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Prime Esperienze

La prima volta con Annie


di Honeymark
25.03.2015    |    16.938    |    2 9.8
"La mia segretaria titolare era in maternità e avevo assunto pro tempore una giovane ragazza che mi era stata raccomandata dalla sua mamma..."
Annie.



La mia segretaria titolare era in maternità e avevo assunto pro tempore una giovane ragazza che mi era stata raccomandata dalla sua mamma. Aveva 20 anni, io ne avevo 40, lei si chiamava Annie, non era molto alta, ma era della bellezza prorompente delle ventenni. Da buon datore di lavoro non l’ho mai corteggiata, ma mi sono sempre permesso di farle qualche complimento galante quando mostrava senza malizia la sua avvenenza con studiate minigonne. Lei apprezzava. Ma soprattutto lavorava bene, imparava velocemente e si dava da fare per imparare e dimostrare che sapeva fare quello che imparava.
E così, quando tornò la segretaria titolare, assunsi anche lei a tempo indeterminato e la inserii nel ciclo di produzione: il controller. Figura chiave nella gestione del cliente, ma nata solo dopo che ho conosciuto le capacità di Annie.
Tutto bene, finché un giorno un cliente ci invitò a Merano a cena casa sua. Una cena di lavoro alla quale aveva invitato proprio me e lei perché gli serviva soprattutto organizzazione. Annie, che stava crescendo professionalmente a vista d’occhio, accettò entusiasta. Io dovevo esserci, perché davo l’imprimatur alle capacità della controller.
La cena fu sontuosa, parlammo per ore e alla fine bevemmo qualche goccio in più. Così l’ospite ci offrì la dependance collegata a casa sua, una specie di villetta per ospiti nel suo giardino.
Ovviamente non volevamo accettare, ma non ci fu niente da fare.
«Quando ve la sentite – ci assicurò, – prendete la macchina e tornate casa. Riposatevi un’oretta o due. È stata una cena faticosa, con ottimi risultati, ma senza un attimo di relax.»
La governante ci diede due accappatoi, due ciabatte e due asciugamani e ci portò nella dependance.
«L’idromassaggio, se volete, funziona.»
Telefonammo a casa per dire che saremmo rimasti fuori.
Quello che era certo per entrambi, a quel punto, è che avremmo scopato… E per questo eravamo tesi come una teleferica ed eccitati come bottiglie di champagne sbattute.
Appena vista la vasca, ci spogliammo senza problemi ed entrammo in acqua. Accendemmo il motore dell’aria.
Lei si lasciò spostare dalle bollicine in modo che fosse loro la responsabilità di muovere il proprio corpo attorno al mio. E a quel punto io non avevo più bisogno di trovare scusanti per accarezzarle il seno in modo palese. Lei, pur restando passiva, sorrideva senza fermarmi. Io mi avventurai più in basso cercando di prenderla come per fermare quello sfuggente balletto erotico. Ma lei voleva continuare a fingersi inafferrabile, facendo sembrare ogni contatto casuale e involontario.
Dopo una decina di minuti, cullato in quella magnifica coppa di champagne che chiamano Jacuzzi, decisi di baciarla. Rispose al bacio lasciandosi portare in assenza di gravità. Lasciò spazio al mio ginocchio che cercava di offrirle un punto d’appoggio e alla fine vi si sedette trascinandomi in quel vortice imprevedibile e ruffiano.
