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Il Vestito Rosso - prima parte


di lungwolf
02.10.2017    |    4.332    |    2 5.7
"Il contatto con la pelle ti fece fremere e ti accorgesti di avere i capezzoli turgidi e gonfi (non fa fred- do sai? Ti stai eccitando, eh? Ti immagini già..."
Sulle prime quella lettera ti aveva dato un po' di agitazione: "Perché una lettera non firmata?" Ti eri chiesta, e poi chiamarla lettera... appena poche righe, strane, inquietanti, o perlomeno a te erano sembrate tali, a te così fragile, così sensibile... Eppure ti chiamava per nome, ti dava del tu, ti conosceva dunque (e allora perché non firmava!). Appena poche righe ma già sufficienti a far ansimare il tuo piccolo petto, per accelerare il tuo piccolo cuore. Era il tono, si, il tono di quelle parole che ti turbava: così suadente ma al tempo stesso perentorio, come se chi le aveva scritte fosse lì a leggertele con voce grave, gli occhi penetranti affondati nei tuoi: "Dolce Lara, per i tuoi occhi splendenti, per le tue labbra di fuoco, riceverai in re- galo un gioco. E giocherai..." Uno scherzo, certo, (qualche cretino che non sa co- me passare il tempo in questo agosto d'afa che s'incolla addosso) magari un amico (o un'amica) ansioso di strapparti alla monotonia di un'estate cittadina. Eppure, mentre ti rassicuravi da sola, il tuo respiro era un po’ più corto (solo un po’), il tuo cuore più veloce (solo un po’).
Poi la lettera era finita sul cassettone, dal cassettone al comodino, dal comodino al cassetto. Erano passati i giorni, tu la mattina lavoravi, tornavi a casa sola (i tuoi al mare, il tuo ragazzo in giro per la Francia, chissà dove), trascuravi la casa per re- galarti l'oblio del non far niente, della noia, seduta in poltrona, quasi nuda, il tele- comando a pochi centimetri, il tè freddo sempre meno freddo sul tavolo, immersa nel magma caldo che tutto intorno ti avvolgeva, ti abbracciava a ogni movimento, ti vestiva di gocce di sudore oleoso. Erano passati i giorni e tu non ci avevi pensato più, così come si fa con i grandi dolori che, piano piano, anche se non vuoi, si an-
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nebbiano, si sfilacciano, scompaiano e non te ne resta che qualche brandello ogni tanto. In cucina i piatti sporchi salivano in guglie vertiginose tese al soffitto. Ovun- que i tuoi vestiti sparsi come foglie d'autunno, le scarpe buttate appena varcata la soglia (che soddisfazione il fresco del pavimento sotto i tuoi piccoli piedi nudi!). Da giorni tutto intorno era silenzio: né televisioni gracchianti, né litigi di coppie, né sciacquoni volgari e invadenti. Tutto quanto taceva all'intorno. Niente e nessuno sembrava essere sopravvissuto a quel sole che scioglieva i tetti delle case, che co- stringeva i cani a rasentare i muri, che ti velava di sudore gli occhi e la mente.
Quando suonò il campanello pensasti, da prima, di esserti un poco assopita: avevi appena socchiuso gli occhi e subito li avevi riaperti (un doloroso formicolio, crampo leggero, ti saliva dal ventre allo stomaco). Eri immobile sulla poltrona (po- co respiro, poca aria nei polmoni) incerta nel decidere se quel suono appartenesse alla realtà o se invece lo avessi fatto trillare tu nella testa (un campanello d'allar- me?), incerta fra l'alzarti (ad aprire? O a poggiare l'orecchio alla porta?) e il restare seduta a far finta di niente (ci dispiace, non ci siamo! Siamo fuori! Al mare in cam- pagna in montagna, tutti sono via! Tutta la città è via!).
