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A - P - O - C - A - L - I - S - S - E - ATTO SECONDO - LENZUOLO BIANCO


di CUMCONTROL
14.07.2016    |    4.847    |    7 8.2
"E nel silenzio più muto io vi rimasi immobile..."
La luce si accese.

La pioggia del mondo si accese.
Si accese sulla soglia di un cortile, in milioni di gocce di luce incandescenti alla rifrazione dei lampioni. Sul limitare destro del cortile, correva un basso muro di pietra oltre il quale ancora più in basso, ruggivano le acque rabbiose del torrente.
L’uomo mi stava innanzi, mi faceva strada nella notte. Mi conduceva nel regno coniugale che s’intese violare.
L’uomo è così, qualunque esso sia. Non è tradimento, è la risposta ad un istinto che non vede, e che invoca di continuo la moltiplicazione degli animali. Un istinto supplice di conservazione della specie nella motilità incessante dello sperma, solleticando ciecamente gli uomini in perpetue deviazioni.
E’ istinto non vedente, che talvolta trascura la distinzione dei sessi. Nella brama si sospendono le altitudini liriche di un declamato amore coniugale, consacrato al tempo davanti ad un altare.
La natura è cieca. E’ sommaria nella sua lussuria.

Lo vidi meglio quell’uomo che mi stava innanzi. Il cappuccio alzato e le natiche vigorose, la stazza delle gambe e quel polpaccio rigonfio prima dello schianto in terra di un piede sicuro nell’incedere.
Tra il suo ano pensai, ed il suo genitale equino che tastai in furgone poco prima, vibrava l’elettrizzante moto del suo sperma, che cellula dopo cellula richiamava nel mentre le compagne dormienti, per la sortita imminente che si andava preparando.
Salimmo delle scale protetti da un glicine folto, prepotente e gocciolante di lilla.
La porta si aprì. Dietro ogni porta insiste l’imminente futuro che ci attende.
Dietro alcune porte, insistono luoghi da cui si esce non più gli stessi.

Non una parola. Tremavo, ed anche lui tremava.
Mi guardai attorno, c’erano i bricchi, i bicchieri, i bollitori di rame; e poi i piatti nelle madie, i ferri da lavoro, e tutte le buone cose del tranquillo quotidiano.
Nel silenzio entrammo nella camera da letto.
Un lampo accese il candeggiare di lenzuola distese con cura sul talamo. Un altro subito dopo, avvampò l’intaglio di un piccolo armadio e di modesti comodini. Ero nella camera coniugale del macellaio.
La finestra presso i cui vetri io mi accostai, dava sulle acque piene del torrente e poi sulla montagna, dai cui boschi in quella stessa notte vi discesi, sfidando la monta dei cinghiali, fuggendo forse per sempre dalla dimora del mio tiranno.

Poi mi voltai, e vidi quell’uomo che raccolse a sè le pieghe delle candide lenzuola nunziali, per distenderne delle nuove, virginali, che avrebbero accolto i nostri corpi frementi.
Fu in quell’attimo preciso, in quel lavorìo dell’uomo, che io vi intercettai nell’intenzione una certa cura… di rispetto coniugale, nonostante il tradimento che si andava apparecchiando; rendeva comunque in quell’atto il dovuto onore alla sua sposa, che col primo treno sarebbe all’alba rincasata e che mai avrebbe giaciuto nel telo vulnerato dall'inganno di una notte brava.

Pensai allora al mio Riky, che invece le violò le mie lenzuola. L'incuria dei tiranni.
In quelle lenzuola, le mie, combinò il mio uomo i suoi misfatti, rivoltandosi come verme nelle spire di corpi impropri. Recava quel mio telo bianco i gesti di notti insonni, di mani operose intente nel ricamo e di sospiri, e preghiere sommesse. Prima fu la mano di mia nonna, e poi di mia madre. E negli ornamenti turchini del filo, esse cucirono nelle notti mute tutte le magnificenze delle loro visioni floreali.

Quel lenzuolo mi fu consegnato a piene mani da mia madre, candido e turchino come pegno di trasmissione, pur consapevole che con me la progenie giungeva al suo termine.
Quel lenzuolo io lo lasciai la su, nel talamo sfrenato della menzogna di un amore tiranno. Cotone ricamato e vulnerato. Cotone violato, infamato dallo sterco del mio tiranno, disperso dall’ano battuto, il suo, zuppo del seme degli ignoti.

Quel cotone bianco – pensai allora con non senza rabbia – sarà il sudario per la tua sepoltura.

E mi augurai che della morte del mio uomo, un messaggero un giorno me ne avrebbe recato annuncio, indicandomene il sepolcro, perché solo alla vista della sua effige immobile consegnata all’eterno ed affissa sul marmo, al mio cuore senza vita sarebbe stato consegnato finalmente il beneficio della sua resurrezione.

“Vieni qui, stenditi” mi disse.
E nel silenzio più muto io vi rimasi immobile.
Allora fece che alzarsi e fu lui ad avvicinarsi.

