le attività pratiche e teoriche di una sana educazione maschile.
E' per amor di verità che chi vi scrive tiene a precisare che mai - e lo ripeto - mai avevo portato movenze femminili.
In quel monastero i preti avevano allora il compito di "rettificare le devianze femminee dei giovani rampolli di ogni membro di famiglie di alto lignaggio". Fu quanto lessi sull'atto costitutivo dell'ordine religioso che ci tenne in "cura".

La mia virilità per altro ben riconosciuta da tutto il corpo religioso, non mi valse però la dispensa da tutte le discipline.
Smisi di sperare in un subitaneo ritorno a casa e mi rassegnai al programma riuscendo eccellentemente nel tiro con l'arco, nell'idraulica e nella riparazione dei motori. Ero un abile combattente di pugilato, e la mia agilità e robustezza mi valsero inaspettati risultati nel rugby.
Il mio istruttore di pugilato – un uomo dalla toga sempre ben stirata e che levava solo sul ring – ritenne inutile i miei incontri con i coetanei, e per vagliare le mie prestazioni mi invitava sovente in incontri serrati con lui. All'inizio la mia rabbia era tale da sferrare pugni funesti che il mio stesso istruttore mostrava serie difficoltà a tenere a bada. Col tempo imparai ad essere più leale a scapito del mio setto nasale. Mi piaceva sanguinare.
Ero molto ammirato dal corpo docenti e non nascondo che molti di loro mi mostrarono attestazioni di stima venendo ai bordi del ring per osservarmi. Dopo gli incontri costoro entravano sul ring e tra una pacca sulla spalla ed un buffetto, non mancavano di tastarmi le natiche od il pacco. Vedermi sanguinare o col viso tumefatto, dovevo suscitare in loro strani desideri, poiché mi invitavano a fargli visita presso le loro stanze dopo cena, e a giudicare dal modo con cui costoro si toccavano il genitale, capire le loro intenzioni non era affatto un’operazione complicata.
Ammetto che tanta ammirazione, tanto suscitare in loro ogni desiderio carnale, animava la mia vanità e la prospettiva di saziare i loro appetiti che trascendeva l’età anagrafica. Più vecchi erano, più apparivano voraci di carne sanguigna. I vecchi promettevano grandiosi amplessi.

Ma dopo cena, io avevo incombenze ben più gravose da sbrigare in refettorio.

Va detto che tanta benevolenza da parte di questi vecchi e maturi tutori verso un giovane allievo dell'istituto, non era così scontata in quel luogo. Tutt'altro. Costoro erano con gli altri di una severità inaudita. Se qualcuno dei ragazzi veniva colto a canticchiare sulle note di Gloria Gaynor o a simulare le coreografie dei Village People, veniva trascinato dietro la porcilaia e battuto con fuscelli intrecciati di giunco fino a quasi spezzargli gli arti. Agonizzanti i ragazzi venivano poi lasciati sdraiati in porcilaia per giorni fino all’arrivo del dottore. Non vi era alcuna empatia nei confronti del dolore fisico da parte di questa gente. Io dietro la porcilaia non ci sono mai stato. Fu una fortuna. Tranne una volta, ora che ci penso bene, quando il vizioso docente di latino mi ci costrinse ad andarci con lui dopo una partita di rugby. Dietro la porcilaia vi era un recinto di pochi metri quadri con attorno una robusta staccionata e lo spazio era cosparso di calcinacci. Agitando un bastone il vizioso docente mi comandò di cacare.
Si. Cacare.
Egli volle osservare e masturbarsi, e godere della vista di un ragazzone nel pieno della forza dei propri anni accucciato su di un cumulo di calcinacci nello svolgere l’atto di fare la cacca.
Avevo imparato a non badare troppo alla mia dignità, pur di non essere percosso. Compiere quell'atto era qualcosa di empio, di terribile, di turpe.

Ma il docente non era più dissoluto di altri.
Deliberatamente la dissoluzione di tutti i docenti si esplicava dopo i vespri.
In refettorio.