Il secondo squillo arrivò come un colpo di vento a sparpagliare i tuoi pensieri (castello di carte). Lo stomaco duro, l'ano contratto, ti alzasti lentamente perché il campanello suonò ancora (sbrigati scema, che aspetti, apri quella stupida porta, di che hai paura? "Giovane donna violentata da..."). Come una automa ti eri avvici- nata alla porta chiedendoti se quei pensieri fossero davvero tuoi, rapida, quasi a vo- ler porre fine all'attesa. E lo specchio del corridoio ti aveva rivelato quanto fossi nu- da (il reggiseno pendeva dal televisore, gli slip affogati nelle natiche sudate), troppo nuda per girare la maniglia e dire "siii?". Ti voltasti ti scatto, il vestito era là sul pa- vimento, a pochi metri da te. Dovevi riuscire a prenderlo prima che suonasse di nuovo, dovevi infilartici dentro e tornare alla porta come se il tempo si fosse per un istante fermato, non potevi (chissà perché) farlo suonare un'altra volta. Con un sal- to eri sul vestito, le mani ghiacce, il crampo che saliva. Con gesti frenetici lo infilavi (ma no, cretina, dalle spalle, dalle spalle fai prima!), con un altro salto eri di nuovo davanti alla porta (quanto tempo era passato? Un lampo? L'eterno?). La mano con- tratta sulla maniglia aspettava un segnale. Fu un attimo solo: il campanello squillò,
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tu spostasti tutto il peso del corpo su quell'unica mano, spalancando la porta e chis- sà quale altro abisso.
Il bambino teneva a fatica la grossa scatola sulle braccine grassottelle protese in avanti, impedendole di cadere con la punta delle dita, bianche per lo sforzo. Con il mento appoggiato sulla scatola, aveva una buffa espressione fra il serio e il dispera- to che lasciava immaginare quanta concentrazione gli costasse quella difficile ope- razione. A vederlo così, all'improvviso, sembrava che la testa e le gambette corte nei calzoncini blu non appartenessero al bambino ma alla scatola stessa che, incar- tata in rosso fiammante sul quale spiccava un largo nastro nero, dava bella mostra di sé sul pianerottolo.
A quella vista, tutta la tua tensione rapidamente si sciolse (come i tetti delle case in quell'agosto maledetto). Di colpo ti sentisti sciocca per aver creduto (cosa crede- vi?), per aver pensato (cosa speravi?). Il sorriso pian piano si andava formando sul- le tue labbra, per lasciare presto il posto a una risata meccanica, tesa, nervosa, per poi dilagare in uno scroscio irrefrenabile a gola aperta, la testa reclinata indietro, l'anima leggera come un uccello.
Il bambino ti guardò serio, forse un po’ offeso per quel tuo comportamento di certo a lui incomprensibile, senza parlare tese la grossa scatola rossa. Mentre tu la prendevi dalle sue mani, lui stava già voltandosi per imboccare le scale. Lo seguisti con lo sguardo finché sparì, poi guardasti la scatola che ti ingombrava le braccia. La carta era di un rosso lucido, accecante, bello, un po’ volgare. Il nastro nero, luci- do anch'esso, terminava con un fiocco enorme ben fatto. La scatola in sé aveva di- mensioni particolari: alta come una cappelliera, era di forma rettangolare, una di quelle scatole in cui si mettono i pigiami (ma in quella ne sarebbero entrati molti, forse dieci, uno su l'altro). La voglia che avevi di stracciare tutto e vedere cosa vi fosse dentro, si alternava a un profondo senso di disagio per quell'oggetto ingom- brante. Poi la curiosità ebbe il sopravvento e decidesti di entrare, chiudere la porta e, finalmente, soddisfare la tua voglia. Nell'attimo stesso in cui avevi preso la tua de- cisione ti accorgesti che eri già in casa, la porta chiusa alle spalle, la scatola appog- giata sul tavolino di cristallo in mezzo ai resti del pranzo, alla lattina di Coca, ai
