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Gay & Bisex

Una storia di altri tempi - 3


di adad
10.03.2019    |    5.930    |    3 9.0
"E a Monte Cappello? Partito don Gervasio, la faccenda perse rapidamente di interesse, fino ad essere in breve dimenticata del tutto, grazie anche al sorgere..."
Dopo aver sacramentato tutti i santi del calendario, don Gervasio si ritirò nelle sua camera, dove seguitò a manifestare rumorosamente tutto il suo disappunto.
Sentendolo, Antonello si preoccupò, si chiese cosa fosse successo da contrariarlo così tanto. Lo raggiunse e, vedendolo bianco in volto e fremente d’ira:
“Cos’avete, amore mio?”, gli chiese.
Don Gervasio non lo aveva sentito entrare, si voltò alla voce e immediatamente l’aria corrucciata del suo volto e la furia nei suoi occhi si mutarono in una struggente espressione di tristezza e d’amore. Spalancò le braccia e gli andò incontro, abbracciandolo con forza.
“Cos’è successo?”, ripeté il giovane, appena gli fu possibile sciogliersi dall’abbraccio.
Don Gervasio rimase un pezzo assorto, poi:
“Qualcuno ci ha scoperto… - disse d’un fiato – non so come, né dove… so solo che tutto il paese mormora di noi… di me e di te. È appena stato qui don Federico, lo conosci, e me l’ha detto… mi ha riferito le voci che girano per il paese…”
Antonello impallidì: sapeva quanto potevano essere pericolosi certi pettegolezzi allorché cominciano a diffondersi, specialmente fra la gente ignorante di questi paesi isolati. Ricordava bene, negli anni della sua infanzia, quando di uno del suo paese si era cominciato a dire ce se la faceva col diavolo e che il diavolo se l’era portato in casa travestito da bel giovane e poi li avevano visti di notte fare come l’uomo e la donna… e alla fine gli avevano incendiato la casa con dentro loro, che erano bruciati vivi con tutto il resto. Si sentiva ancora nelle orecchie le urla di quelle povere anime.
Si sforzò di cacciare l’ondata di paura che stava per soverchiarlo: quella terribile storia lo aveva raggiunto, rischiava di ingoiare anche loro due.
“Ha parlato qualcuno della casa?”, chiese con un filo di voce.
“No. – scosse la testa don Gervasio – Qualcuno deve averci visto sul fiume, l’altro giorno.”
Antonello si morse il labbro:
“E’ colpa mia… sono stato io a trascinarti nel fiume a fare il bagno… e poi sono stato io a…”
“Non pensarci, tesoro, non pensarci. – disse l’altro tornando ad abbracciarlo – Non è colpa tua, non è colpa di nessuno… Doveva succedere. Passerà anche questa, vedrai. Fra qualche giorno non se ne ricorderà più nessuno.”
Antonello scosse la testa:
“Sai benissimo che non è così: le chiacchiere di paese crescono come la gramigna, ogni giorno più forti, ogni giorno più rigogliose, fino a quando… E’ colpa mia! – esclamò balzando in piedi dal sofà dove erano seduti, mano nella mano – non posso permettere che se la prendano con voi.”
E prese ad aggirarsi per la camera, torcendosi le mani, agitatissimo. D’un tratto si bloccò, fissandolo con gli occhi folli di dolore.
“Andrò via, don Gervasio!”, disse alla fine.
“Andrai via? – gemette don Gervasio, balzando in piedi – e perché non prendi un coltello e non me lo pianti direttamente nel cuore? Credi che possa vivere senza di te? Credi che la mia vita avrebbe più senso, senza di te?”
Stravolto come non mai dall’angoscia, don Gervasio lo afferrò per il bavero:
“Perché vuoi farmi questo?- gemette, scuotendolo più volte con rabbia – Perché vuoi farmi questo?”
Poi, tutto il suo furore collassò e don Gervasio scoppiò a piangere, abbracciandolo convulsamente:
“No, no, no, no, amore mio… Non dirlo mai più… non dirlo mai più… -e gli copriva il volto di baci – con te ho conosciuto il paradiso… con te ho conosciuto la felicità.”
Poi, d’un tratto, la sua immensa disperazione sembrò mutarsi in una sorta di delirio erotico e don Gervasio cominciò freneticamente a spogliare il suo giovane amante, coprendo di baci ogni lembo di pelle che scopriva.
Col cuore scavato dalla disperazione, Antonello si sentì sommergere da quella furia amorosa e dopo un attimo di sconcerto, ci si abbandonò con tutto se stesso, lasciandosene travolgere. Prese a ricambiare i suoi baci con uguale bramosia, prese anche lui a spogliare l’amante, resistendo a fatica all’impulso di mordere quelle carni adorate.
Quando furono nudi, don Gervasio lo spinse sul letto e gli si gettò addosso, continuando entrambi gli spasmodici abbracci, i baci famelici, le carezze strazianti. Infine, don Gervasio riuscì a immobilizzare Antonello con le braccia sopra la testa; allora, inebriato dalla vista e dall’odore di quel corpo sudato e anelante, cominciò a baciarlo e leccarlo dappertutto: adorò la rada peluria umida delle ascelle, leccò e mordicchiò i capezzoli, scese verso l’ombelico, lasciando con la lingua una scia di saliva… Infine, giunse al cazzo, ormai turgido… lo prese in mano, lo fissò, leccandosi incerto le labbra asciutte, poi, con gesto rapido, se lo portò alla bocca e lo ingoiò con un mugolio di piacere.
Antonello sospirò tutto il proprio piacere, mentre don Gervasio, dopo aver gustato senza imbarazzo la bava salmastra che lo ricopriva e continuava a defluire per l’estrema eccitazione di cui il giovane era in preda, gli sollevò le gambe e fissò il tenero buchetto, che occhieggiava, roseo e grinzoso, appena visibile nella corona di peletti che lo circondavano. Si sentì prendere da uno strano languore.
“Ti voglio…”, mormorò, guardando Antonello fisso negli occhi.
Poi avvenne l’inconcepibile: il barone prese un lungo respiro e lentamente si chinò, poggiandoci sopra le labbra, prima baciandolo e poi infilandoci dentro la lingua.
“Ohhhh…”, fece Antonello, incredulo ed estasiato a quanto stava avvenendo.