Ecco cosa accadeva in refettorio.
In refettorio non si cenava se non dopo l’arrivo del direttore, che si faceva attendere mentre cresceva l’appetito e una strana ansietà da parte di noi ragazzi. Il direttore era un uomo corpulento, dai labbroni lascivi e con due grossi occhi sporgenti. Il suo ingresso era solennemente annunciato dal suono di una grossa campana, montata alle spalle del lungo tavolo, cui andava a sedersi con altri dodici prescelti precettori. Il direttore era un uomo assai zelante ma all’ora di cena quest’individuo esibiva una vanità smodata. Spesso si presentava in abito talare con tacchi alti e di colore rosso come una vecchia mignotta.
Tutti ridevano, lui compreso, e tutto assumeva l’atmosfera gioconda e goliardica tra quegli individui.
Dopo il dessert la campana veniva fatta nuovamente risuonare ed in refettorio si scatenava l’inferno.
Noi ragazzi dovevamo dunque allietare il dopocena di questi signori. All'ulteriore suono della grossa campana questi tutori apparivano impazziti all'unisono. Si svestivano alla meglio e si lanciavano sulle tavolate e i ragazzi sapevano cosa toccava loro in sorte.
Quelli come me giunti in istituto da poco tempo venivano esortati ad approssimarsi a questi maiali a suon di cinghiate mentre i veterani sapevano esattamente cosa compiere.

Spesso dovevamo offrir loro i piaceri della bocca. Si dovevano baciare, si dovevano sbocchinare, si doveva praticar loro delle accurate pulizie intime a colpi di lingua. Molti di loro erano avanti con l’età, erano impotenti e per cui a loro andava più che bene che i ragazzi colmassero questo loro handicap praticando affannosi rimming. Questi scellerati salivano sui tavoli e noi dovevamo affrettarci a salirvici con loro, a sollevare gli orli dei loro abiti. Ci esibivano culi flaccidi entro cui andavamo ad annegare lavorandoli dovutamente fino agli spasmi del retto.
Non era facile. Non tutti praticavano una corretta igiene intima e ricordo che era davvero difficile stare nel mezzo di due natiche flaccide con la lingua confitta in un immondezzaio. Molti ragazzi pativano con conati mal trattenuti eppure andava fatto. Chi per fortuna riusciva a trovare tra quel florilegio di culi un buco degno e ben mondato, allora vi ci si incollava e si sperava che non fosse richiesto un cambio di turno.
Dagli altri culi si migrava in tutta fretta verso culi meno ammorbanti e ricordo che ci si doveva prendere a scazzottate per chiedere asilo presso un culo gustoso e pulito, cui ammassarci come api nelle arnie.
Per fortuna non tutti erano dei vecchi flaccidi. Buona parte di loro era di età matura e questi non sempre potevano dirsi soddisfatti delle sole lavande anali, che pure mostravano di gradire in somma misura, ma assuefatti dalle pulsazioni anali, questi spesso si voltavano e passavano di gola in gola a sfasciarci le polpe orali a colpi di cazzo.
Il direttore troneggiava invece su quella baraonda sfrenata e se ne stava spesso sdraiato sul proprio tavolo, e si reggeva le cosce svettanti coi tacchi a spillo mentre alcuni prescelti dovevano darsi un gran da fare a leccarne il buco, i testicoli e la sua minchia smunta. Amava che nel mentre fosse baciato o vellicato di tette. Così che un gruppo nutrito di giovinetti stazionava presso quel corpo inerte, passando ora in basso, ora in alto, come fanno le mosche eccitate sul loro prelibato cumulo di merda.