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fazzoletti di carta intrisi di sudore. Immobile la guardavi (o era lei che ti guarda- va?) così come si guarda l'immagine di una divinità misteriosa che si adora e si te- me. Ti sedesti sul bordo della poltrona, le gambe aperte, le mutandine appiccicate al pube (ma chi ti vede tanto!), la scatola che sporgeva dal tavolo e ti lambiva le co- sce con gli spigoli duri. Le mani (da sole) tirarono il fiocco che subito si sciolse per- mettendo al nastro di scivolare via sulla carta lucida come un sipario calato. Sotto la carta, la scatola in cartone era rossa anche lei, ma di un rosso più cupo, quasi cardinalizio. Ormai decisa ne sollevasti il coperchio e allungasti il collo per guar- darvi dentro. Un misto di stupore, curiosità (delusione) ti affiorò allo sguardo: den- tro una nuvola di carta velina crespata, una busta nera, lucida. Dopo un attimo di esitazione la prendesti e, alzandola, ti accorgesti che sotto ne nascondeva un'altra, lucida anch'essa ma rossa come la carta che adesso ti abbagliava dal pavimento. Il foglio all'interno era scritto a macchina (un pazzo, il solito pazzo di tutti gli agosto in città!). A giudicare dai caratteri un po’ consumati che talvolta si leggevano a fati- ca, il tuo pazzo doveva avere una vecchia macchina da scrivere, forse di quelle bel- le che tante volte avevi rincorso al mercato e che sempre ti era sfuggita per questio- ni di prezzo. Una voce di dentro ti diceva di mettere la busta nella scatola, richiu- derla e buttare tutto nel sacco dei rifiuti, uno di quei quattro o cinque che imputri- divano sul terrazzo da giorni e giorni. Era una voce tremula, debole, dal tono di chi vuol dare un buon consiglio. Mentre l'ascoltavi recitare nella mente, un'altra vo- ce più forte, rauca di mille sigarette fumate, dal sapore acido di alcool, si sovrappo- se alla prima sfacciatamente maleducata. Una voce che sembrava salirti dalle visce- re come un conato di vomito (vai avanti! Leggi quello che c'è scritto, non sei curio- sa? Dai, leggi, leggi!). Senza nemmeno volere tirasti fuori il foglio.
In alto, maiuscolo, c'era scritto : "REGOLE DEL GIOCO" e poi subito,
"TU sei IL GIOCO IL GIOCO è parte di TE TU sei IL GIOCO"
"IL GIOCO esisteva già prima di TE non lo puoi alterare non lo puoi modifi- care"
"Puoi fermare IL GIOCO in qualsiasi momento lo vorrai, ma NON saprai MAI cosa c'è dopo"
"Se accetti le regole del GIOCO apri la busta rossa"
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Rimanesti sbalordita, gli occhi fissi su quelle poche righe, incerta se riderne o no (non c'è niente da ridere, cretina, il gioco è il gioco! Vai avanti, non fare la stupi- da!). Ancora quel ventriloquo graffiante ti risalì dallo stomaco fino alla mente, la- sciandoti in bocca sapore un sapore acido. E ancora ti ritrovasti ad aprire la secon- da busta che (sorpresa!) conteneva una serie di biglietti quadrati stranamente incol- lati uno all'altro per tutto il perimetro, in modo che per leggere il successivo dovevi strappare il precedente. Sul primo, sempre in maiuscolo, spiccavano le "ISTRU- ZIONI DEL GIOCO". La prima voce, debolissima, isterica, strillò: "butta via tut- to, dimentica !". Ma subito un rutto potente ti gonfiò le orecchie facendole dolere (strappa quel foglio, idiota, cos'hai da rimetterci, la tua noia? Il caldo? La tua stupi- da vita da piccola, piccolissima borghesina? Mettiti in gioco! Rischia te stessa per una volta! Sei fatta di carne o di sasso?!).