In quello stesso momento, santa Vereconda spalancò la porta e si precipitò all’interno di un salottino appartato del Paradiso, dove alcune sante chiacchieravano devotamente, mentre ricamavano una tovaglia da mettere sotto l’albero a Natale. Era furibonda e si capiva subito che se non fosse stata una santa avrebbe già fatto fuori qualcuno.
“Ma cosa diavolo hai combinato al nostro don Gervasio?”, disse, rivolgendosi a santa Ermenegilda che si stava sbucciando un mandarancio.
La poveretta fece spallucce:
“Cosa gli ho combinato? Io?... ma niente.”
“Ne sei sicura?”, le fece santa Vereconda a muso duro.
“Cosa ho fatto? Poverino era solo e gli ho fatto conoscere una persona…”
Santa Vereconda alzò gli occhi al cielo.
“Ermenegilda, - sbottò fuori di sé – don Gervasio è un uomo e a un uomo bisogna far conoscere un donna! Ci arrivi a questo?”
“E allora?”, fece candidamente l’altra.
“Come, e allora? Ermenegilda, gli hai ficcato nel letto un altro uomo!”
“Ma importante è che sono felici, giusto?”, intervenne una santarella di cui non conoscevano neanche il nome.
“Hai ragione, - fece conciliante santa Vereconda – il guaio è che le leggi sulla terra non girano come vorremmo noi: della felicità degli altri non interessa niente a nessuno. Qualcuno li ha visti, ha messo in giro brutte voci e adesso c’è il rischio che faranno fare una brutta fine a tutti e due.”
“Poverini… - esclamò la santarella – bisogna fare qualcosa…”
“Potrei…”, cominciò santa Ermenegilda, alzandosi.
“No! Tu hai fatto già abbastanza. Ci penso io, che ho già una mezza idea di come salvare capra e cavoli.”, disse santa Vereconda e le lasciò, andando a prendere la diligenza che faceva il volo serale Paradiso – Terra e ritorno.
“Don Cristo’, - disse a san Cristoforo, il vetturino – mi dovete fare un favore: una fermata intermedia a …”