Cinse il mio corpo alla sua carne già accesa. Prese a baciarmi il collo e poi le spalle. Le sue mani scandagliavano i miei fondali e raggiunsero insieme le mie natiche vestite. La forza dell’uomo mi sollevò da terra e nella sospensione aerea ci dilungammo nel mulinello delle lingue. Le nostre secrezioni bagnarono il folto delle nostre barbe. Nei lampi leccai con avidità il suo volto ed egli si perse nel piacere animale di quella unzione. Poi le lingue ripresero a danzare, ora nella mia, ora nella sua calda bocca madida e carnosa.
Tutto intorno a me girava, danzavano nella rotazione il letto, l’armadio, la piccola stanza tutta e danzavano le sue dita sulla presa sicura delle mie natiche. Dalle mutande sentii sgorgare fluente il piacere limpido della copula.
Mi adagiò nei mulinelli della lingua su quelle lenzuola candide e senza un attimo staccarmi dalla sua bocca calai la chiusura lampo della sua felpa. E fu allora che mi distaccai, e quasi non svenni nel vedere nei bagliori fragorosi dei lampi la fuori, la possenza del suo torso.
Era di manto corvino a pettinargli le forme sotto il cui pelo le mia mani si inabissavano alla ricerca smodata dei suoi capezzoli. Si sollevò irto sulle ginocchia e affondò le dita nella mia bocca perché non smettessi di invocare l’amore orale.

Calai le sue braghe ed egli si aiutò. Poi via le mutande e si adagiò pensante su di me strofinando il fallo sul mio ventre nelle contrazioni di chi non sa più attendere a fare ingresso.
Sentii il suo membro premermi nella bocca dello stomaco.
Mi denudò lui e prese avidamente a leccarmi il torso. Nel breve fui ammantato dalla sua saliva e dentro di me sentivo tutto il bollore del mio sangue. Fui carne distesa sulle lenzuola bianche di un macellaio. Mi arresi al banchetto umido dell’uomo. Ne divenni cibo e mi abbandonai ai morsi predatori sul limitare del mio costato, presso il collo e sulle labbra quasi a strapparmele.
Poi la sua lingua riprese il lavorìo ostinato e discese madidamente la linea mediana del mio torso affannoso, fino a muovere presso l’incavo dell’ombelico, ove vi soggiornò forzando un ingresso occluso sin dalla nascita; poi prudente sorvolò il pube, lasciando che di quel tralascio io ne sentissi però il calore delle labbra, e sul fallo mio, sul fallo mio teso, vi depose però la scia salivare di quel passaggio, che fluidamente filò ancora via, lungo la carne venata del mio sesso eretto.
La rotta, non già fu dunque il mio membro, ne le sedi oviformi ove risiedono le forge del mio bianco fecondo; No, la rotta eluse il mio membro per giungervi sotto di esso. La lingua, la sua, spianò la strada nel folto del mio pelo e raggiunse in punta il lembo anulare del mio recesso.

Dispiegai le mie gambe mentre il ventre si incavava in un respiro impedito.
Sentii le sue mani sul mio entrocoscia. Lo vidi annegare sotto di me in un lavorìo incessante. Il calore, la saliva e i tessuti del mio nascondiglio via via dischiuso mi procurarono sussulti negli spasimi di una lussuria abbandonata; mi assentai dall’opera orale dell’uomo, dal mio stesso corpo io emigrai, persino da me stesso mi affrancai, per godere appieno delle mie folgori cerebrali.
Era la lingua di dio.
Stavo disteso, e lasciai che il dio ravanasse il mio ano.
All’unisono i baleni della mia lussuria sussultavano coi lampeggi dilaganti oltre i vetri. Milioni di schegge di luce contro i vetri ed io restavo lì immobile, a gambe divaricate con in dosso le mani avide di un uomo laborioso, ritorto fra i gorghi di una lingua che vorticò le lenzuola cui io restavo aggrappato a pugni chiusi. Da quel letto, dai suoi mulinelli, noi affondammo nelle spire della lussuria per raggiungere un sottosuolo fatto solo di folgori cerebrali.

Poi si alzò, ansimante ed io lo fissai. Vidi la sua barba del tutto bagnata. Vidi le spalle brillare di rugiada di sudore. Vidi la prua flettente del suo membro che un lampo accese di rosso fuoco. Di un rosso gocciolante, sul bianchissimo lenzuolo.
Il mio ano, come un giglio prese ad aprirsi, ed il suo membro toccò timidissimo l’imbocco del mio fiore , per poi subito ritrarsi.
Io mi feci avanti, sollevando il bacino ad invocare l’atto.
Dischiudevo a più non posso la carne supplice del mio ingresso e allora la punta del glande fece che riavvicinarsi, intingendo di liquido cristallino quel mio fiore tutto aperto a quella rugiada.

