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Lui & Lei

La segretaria del liceo


di alessandro1987
27.01.2021    |    16.321    |    4 9.6
"– Sei proprio eccitato, – esordì lei, con gli occhi avidamente abbassati e un fremito nella voce, – vuoi… toccarti? Non trovai nemmeno il coraggio di..."
...tratto da una storia vera, mi scuso fin da ora se troverete i contenuti non all'altezza :)

Era sicuramente una bella donna, all’epoca poteva avere al massimo quaranta, quarantadue anni. Non potevo certo dire di conoscerla, anche se in fondo era ben nota a tutti gli studenti del liceo. Non ho mai davvero capito che lavoro facesse, spesso la si vedeva seduta vicino all’ingresso, dalla parte della reception. Altre volte la si poteva trovare a gironzolare tra le aule, camminava sicura sui suoi tacchi neri, salutava e sorrideva a tutti, studenti e professori. Immagino facesse un qualche lavoro d’ufficio, anche se quale, di preciso, non l’ho mai saputo. Si chiamava Francesca.

Io e Francesca avevamo un certo tipo di rapporto e, anche se forse non ero l’unico ad essere in confidenza con lei, mi piaceva pensare di essere il solo. Capitava infatti che ci trovassimo a chiacchierare del più e del meno a ricreazione. Gli argomenti erano i più vari: il mondo della scuola, gli amici, le uscite serali, le ragazze, insomma, tutto quello che poteva entrare nella testa di uno studente medio delle superiori. Mi piaceva stare vicino a lei e spesso la sbirciavo, cercando di intuirne le forme sotto gli abiti. Non che ci fosse bisogno di grande intuizione, comunque, era una donna ben fatta, robusta. Piuttosto alta, un gran sedere e un seno sodo, capelli castani abbastanza lunghi. Teneva un viso delicato, un naso esile che contrastava con l’immagine del suo corpo ma che le calzava ugualmente a pennello, dei grandi occhi scuri e due labbra morbide che trovavo molto sexy.

Il caso volle che rimasi coinvolto in una rissa con altri due ragazzi della scuola. Beh, così pare che voglia passare per innocente, diciamo che partecipai attivamente ad una piacevole conversazione a tre. In seguito a questo fattaccio, fui condannato, tra le altre cose, ai lavori forzati, e per tre mesi ebbi l’obbligo di rimanere il martedì pomeriggio a scuola dopo le lezioni. Il mio compito consisteva nel sistemare i libri nella nuova biblioteca al piano terra, con annessa catalogazione e valutazione del loro stato. Dì per sé non si sarebbe trattato di un compito gravoso, non fosse stato che per l’insegnante di filosofia incaricata di sorvegliarmi a vista. Rimanere sotto osservazione per ore non poteva suscitare il mio entusiasmo.

E così, un martedì pomeriggio, terminate le lezioni, me ne stavo a divorare il mio bravo panino pomodoro e mozzarella, in attesa dell’orario previsto per il lavoro. Seduto sulla metà bassa dei freddi gradini esterni della scuola, gambe distese come uno zingaro, zaino accartocciato a un paio di metri da me, vedo arrivare in lontananza proprio lei, Francesca. Sigaretta in bocca, avida fumatrice lo era di certo, e passo svelto. Il rumore sordo del suo basso tacco scuro rimbombava nel silenzio di una scuola svuotata di ogni anima, come sempre accade al suono dell’ultima campanella.

Lei mi vede, allunga lo sguardo e fa un cenno di saluto, subito seguito dal ‘buongiorno’ del sottoscritto. Attendo con la coda dell’occhio che mi passi sul fianco, quindi mi volto e la osservo; mi piace guardarle il sedere quando ne ho l’occasione, tanto più che nei paraggi non vedo nessun altro e mi ci posso così dedicare con dedizione. Un gran sedere, florido, appena contenuto dai jeans blu che le scivolano così bene addosso. Le sue forme risultavano ancora più imponenti viste dal basso, posizione in cui mi trovavo in quel momento. Seguo con lo sguardo la sua figura, che si rimpicciolisce allontanandosi fino a sparire nel buio di qualche corridoio sconosciuto.
Esauritosi l’eco dei tacchi, smetto i panni del guardone per tornare alla precedente occupazione; con gesto svelto rimuovo il moncone di carboidrati dall’unticcio involucro di alluminio e finisco di divorarlo.