Il rumore della carta che si lacerava fu come una frustata che ti fece inarcare le reni. Una goccia di sudore ti cadde dalla fronte formando una chiazza più scura sul secondo foglietto e tu la fissasti ipnotizzata (dài dài dài!). "Solleva la carta" dice- va il secondo foglietto. La alzasti e le dita toccarono il tessuto di cotone, fresco sot- to ai polpastrelli. Strappasti via un'altro foglio. "Questo è il tuo vestito per il GIO- CO. Se lo indosserai entrerai nel GIOCO e il GIOCO entrerà in TE". Quelle pa- role si scolpirono lentamente nei tuoi pensieri (e il GIOCO entrerà in TE) mentre, simile a un automa, con gesti lunghissimi sollevavi il vestito tenendolo per gli spalli- ni finissimi. Lo fissasti affascinata... rosso come la vergogna, di un cotone leggerissi- mo, di una trasparenza quasi totale se non fosse stato per il colore così acceso. Sem- brava quasi che non avessi niente fra le mani. Dagli spallini, l'abito si allargava ap- pena per ospitare i seni (i tuoi!), poi strozzava la vita per allargarsi di nuovo ad ab- bracciare i fianchi. E poi vertiginoso finiva. Lo appoggiasti sul divano e ti passasti una mano fra i seni, dove il sudore si andava raccogliendo copioso. Il contatto con la pelle ti fece fremere e ti accorgesti di avere i capezzoli turgidi e gonfi (non fa fred- do sai? Ti stai eccitando, eh? Ti immagini già dentro quel vestito, eh? E lo chiami anche vestito? Potresti indossare un fazzoletto e forse ti coprirebbe di più! Tanto vale che non ti metti niente e esci nuda!).
Ancora quel rantolo rauco! Eppure era vero, sentivi dolere i capezzoli, il ventre contrarsi, le mani pervase da mille formicolii (e non è eccitazione questa?). Guar-
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dasti il blocco dei foglietti rimasti, sul primo c'erano molte righe fitte fitte. "Sotto il vestito troverai le scarpe per il GIOCO. Non ti serve altro. Togli tutto quello che hai addosso (a questo punto leggevi foglio su foglio sempre più velocemente, come stessi bevendo d'un fiato alla bottiglia dopo ore di sete) e metti subito il vestito, così come sei. Indossa le scarpe e siediti ad aspettare. Alle 19.00 precise scenderai, pren- derai l'autobus all'angolo della strada, raggiungerai piazza del Carmine e ti incam- minerai lentamente per via Lorenzi, poi volterai a destra e poi a destra ancora". E lì il foglio finiva come un sentiero che dietro una curva si trasforma in baratro, la- sciandoti il vuoto sotto i piedi.
E poi? Pensasti. Strappasti l'ultimo biglietto per leggere: "Il GIOCO è già co- minciato, TU sei nel GIOCO. Puoi ancora decidere di non giocare".
Riguardasti il vestito accanto a te, con le mani frugasti nella carta e ne tirasti fuori un paio di decolleté rosse col tacco finissimo, lucide, lucide e rosse. (Buttale via! Fatti una doccia! Accendi la Tele! Fa qualcosa!). (Si, fa qualcosa! Alza le tue ro- tonde chiappe sudate dalla poltrona, togliti le mutande e calati dentro a quel bellis- simo guanto rosso!!!). La voce si era fatta più roca e insieme più prepotente. Non riuscivi a impedirle di rimbalzarti dentro in ogni tuo organo, come la biglia d'ac- ciaio d'un flipper. Con le scarpe in una mano e il vestito nell'altra, ti avviasti lenta- mente verso la camera, con la consapevolezza (rassegnazione o voglia?) di non po- terti (non vuoi, non vuoi!) sottrarre al destino che stava giocando con te.