Mi servii di un bacio per tenerla ferma, ma lei si liberava con quel suo sorriso malizioso a occhi chiusi. Ruotavamo più intimi e più uniti, sospesi nell’acqua che ci pizzicava le narici. Ora io cercavo di fermarla e lei di non farsi prendere. Le morsi il collo e finalmente la presi con i denti per farmi attorno a lei. Così costretta si schiuse, ma solo per trascinarmi in altre evoluzioni disegnate da lei. Strinsi i denti sulla sua spalla con maggiore determinazione per impedirle di liberarsi di me, spingendo con la lingua per non farmi entrare acqua in bocca. Mi trovai ad assaporarla e a gustarla, ma anche a seguire maggiormente la sua volontà…
Vedendo che la pressione dei denti, anziché farla soffrire la faceva gemere di piacere, presi a lasciarla per poi morderla meglio in un crescendo eccitante di mordi e fuggi. Divenne presto un gioco d’amore che ci portò a una cruenta caccia dove io l’addentavo di forza e lei godeva all’impazzata. Iniziai a morsicarle il collo, la spalla e il braccio dove si era fatta mettere un tatuaggio e glielo morsi con gli incisivi strofinandolo con forza con la punta della lingua. Sentendo la sua piacevole reazione, ripetei l’azione dappertutto gustandomi la plasticità solida del suo corpo e più volte strinsi i denti fino a lasciarle un segno duraturo nel tempo. Lei, anziché respingermi, reagiva con crescente desiderio, offrendo ai miei attacchi le parti che più gradiva mettermi in bocca.
Ora si lasciava manipolare e girare come se fosse un oggetto gaudente di dolore, lasciando a me la scelta del punto da mordere e baciare. Uscivamo a stento con la testa per prendere fiato, ma il tutto era finalizzato solo a mantenere vivo e crescente il desiderio di passione e di sesso, fatti di gioia e di dolore. Sembrava che lei volesse far posto alla sofferenza fisica per scacciare quella spirituale.
Non ci volle molto che mi dedicassi alle parti più intime e lei, intuendolo, mi lasciava procedere per gradi in modo che il tutto seguisse un suo percorso prestabilito. Mi lasciò raggiungerla all’inguine e mi bloccò la testa tra le cosce, decisa a soffocarmi prima di concedersi. Mi presi con le mani e lei mi lasciò finalmente arrivare a morderle il sesso con la stessa forza e passionalità. La sentivo gemere e gridare dentro e fuori dall’acqua, mentre io davo fondo alle mie riserve di ossigeno per godere di quegli attimi irripetibili.
Poi mi lasciò tornare in superficie, ma scomparve lei andando a sua volta a mordere me. Prima con dolcezza e poi con determinazione. Prima facendosi desiderare e poi facendomi fuggire. Per poi tornare con il pene tra le sue fauci e riprendere l’azione con rinnovata carica emotiva. Volevamo divorarci, eccitati dall’assurdo desiderio dei cannibali che si nutrono di ciò di cui vogliono rivendicare il possesso.
Poteva sembrare la naturale estensione del nostro linguaggio virtuale. Una comunicazione perfettamente sintonizzata sulla misteriosa rete delle emozioni irrazionali, quella che non ha bisogno neanche di una formulazione astratta di concetti da veicolare al cervello tramite la tastiera di un computer... L’urlo, la passione, il dolore, l’eccitazione... Il bisogno di lasciare un segno. La necessità di recuperare il tempo perduto… Lo sbocco naturale di una relazione nata quasi un anno prima, alla sua immacolata assunzione.
Quando venni eravamo abbracciati in un modo del tutto innaturale, come erano innaturali segni che ci eravamo lasciati nelle parti più delicate, così come era innaturale l’intensità della passione e dell’amore che ci aveva scatenati.