Arrivate le quattordici, ora stabilita di inizio del mio servizio, tutto tace. L’insegnante di filosofia non si vede, né all’ora convenuta né nella mezza successiva. Sosto perplesso vicino all’atrio, lì dove trova spazio la segreteria dell’istituto. Mi guardo intorno e non vedo nessuno, decido allora di andare comunque in biblioteca per dare inizio alla mia attività, ma sono presto costretto a rinunciare al mio intento perché la porta d’accesso è chiusa. Proprio mentre allento la presa sulla maniglia della porta, una voce:

– Guarda che la biblioteca chiude dopo l’ultima ora di lezione.
– Oh, lo so, però io sono incaricato di lavorare qui, come ogni martedì da un po’ di tempo a questa parte…
– Ah, ma sei tu! Scusa, non ti avevo riconosciuto. Non è ancora arrivata la professoressa Rambaldi? Di solito è lei che apre.
– No, ancora non si è vista, ed è strano, perché è sempre puntuale.
– In effetti sì, non capita spesso che ritardi. Ascolta, io ti aprirei anche, però poi non posso lasciarti da solo, e al momento sono occupata in altre questioni. Se ti va puoi aspettare con me negli uffici di segreteria, no?
La proposta non mi sembrava affatto male, risposi subito:
– Va bene, allora ti seguo.

Le camminai dietro, nuovamente colpito dall’andare di quel bel sedere prosperoso. Percorso un breve tratto, lei mi aprì la porta del suo ufficio, invitandomi ad entrare. Mi sedetti su una scrivania rimasta libera a fianco della sua e mi guardai intorno, spaesato. Non mi era mai successo di vedere quegli uffici dall’interno, il più delle volte capitava di passare in quei corridoi e di dare una sbirciata dentro, ma senza poi perderci troppo tempo. In fondo, a chi importava? Ed ecco che invece mi trovavo proprio lì, in quel posto estraneo. Oltre alla scrivania a cui ero seduto io, trovavano spazio altre due scrivanie esattamente identiche alla mia, e in quella alla mia sinistra si era adesso seduta Francesca. Un grande archivio occupava l’intera parete posteriore alle mie spalle. Una finestra dalle veneziane scassate si sforzava di illuminare la stanza, senza troppi risultati. Il tutto dava l’impressione di un certo abbandono. Appoggiai lo zaino a terra, e feci per tirare fuori il libro di scienze, anche se non avevo alcuna reale intenzione di aprirlo.
– E così adesso sei sulla bocca di tutti, birbante! – attacca d’improvviso Francesca, che fino a quel momento era rimasta silenziosa davanti al computer .
– Sì, sono io, ormai sono diventato popolare, diciamo così.
– Beh, la popolarità è una bella cosa in fondo, no? Puoi giocarti la parte del duro con le ragazze, – sorrise lei.
– Ahah, ma io non sono un duro, anche se purtroppo me ne è toccata la parte, non è il mio ruolo. In realtà la cosa è andata diversamente da come l’avrai sentita raccontare.
La donna si fece più attenta e si voltò verso di me, invitandomi implicitamente a proseguire. Le sbirciai fugacemente la scollatura, intravedendo le forme del suo seno sotto la camicetta bianca, ed iniziai così a raccontare la mia storia:
– Camilla, una ragazza di 4C, ha una storia con il mio compagno di classe Matteo. I due abitano lontani, e quindi cercano di stare insieme il più possibile, quando sono qui a scuola. Il problema è che Camilla in realtà è ufficialmente insieme ad Alessandro, un idiota di 5F. Ora, nella mia classe siamo tutti consapevoli della cosa, visto che più di qualche volta abbiamo notato Matteo rimanere in aula a ricreazione, per essere poi raggiunto da Camilla poco dopo.
– Hai capito Camilla! Non la facevo così libertina…
– E’ una storia strana, questo Alessandro non mi è mai piaciuto, lei mi sembra più adatta ad uno come Matteo. E comunque, quel giorno stavo rientrando in classe proprio durante la ricreazione, avevo scordato il telefono sotto il banco. Mentre cammino di buon passo lungo i corridoi, scorgo di sfuggita Alessandro, che si sta avvicinando e sembra venire proprio verso la nostra classe. Accelero, colto dalla sensazione che qualcosa possa finire male, entro in aula, e…, – mi interruppi.

