fra Giulio

“Tieni le mani a posto!”.
Era stato questo il suo commento al mio messaggio di quella sera, quando gli scrissi “Che giornata di merda! Ho lavorato troppo… che palle!”.
Lui, fra Giulio, un religioso che conosco da anni non aveva esitato a fare quella battuta un po’ spinta che trasudava goliardia e virilità. Un maschio annoiato non ha altra scelta: abbassa le mutande e si tira una sega. Una soluzione, un piacere, una necessità, un’abitudine.
La cosa non mi scandalizzò affatto, anzi ne fui divertito; anche lui, nelle sere di noia, faceva divertire il suo pisello, una volta rientrato nella sua stanza, quando i suoi doveri da religioso lo lasciavano libero, doveri a cui si atteneva scrupolosamente e senza ipocrisie. Non era uno di quelli che predicano bene e razzolano male, ma si concedeva qualche momento di relax, un’esigenza, appunto, che badava bene a tenere per sé.
“Ci provo”, risposi io. Quello che non aggiunsi subito è che il mio cazzo aveva avvertito la provocazione alla pari del mio cervello, lui vecchio figlio di puttana abituato a ricevere stimoli e a soddisfarli.
Qualche istante di silenzio. Le notifiche indicavano che aveva chiuso whatsapp, ma dopo qualche istante, ricomparve la striscia verde che mi avvisava di un nuovo messaggio: “Beato te.”

“Che succede?”, gli chiesi pur sapendo perfettamente la risposta: fra Giulio era arrapato e probabilmente stava già combattendo con i suoi slip gonfi, gli slip di un maschio, seppure prete.

Seguì qualche breve scambio di messaggi sul periodo un po’ duro che stava vivendo, difficioltà di diverso genere, ma lui non era in crisi, nulla della sua scelta era in discussione: era soltanto arrapato, nella maniera più semplice e anche più naturale possibile. A 38 anni il suo cazzo richiedeva attenzioni, affetto, coccole.

“Una bella sega e tutto passa”, lo provocai, ma non mi aspettavo di sentirmi dire che aveva già provveduto nel pomeriggio e anche la sera prima; nonostante tutto aveva ancora voglia.

Non saprei richiamare alla memoria gli istanti che seguirono; troppo veloci, troppo adrenalinici. Come si fa a spiegare che in pochi istanti io e l’amico prete di sempre, eravamo in cam con i nostri cazzi turgidi e vogliosi; come si fa a spiegare le porcate che in pochi istanti ci dicemmo, il suo cazzo incolto e il mio curato e depilato che si cercavano.

Non mi ci volle molto per avvertire la sua natura remissiva, il suo desiderio di essere sottomesso e chiavato. Lui, perfettamente maschio, ma con un carico sulle spalle non indifferente, gemeva come una cagna in cam e io, da padrone esperto, lo stavo facendo mettere a pecora sul letto in modo che quel buchetto scuro e peloso, ormai in disuso o forse mai utilizzato, si trasformasse in una figa vogliosa.

Afferrò la prima cosa a portata di mano, un pennerello, si rigirò a pancia in su con uno scatto felino, aiutato da quel fisichetto che continuava a curare con un po’ di corsetta, alzò le cosce e chiedendomi di reggergliele (virtualmente), si ficcò quel arnese dentro non senza esserselo prima passato in bocca.

Fu allora che capii che dietro il prete che conoscevo c’era un maschione voglioso.

Venimmo come due adolescenti, fiotti copiosi ricoprirono il pelo delle nostre pance.

“Ti prego, non…” stava per dire dopo alcuni istanti di silenzio mentre con fatica tentavamo di riaprire gli occhi stralunati dall’orgasmo potente.

“Zitto!”, gli imposi. Non ero più il suo padrone, ma il suo amico di sempre. “Zitto, non devi spiegare nulla, non a me”.

“Grazie.”, mi disse. “Ti voglio bene”, aggiunse.

“Te ne voglio anche io. A domenica.”