Divenimmo amanti. Lei mi impose la condizione della massima riservatezza e la promessa che in ufficio non avrei fatto nulla. Assolutamente. Mai. Nessuno doveva neppure lontanamente immaginare che tra noi ci fosse qualcosa. Quindi dovevo continuare a farle i complimenti dell’uomo galante che non si spinge oltre le belle parole.

Se in ufficio continuavamo il gioco delle parti, decidemmo di incontrarci ogni mercoledì sera nel mio riservatissimo piéd à terre, di cui le avevo dato la chiave. In più, ogni tanto facevamo la pausa pranzo a letto… Dipendeva dagli impegni di lavoro e dalla voglia che avevamo. E la voglia era tanta, tantissima davvero. Lei con me stava facendo un balzo avanti di maturità e conoscenza, io con lei un balzo indietro di vitalità e passione, come ai tempi dei 25 anni…
La passione era davvero totale. E volle subito che facessi tutto. Parola che dice tutto, appunto, e niente.
«Ti piace il pompino?» - Mi aveva chiesto una volta.
«Da matti!» - Le avevo risposto. Era scontato.
«Allora ti faccio impazzire…»
Ogni volta che le venivo in bocca urlavo come un pazzo, come se si spaccasse l’uccello… E lei poi accucciava il viso vicino al pene sgonfio.
«Posso mettertelo in culo?» - Le chiesi una volta.
«Sei il primo, – mi rispose, come se non aspettasse altro. – A te l’onore.»
Si mise in posizione e si lasciò guidare da me con eccitazione. Vederla nuda, sdraiata col culo a me, mi veniva voglia di venire prima ancora di averla sodomizzata… Le diedi dei mordoni al culo così invitante e poi mi disposi sopra. Le poggiai il glande all’ano e attesi che si rilassasse. Quindi spinsi il cazzo un poco, ma sentendo che era recettiva, lo spinsi dentro di lei, che vi sdrucciolò fino in fondo.
In poche botte venimmo entrambi. E da allora la inculai ogni volta. Mi piaceva incularla, le piaceva essere inculata. Non è volgare l’uso di questa parola, perché esprime proprio il vero senso del mio possesso e della sua sottomissione. Mi era stato facile infilarglielo perché aveva sognato da te come fare, cioè spingendo come se fosse in bagno. Nelle sue fantasie aveva capito che l’ano lo comandavi così…
Cominciavamo sempre con lei che me lo prendeva in bocca, poi si sedeva sopra per infilarselo e poi si metteva in posizione per prenderlo in culo. E io mi appoggiavo, per poi spingerlo dentro fino a sentire le natiche appoggiate a me. Tre botte e venivamo entrambi…

Un giorno cominciammo a chiacchierare per parlare dei nostri sogni erotici. Quelli irrealizzabili, voglio dire. Il sesso ludico è quello che consente di scaricare quello reale senza fare danni. Così lei scoprì che io ero sadico e io scoprii che lei era masochista… In maniera soft, beninteso, cioè nelle tendenze che fanno parte non esclusiva delle piccole perversioni naturali che ognuno di noi porta con sé.
«In effetti c’è qualcosa di immorale che mi piace…» - Le dissi, e lei notò che la sola idea di parlargliene me lo faceva crescere.
«Parla.»
«Mi piace mettere nel culo di una ragazza una candela, accenderla e spegnerla a cinghiate…»
Mi aveva ascoltato con una faccia che dimostrava che la cosa l’aveva eccitata al punto da sentirsi alterata.
Scopammo per dare vita ai nostri desideri e la cosa finì lì.
Ma fu ripresa presto.

Una volta portò con sé un cero di giuste dimensioni. Me lo mostrò senza dire una parola. Era da 15 anni almeno che non infilavo una candela nel culo a qualcuno. Si può immaginare cosa provai…
Il solo prendere in mano il cero mi aveva fatto sentire l’intero corpo informicolato.
Si mise maliziosamente in posizione, perfettamente sdraiata come le avevo detto che piaceva a me, con le natiche che tendono ad allargarsi, ma non troppo. Teneva unite le gambe, distanziando solo i talloni.
La massaggiai a piene mani per qualche minuto nelle parti intime e poi le poggiai la punta del cero al buco del culo. Era il nostro grande momento. Quando vidi che l’ano si rilassava per ricevere, spinsi dentro il cero, godendomi lo spettacolo del buco del culo che si allarga e del cero che scivola dentro. Quando arrivai a fine corsa, le presi la figa in mano e lei, quasi dando dei colpi di tosse, cominciò a venirmi in mano.
Stavo proprio toccando il cielo con un dito…
Era come se la felicità volesse traboccare dalla sua figa alle mie mani, il collegamento tra il dare e l’avere, la sua anima che io raccoglievo tra le mani e che mi scivolava tra le dita come acqua fresca.
Un giorno, dopo averla candelata, decisi di penetrarla da dietro, infilandole il cazzo in figa fino a sentire la base del cero appoggiare al mio pube. Ora potevo spingere l’uno e l’altro.
A qual punto lei venne automaticamente, facendo venire anche me a colpi di bacino.
Iniziò così la fase sadomaso del nostro rapporto.