Come tutti gli allievi, ogni sera venivo anch'io pesantemente scopato dai più prestanti docenti. Questi signori preferivano di gran lunga le mie natiche virili alle natiche dei femminielli. Molti di loro insomma bramavano di fottere quel giovane così forte e prestante, e lo fecero approfittando del clima di svaccata distensione dopo cena in refettorio. Talvolta mi strappavano via da un cazzo sul quale mio malgrado stavo operando i miei favori orali, per essere trascinato in un angolo più distante del refettorio ed essere scopato senza troppe interferenze. Avvolte erano in sei, avvolte sette, avvolte anche di più.
Molti potrebbero certo invidiare quella mia posizione di rilievo in qualità di virile cagna del branco tra maschi bramosi. Chi non lo vorrebbe. Eppure io a quel tempo non potevo neppure immaginare di essere così sfrenatamente fottuto per ore senza un attimo di pace. Ricordo che talvolta tale era la foga con cui questi miei tutori si avvicendavano alle mie natiche che pregavo loro attimi di riposo poiché la contrazione dei miei sfinteri esausti cominciavano a procurarmi forti fitte addominali.
Naturalmente ogni mia preghiera restava inascoltata e così dovetti pregare perché questi si sbrigassero ma i dolori si facevano ogni sera più lancinanti e mi procurai delle abrasioni rettali che dovetti impiegare nove settimane per guarire.
Questa gentaglia verso le nostre sofferenze non provava alcun tipo di pietas cristiana. Ricordo che mi industriai a rubare del burro in cucina da cospargermi nel retto prima dei vespri, così da lenire ogni mia sofferenza durante quegli accanimenti.
Quando appoggiato al bordo di una sedia restavo piegato a guardare il pavimento o a pregare ad occhi chiusi col fiato strozzato, di tanto in tanto alzavo lo sguardo, e nell'orgia impazzita udivo le urla di poveri disgraziati che in quegli attimi perdevano la verginità rettale. Qualcuno veniva trascinato via nelle stanze di qualche tutore per essere fottuto in santa pace e persino il direttore soleva portarsi per mano due o tre dei giovinetti per sollazzarsi in privato per tutta la notte.


Una notte, erano le quattro del mattino, e la sala era quasi ormai deserta. Ovunque v’erano abiti buttati per terra intrisi di sperma, e piscio, ed altri liquami terribili secreti per piacere o per disgusto. Dalle stanze di sopra udivo gemere e gridare.
Io giacevo stanco e restavo ancora piegato alla mia sedia e per ore ormai sul mio povero retto si infieriva nell'incessante avvicendarsi di tutori togati, forse drogati, dalla minchia sempre turgida, e violenta. Era un incubo.
Battevano, battevano, battevano. Due mani mi afferravano i fianchi e mi schiantavano le natiche al ventre del fortunato di turno.
Ero come altrove, obnubilato e arreso ai colpi feroci, avevo sonno, ma poi sentii all'improvviso uno strappo interno, un fortissimo bruciore quasi che le mie interiora fossero irrorate all'improvviso da un liquido bollente. Credetti che qualcosa di imponderabile e irreversibile avesse provocato la rottura di qualcosa dentro di me, e quel liquido bollente poteva dirsi sborra riposta in quantità non più costipatili, o forse, forse poteva essere sangue.
Io ebbi un sussulto di panico, un moto di rivolta. Mi divincolai, tentai la fuga senza sapere dove andare e fini come bestia atterrita e senza meta dietro il tendone di una grande finestra. Fui “recuperato”, preso per le caviglie fui trascinato al mio posto con percosse indicibili. Io non volevo piegarmi. Tutto la giù mi bruciava. loro urlavano. Fui piegato.
Avevo gli sfinteri chiusi e forzavano, forzavano, tutto in me andava a fuoco ed io tenevo stretto. Allora urlai di pianto, invocai dio, mia madre, mio padre, ma loro forzavano la mia fessura serrata dal dolore.

Fu lì che tra le lacrime del pianto ed una disperazione così forte da farmi scoppiare il cuore, che udii un urlo imperioso. Udii schiaffi ed io tentai di ripararmi da quella scarica ma.. ma questi schiaffi non colpivano me.
Un prete, visto di rado in refettorio, bello come un dio e forte, stava prendendo le mie difese. Allontanò i miei seviziatori ed io atterrito mi sollevai e guardai il tale menare i suoi confratelli.
Poi afferrato per il polso e dovetti seguire quest’uomo dall’abito pulito che mi condusse fuori. Percorremmo diverse centinaia di metri tra lunghi corridoi e la stretta fu tale da farmi male. Lo seguivo a passo svelto nonostante fossi vistosamente claudicante perché avevo nel mentre perso una scarpa in refettorio durante le percosse.
Quando entrammo nella stanza l'uomo accese le luci.
Io lo guardai tra le lacrime ancora atterrito. Allora versò dell'acqua e mi porse il bicchiere, ed egli mi fece sedere ai bordi del suo letto. Poi, tenendomi entrambe le mani, si inginocchiò, asciugò le mie lacrime ed io vidi occhi lucenti e guizzi di luce su due labbra ebbre di una sensualità misericordia, buona, e disse “non temere”.

Era Padre Goran..




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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