Mi resi conto che il ricordo di quanto avevo visto quel giorno, e che stavo per ripercorrere nella memoria, mi eccitava. Non ci avevo più ripensato da allora, ma adesso mi trovavo lì in quell’anonimo ufficio a discutere con una persona che in fondo conoscevo poco. Forse però era proprio questo ad invogliarmi a proseguire, il fremito dato da una situazione che non riuscivo del tutto a focalizzare, a controllare.
– Questa pausa ad effetto fa parte delle tue abilità oratorie? – chiese, sorridente, Francesca.
– No, no, non è questo, si tratta, ecco, non è una cosa che si possa raccontare così, con facilità.
– Sei misterioso, eh? Ma tanto lo so, lo so cosa può averti bloccato nel raccontare.
– Eh, davvero? Del tipo?
– Ahah, ma non stavi raccontando tu? Dai, provo ad indovinare, li hai beccati mentre si baciavano?
Tirai un lungo respiro di sollievo, per qualche motivo la sua ipotesi mi tranquillizzò.
– Non ho mica dodici anni, due che si baciano posso ancora gestirli.
– Eh già, hai ragione pure tu, e quindi? Li hai beccati a fare altro? - chiese lei, come a volermi stuzzicare.
– Sì, – fu la mia risposta.
Lo dissi ed abbassai gli occhi, un po’ per l’immagine che si era appena fatta strada nella mia testa, un po’ perché volevo verificare che, là sotto, la situazione fosse sotto controllo. Sentivo una sottile eccitazione prendere piede dentro di me, e il lieve rigonfiamento sotto i jeans ne era la prova più evidente.
La donna al mio fianco, dopo aver esclamato un – Ah! – di stupore, pareva ancora più attirata da quanto le stavo raccontando. Appoggiò i palmi delle mani al suo tavolo e mosse i piedi nella mia direzione, facendo ruotare così la sua sedia del tutto verso di me.
Indugiai sul suo corpo, così vicino al mio. Le gambe erano leggermente divaricate, i piedi puntati sul pavimento, fermi. Le braccia stavano rilassate, quella sinistra poggiava sempre sulla scrivania, quella destra si era lasciata cadere sulla coscia ben tornita. Sollevai lo sguardo, ammirando di nuovo il suo seno, e mi accorsi dei capezzoli, che si erano fatti più visibili, più tonici. Infine la guardai negli occhi, e per un istante intuii qualcosa, che poi però subito sfuggii, quasi impalpabile alla mia mente.
– E cosa hai visto di preciso? Non ti vergognerai certo di dirlo a me, vero? – riprese Francesca.
Quell’invito lo raccolsi, mi feci forza e le raccontai cosa avevo visto:
– Beh, per farla breve…
– Non farla breve, ti ascolto con interesse – interruppe lei, con voce suadente ma asciutta.
– Ecco, li ho visti, li ho visti… Ho visto Camilla che teneva in mano il…
– Il?
– Il coso…
– Ahah, il ‘coso’, – prese a dire lei, ponendo l’accento su quella parola, – e per fortuna che non hai dodici anni, – mi fece arrossire sul serio.
– Beh, hai capito no?
– Forse, ma se ti spieghi più chiaramente è meglio. Dimmi cosa hai visto, forza.
– Ho visto che, insomma, lei aveva in mano il suo… insomma, il suo cazzo.
– Bravo! – e scoppiò a ridere.
Io rimasi lì come un cretino. Mi piaceva il suo modo di ridere però, e questo forse ammorbidì il mio stato d’animo. Mi sentivo effettivamente un bambino. Le guardai il viso rilassato dalla risata, la bocca leggermente aperta, le labbra con un filo di rossetto, il trucco delle ciglia: era proprio una bella donna.
– E cosa le stava facendo, questa ragazzaccia? – sorrise lei.
Mi bloccai di nuovo, ricordavo bene quella scena. Lui stava in piedi contro il muro in fondo all’aula, solo parzialmente riparato da alcuni zaini posti sui banchi in ultima fila. Lei, inginocchiata, teneva il suo cazzo in mano e lo masturbava con delicatezza, con lo sguardo rivolto in alto, verso di lui.
Sentii una forte erezione salire in me, stavolta c’era tutta. Di nuovo gettai lo sguardo lì sotto, e vidi come la situazione si fosse fatta durissima. Un profilo ben noto era comparso sotto il tessuto dei jeans, spavaldo.
– Lo sai che sei un tipo strano comunque? – riprese a parlare Francesca, – sei seduto qui da 20 minuti, e non ti sei nemmeno levato la giacca! Ma non hai caldo?
Io non mi ero davvero accorto di nulla.
– Dai, levati questa giacca ed appendila all’attaccapanni, – mi esortò.
La questione era spinosa. Come potevo alzarmi così, dopo quello che avevo appena notato tra le mie gambe? Ma nemmeno era ragionevole rimanersene con la giacca addosso. Balbettai una scusa poco credibile sul come non sentissi affatto caldo, scusa resa ancor meno credibile dalla mia fronte bagnata e dal senso di soffocamento che sentivo attraversarmi le ossa.