Apristi l'armadio per guardarti nel grande specchio che rifletteva il letto dietro di te (quello specchio che a lui piace tanto, vero bambina? Quante cose ha visto quello specchio, tesoro?!). Ti piantasti bene sulle gambe appena un po’ divaricate e ti osservasti... certo eri bella, non alta ma tornita in ogni parte del corpo, i capelli lunghissimi, la bocca fine e grande, l'ovale perfetto del viso, il collo lucido e lungo, i seni piccoli, eretti, coi capezzoli grandi, forse un po’ troppo grandi (agli uomini piacciono, parecchio!), il ventre scavato, la vita stretta e i fianchi magnifici, le nati- che sode e rotonde (gran bel culo che hai!), le gambe affusolate (si, sei proprio una gran fica bambina mia, proprio una gran fica!). Con la mano ti sfiorasti la fronte sudata, poi il collo, per finire con tutte e due le mani sui seni umidi, carezzandoli
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socchiudendo gli occhi per quella sensazione di fluidità che provavi, pelle su pelle, spalmando il sudore su ogni centimetro del seno. Con la destra scendesti giù a cer- care la vagina gonfia, appena nascosta dal minuscolo slip. Facesti scivolare tre dita fra le cosce e apristi la mano per sentirla tutta piena del tuo sesso e poi la stringesti forte, quasi non fosse roba tua, fino a provarne dolore, mentre con l'altra mano tor- turavi un capezzolo grinzoso. Riapristi gli occhi con un largo sorriso sulle labbra e la vista del vestito rosso sul letto ti fece tornare l'inquietudine. Le mani poggiate sui fianchi, facesti scivolare pian piano le mutandine giù dalle anche, guardando affa- scinata lo specchio (lo sai cosa provocano queste cose negli uomini? Eh, lo sai? Gli va in acqua il cervello, cara, lo sai bene!). Ti voltasti il più possibile col corpo, la te- sta girata sul collo, per guardare il filo del perizoma che, riluttante, se ne stava ben piantato nelle natiche (chiamalo culo, culo culo culo!). Tirasti ancora più giù lo slip lungo la curva accentuata delle natiche, fino a vederlo scattare via liberato. E in un attimo eri nuda. Dalla testa ai piedi un sudario di gocce di madreperla ti avvolge- va. Potevi vedere il triangolo lucido all'inizio del solco fra i due perfetti emisferi. Po- tevi sentire l'odore più forte, acido ma eccitante, che esalava dalla pelle madida mentre, con lentezza esasperante, calavi il vestito giù dalle spalle. Le spalline erano lunghe e finissime e la stoffa rossa arrivava appena a coprirti i capezzoli, mostran- do generosamente la curva dei seni attraverso la scollatura. Dalla vita in giù il vesti- to diventava aderentissimo, per terminare subito, poco più in basso dell'attaccatu- ra delle cosce. Dietro eri nuda fin quasi alle natiche e potevi vedere persino l'inizio del solco prima che la stoffa quasi si lacerasse sul (culo, culo) sedere fasciato. Ti sen- tivi nuda più che lo fossi stata davvero. Il corpo sudato aderiva alla stoffa sempre più, quasi lo attirasse a se, macchiandola fra i seni, sul ventre e fra le natiche. I ca- pezzoli eretti sembrava volessero forare il vestito che, aderendovi, ne disegnava le areole grandi. Sul ventre si intravedeva il disegno curato dei peli del pube (ti radi la passerina, signorina?). Dietro, poi, la situazione non era migliore: la stoffa rossa si stava incollando alla pelle fra le due rotondità, lasciando ormai ben poco all'im- maginazione.
Ti sentivi oscena. Sembrava che qualcuno si fosse divertito a disegnarti il corpo con la vernice rossa più volgare che esistesse. Le scarpe alte dettero il colpo finale, slanciandoti in su di almeno dieci centimetri, facendo sembrare lunghissime le tue
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gambe. Ti sentivi oscena, si. Troppo nuda per uscire in quello stato. Ma al tempo stesso la voglia di andare avanti (in questo folle stupido gioco) era ormai diventata la tua padrona. L'orologio segnava pochi minuti alle 19. Ti incamminasti lenta per il corridoio, un po’ incerta su quei tacchi per te insoliti. Un'ultima occhiata nello specchio, il corpo di profilo, tutto curve, e un ultimo dubbio scacciato nell'attimo stesso in cui afferravi le chiavi... poi fuori.
(continua)
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