Un giorno, dopo essersi fatta massaggiare per una mezzora, tenendo nel retto il cero, mi mise in mano la cinta dei pantaloni.
«Frustami il culo.»
«Prima ti tolgo il cero, – le dissi. – Potrei farti male.»
«No, – sorrise. – Prima lo accendi…»
Portai la mano al cero e lo spinsi ulteriormente dentro, piano ma con forza. Scivolò dentro per qualche altro fantastico centimetro. Lei sobbalzò di piacere, ma sbatté il bacino con minori movimenti: era impalata. Accesi lo stoppino e lei allargo leggermente le gambe, ma le presi per le caviglie e le strinsi nuovamente. Vidi la candela muoversi verso l’alto. In quella maniera le massaggiavo il retto. Per un uomo si sarebbe trattato del massaggio alla prostata…
«Spegnila a frustate.»
Obbedii.
La fiamma faceva colare la cera bollente sulla fessura del culo e sulla vulva. Il dolore era al limite: scottava ma non ustionava. Era quello che piaceva a lei. Poi iniziai a colpirle il culo, ma la fiamma non si spegneva, si limitava a vibrare.
E continuai a frustarla e frustarla, facendola sobbalzare alternando i suoi stupendi sorrisi sornioni a smorfie di piacevolissimo dolore. Mise le mani dietro la schiena, come se volesse essere legata, e presi nota per la volta successiva.
Visto che non si spegneva, mi portai davanti a lei e le colpii il cero da lì, tra le natiche. Stavolta spensi la fiammella e lei cominciò a venire senza ritegno, muovendo la lingua in maniera incontrollata. Allora non resistetti e glielo infilai in bocca e, tenendomi per le tette, le sborrai in gola.
Non dimenticammo mai quella prima volta…

Da allora ci raccontammo i mille e mille sogni erotici di fantastiche torture per lei.
Guai se fossero venuti a sapere i nostri voli pindarici. Erano cose nostre e basta. Parole, che però penetravano bell’anima in una complicità unica e forse irripetibile.
Insomma, tanto era capace ed energica nel suo lavoro che sapeva svolgere da grande e determinata professionista, quanto era vogliosa di umiliazioni da parte mia. Una sorta di contrappasso.
Non andammo mai oltre i sogni, salvo in due occasioni.
Una volta la portai da un amico. Portava la minigonna, senza mutandine. Nel culo le avevo inserito una pallina anale lasciando fuori solo l’anellino di gomma. L’amico, ipovedente, era autorizzato a controllare con mano che indossava l’ingombro rettale. Quando lui le toccò l’anello, Annie si trattenne per non venire spudoratamente. Arrossì come non le era mai capitato, ma era pronta a fare un pompino a entrambi. E così fece. D’altronde, il mio amico ogni tanto mi passava le sue schiave… Era giusto così.
Un’altra volta la portai a Rapallo da un’amica sadica come me. Anche quella volta indossava solo la minigonna con qualcosa nell’ano. Stavolta fuorusciva una piccola campanellina di Natale. Quando la mia amica diede il colpetto alle natiche e sentì il suono, vennero entrambe, senza null’altro fare.

Il tutto durò un paio d’anni e fu il momento erotico più creativo, trasgressivo ed eccitante della mia vita.
Finché un giorno mi diede l’annuncio: mi lasciava, si licenziava e apriva un’attività concorrenziale alla mia.
In un colpo avevo perso tutto.
Me lo disse piangendo disperata, ma era una cosa che doveva fare.
Aveva ragione. A questo mondo tutto ha una scadenza. Ma la odiai lo stesso.
La vita continuava.

Un giorno di un anno dopo, la incontrai per caso. Andammo a prendere un caffè.
Mi raccontò della sua attività. Si trovava in difficoltà. Mi chiese aiuto. Era il momento della vendetta.
E cosa feci? La aiutai...
Non chiesi nulla in cambio. Non tornammo amanti e dopo un anno si sposò.

Fine

Nota: E' una storia vera. Chi volesse leggere il seguito, l’ho pubblico anni fa. Si intitolava: “La prima volta con una coppia cuck”.
Merita leggerlo, anche se ho voluto scrivere solo oggi il prologo, che a ben vedere meritava davvero.
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