“Ti voglio…”, ripeté don Gervasio continuando a mordere e leccare il vergine pertugio di Antonello, che ormai sguaiolava e si dimenava senza alcun ritegno e:
“Sì, fammi tuo… fammi tuo…”, sospirava.
Poi, tutto si compì: don Gervasio, in preda ormai ad un’incontrollabile furia erotica, sputò un paio di volte nel buco congestionato di Antonello, ci puntò sopra l’uccello e spinse con tutta la forza del bacino.
Il suo cazzo scivolò dentro come niente, ciò nondimeno l’impatto con le vergini mucose di Antonello fu devastante: il giovane si sentì letteralmente squarciare l’ano e urlò con tutte le sue forze, dimenandosi per espellere quel corpo così ingombrante. Ma don Gervasio si tenne tenacemente sopra di lui e dopo aver assaporato il piacere straziante che la penetrazione gli aveva procurato, iniziò il lungo cammino verso l’orgasmo.
Pure, in uno sprazzo di lucidità si avvide della sofferenza che stava procurando all’amante, allora si fermò e fece per uscire; ma l’altro allungò le braccia e lo afferrò ai glutei, premendoselo contro.
“Non uscire, ti prego, - mormorò – solo, fa’ piano per un po’.”
E don Gervasio continuò, più lentamente adesso, ma con l’uccello sempre serrato in una morsa ben diversa da quanto avesse sperimentato in precedenza. Ma intanto, lo sfintere di Antonello cominciava a prendere confidenza con il corpo intrusore, cominciava a sentire la sottile piacevolezza dello stiramento, del massaggio diffuso, e via via il dolore si mutava in un senso di piacere sempre più pronunciato. Don Gervasio era ancora a metà del suo cammino, che già Antonello gli avvinghiava le gambe dietro la schiena e lo teneva premuto a sé, lasciandogli appena l’agio di muoversi col bacino avanti e indietro.
Antonello era ormai in una dimensione del tutto diversa, quando sentì il bisogno di rendere ancora più totalizzante il piacere che stava provando: allora si prese in mano il cazzo duro e iniziò a masturbarsi a ritmo con l’andirivieni di don Gervasio nel suo culo.
Non gli ci volle molto: l’eccitazione aveva raggiunto un livello tale, che in un paio di minuti l’orgasmo gli esplose nelle palle, eiettendo ad ogni scatto dell’uccello lunghi getti di sperma, che gli allagarono il petto e la pancia.
Le violente contrazioni dello sfintere sul suo spinotto sembrarono essere quello che don Gervasio stava aspettando per varcare il punto di non ritorno: con un urlo, infatti, prima si inarcò all’indietro e poi si abbatté in avanti, mentre con ritmo convulso il suo cazzo scatarrava litrate di seme nel culo devastato di Antonello.
Nei minuti successivi, i due giacquero l’uno a fianco dell’altro ansimanti e quasi increduli per quanto era successo e per il piacere che ne avevano provato. Una volta tornati in sé, si baciarono a lungo.
“Che facciamo, amore mio”, chiese Antonello.
“Non lo so, - rispose don Gervasio – ma vedrai che tutto si sistemerà.”

La mattina successiva, il duca di Altamura, primo valletto del Re, entrò di buonora nella camera reale, aprì le finestre e scostò le pesanti cortine del letto.
“Buongiorno, Vostra Maestà.”, disse, facendo un leggero inchino.
“Buongiorno, Altamura. Un giorno o l’altro vi farò tagliare la testa, se continuate a svegliarmi così presto.”
“Eseguo gli ordini di Vostra Maestà.”
“E vuol dire che me la faccio tagliare pure io!”, ridacchiò il Re, andando verso il catino dove si sciacquò gli occhi con la punta delle dita.
“A proposito, Altamura, Monte Cappello è molto che non si vede a Corte, che fine ha fatto? Avete notizie di lui? Stanotte mi è venuto in mente…”
“So che dopo la morte della moglie si è ritirato nella sua proprietà, a Monte Cappello, e… sì, Maestà, saranno almeno cinque o sei anni che non si fa vedere.”
“E questo non è bello, vi pare, Altamura? Sembra quasi che non ci tenga nel dovuto apprezzamento.”
“Sono convito che sia ancora afflitto per la morte della moglie, Maestà.”
“Beh, comunque sia, fategli avere l’ordine di presentarsi subito a Corte, ché ho degli incarichi da affidargli.”

E fu così che don Gervasio e il suo segretario, in obbedienza all’ordine del Re, si trasferirono nella Capitale, dove vissero felicemente il loro amore nell’indifferenza generale degli altri gentiluomini e delle nobildonne, le quali ultime, per la verità, tentarono a lungo di distogliere l’avvenente barone dal ricordo ancora vivo e cocente della moglie morta, ma senza ovviamente riuscirci.
E a Monte Cappello? Partito don Gervasio, la faccenda perse rapidamente di interesse, fino ad essere in breve dimenticata del tutto, grazie anche al sorgere di nuovi scandali, sia pure di portata minore, per i quali nessuna santa si scomodò.

FINE
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