La punta puntò dritto e deciso allora varcò dunque senza problemi la prima mia frontiera anulare. Non fu difficile, ma ecco che mi accorsi che l’ingresso, dopo qualche centimetro trovò un secondo anello, tenace, più severo come guardiano del regno virginale dell’uomo. Ecco allora che il membro del mio maschio esitò ma senza uscire dall’amore tubolare che aveva dato inizio. Forzò la seconda serratura rotonda con lenta e inesorabile spinta. Fu allora che sentii dentro di me la resistenza della mia verginità che a poco a poco cedeva sotto la pressione continua e sicura del maschio.
Anche il secondo anello mio ad un certo punto si arrese, ed egli entrò in fiera parata militare.
Sentii come dentro di me una strana sensazione. Una miscela esplosiva di voglia di urinare, di evacuare…. e di sborrare. Era il piacere anale ma non restai molto a contemplare le sensazioni che mi pervasero nel mentre. Come un pendolo, quel fallo prese ad uscire e sentii forte dentro di me il terrore di perdere i rimasugli del cibo trangugiato la sera prima. Ma fu una sensazione. Si perché ebbi modo di tastare con le dita il circolo del mio ingresso e non percepii altro che l’umido vischioso della saliva, adoperata all’uopo come vero ungente umano dal maschio che in quegli attimi si accingeva a deflorare un altro maschio.

Rientrò deciso entrò tutto.
Sentii forte dentro di me un piacere potentissimo derivarmi da qualche mia parte sommersa sotto il ventre e credo che egli udì nell’etere quel io piacere strano, tanto da riprendere l’esercizio con costanza e con fare via via sempre più aggressivo.
Mi fotteva. Mi stava fottendo con foga. Io mi arresi e così il mio retto alle spinte di quell’uomo.
Tenevo schiantati i miei polsi sulle lenzuola e sulla mia schiena si dispiegavano onde di brivido smosse da quello che fino ad allora fu il mio tabù.

Inarcai la schiena e un lampo accese l’interno di quella camera buia. Dietro di me, dai vetri, vidi il riflesso di un uomo possente cavalcarmi le natiche, ed un secondo lampo riaccese quella stessa visione ardente nella vista di un maschio sudato, divenuto bestia nella foga del fottere.
E nel viso… nel viso.... io non vi scorsi più l’immagine virile e quasi gentile degli istanti prima, ma vidi, presaga trai lampi, l'effige spaventosa di un bove dalle corna oscure agganciato alle mie natiche… E gli occhi, grandi e vischiosi, mi fissavano dai vetri con occhio di rettile..
Allucinazioni. Erano le allucinazioni di uno stato confuso in cui tutto di me si arrendeva, e al demone dietro di me, si dava concessione di un quasi stupro.

Poi di quella notte, poco al mio cuore è dato ricordare. Se non i fiotti dispersi lentamente dal mio retto su bianche lenzuola, dopo la foga dell’amplesso.
L’uomo crollò nudo tra le pieghe profumate di quel cotone, ed io poco dopo mi ci abbandonai, sentendo, senza contatto, tutto l’odore animale del suo sudore.

Poi ricordo che all’albeggiare io aprii gli occhi. La pioggia finalmente cessò. E così, lentamente ed in silenzio, io mi rivestii. Presi il mio zaino e con cura uscii da quella casa.

Raggiunsi la stazione, il bar era appena aperto, e feci abbondante colazione.
Poi rifocillato nell’aria frizzante raggiunsi la banchina, ad attendere il mio treno che mi avrebbe riportato in valle.

Nell’ano non provai dolore. Lo sentii pulsare e nel ventre sentii muovere le recondità tardive di piaceri nuovi.
L’avevo fatto.
Era per me necessario. Era per me necessario capire cosa muove il vizio dei sodomiti e che corrompe patti di una fedeltà da essi stessi declamata, salvo poi abdicare nella lascivia dei loro ventri.

L’avevo fatto.
Su quei binari ero solo nell’attesa. A pieni polmoni, a respirare l'aria frizzante di balsamo delle conifere distese sui versanti.
All’albeggiare del nuovo giorno tra i monti, nella tregua di tanta pioggia, io capii che in una notte avevo mutato la mia pelle.

Pensai con tenerezza per me, all’uomo che la notte prima mi aveva deflorato, in quegli istanti dormiente e in attesa nel sono del ritorno della sua sposa.

Di fianco alla stazione si allineavano casette di pietra con le loro arnie.
L’ultimo pensiero di quel nuovo giorno si ripose allora sul mio Riky, l’altro uomo, che avevo lasciato in cima a quelle vette aguzze, per sempre, prima di darmi all'uomo cui consegnai per sempre la mia verginità.
Il mio Riky. “L’ape regina”, esclamai sorridendo, non senza amarezza.
Ma il nuovo giorno senza più pioggia elettrizzava il mondo di luce nascente, e in sè prometteva la felicità dell'avvenire.

Promessa di felicità, come di fresco lenzuolo candido che si distende.

Lasciavo i luoghi della mia distruzione, ove si annidava l’arinia della mia ape regina, e per sempre io lasciavo loro.

Così disse il fuco alla sua Regina… che riavendosi alla libertà fatale dopo averla fecondata, dovette darsi conto di una compiuta evirazione.

Così disse il fuco alla sua Regina…
“Ti ignoro, ma qualcosa in me già ti abbraccia. Tu mi distruggerai forse, ma se non compirai questa distruzione per formare coi miei resti organismi migliori del mio, ti mostrerai inferiore a ciò che sono stato io”.
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