– Cos’è, ti vergogni pure a levarti la giacca? – chiese lei.
– No, no, ecco, ora non posso proprio togliermela.
– Guarda che sei strano, vuoi che te la levi io, bel ragazzino?
Quel ‘bel ragazzino’ mi era proprio piaciuto, nonostante tutto. Ma non potevo certo continuare con quella farsa, così cercai di parare il colpo:
– Se mi alzo e l’appendo, prometti di non dire niente, di non ridere? – dissi.
– Non capisco di cosa tu stia parlando, ma sei sicuro di stare bene?
– Prometti e basta…
– Hai la mia parola, nessuno ti riderà dietro per il modo goffo con cui appendi la giacca, qui siamo di ampie vedute, una scuola che accoglie tutti, – scherzò lei.
Mi alzai, e lo feci in modo completamente idiota. Dovendo passare tra la mia scrivania e la sua, cercai subito di ruotare il corpo dalla parte opposta, per celare le mie vergogne al suo sguardo. In parte la cosa poteva avere un senso, visto che in effetti lei stava seduta alla mia sinistra e l’appendiabiti si trovava invece a destra, a fianco della porta d’ingresso. Ma orchestrai il tutto così male e il modo di muovermi risultò così stupido che, quando ancora stavo per attraversare i due tavoli, lei scoppiò in una fragorosa risata.
– Ahah, questa proprio me la devi spiegare! Mi dai le spalle? Ti sei offeso? Cammini sempre così?
– No, è che, senti… – non avevo idea di come giustificarmi.
Decisi che non ero in grado di spiegare a parole quale fosse il problema e mi voltai di scatto verso di lei.
Rimasi in piedi, con la giacca addosso e l’erezione visibile puntata dritta verso la donna. Lei mi guardò in faccia, pensando probabilmente che fossi matto. Per un lunghissimo secondo non ci fu alcuno scambio, ma poi lei, in modo del tutto inatteso, lanciò una rapida occhiata verso il basso e subito rialzò lo sguardo. Non convinta, tornò con gli occhi là sotto, quasi attratta da una inspiegabile forza esterna. Mi fissò negli occhi:
– Capisco, era questo. Ma non devi proprio preoccuparti sai, sei giovane, sei sano, – sorrise dolcemente.
– Si d’accordo, ma sono comunque in imbarazzo… Attacco la giacca, che è meglio.
Mi diressi verso il maledetto attaccapanni per sistemare la giacca, quindi mi voltai e ripercorsi all’indietro gli stessi passi, tornando a sedere. Per tutta la durata dell’operazione lei mi aveva fissato, un po’ negli occhi, un po’ altrove, e la cosa non aveva che peggiorato la mia situazione.
– Ti sei eccitato per via di quello che stavi raccontando, vero? Ed è colpa mia, sono stata io a chiederti i dettagli.
– Sì, ma sono io che mi sono lasciato prendere.
– Non devi proprio fartene una colpa, sei giovane, giovanissimo. Sono cose che succedono. E poi…
– Cosa? – chiesi.
– Beh, se prometti che la cosa rimanga tra noi, ti posso pure confessare che è una scena particolarmente intrigante. La possibilità di essere visti, poi, è molto erotica.
Mi mancò il respiro, non mi aspettavo che potesse parlarmi così. Guardai ancora verso il basso, lui era lì, minaccioso. Poi guardai verso di lei. La fissavo, e intanto sentivo chiaramente gravare il peso del mio membro, fattosi marmo, schiacciato dai vestiti. Faceva male.
– Ti fa male? – mi chiese.
– Solo un po’, – mentii.
– Ascolta, - disse lei, e fece una pausa di qualche secondo, come a riflettere. Abbassò la voce e poi riprese:
– Mi interessa conoscere il resto della storia, ma non voglio che tu ne soffra. Facciamo un patto, che ne dici?
– Che patto?
– Tu racconti, ed io ti permetto di aprirti i pantaloni, così da farlo respirare almeno un po’, che ne dici? Può andare? Occhio, che ho detto i pantaloni e solo quelli, furbetto!
La cosa aveva preso una strana piega, inutile dire che si trattava di una piega che mi attirava molto. Sentivo la testa bollire, risposi di getto:
– Va bene, ma se entra qualcuno?
– Vero anche questo, però a quest’ora non gira praticamente più nessuno qui. Se ti può aiutare, posso chiudere a chiave la porta, ok?
– Sì, d’accordo.
Lei si alzò e mi guardò ancora, tutto. Poi si diresse verso la porta dell’ufficio, girò la chiave che stava infilata nella serratura e torno a sedersi.
– Proseguiamo? – chiese.
– Sì, ecco…
Mi vergognavo, ma ero anche tremendamente eccitato, e le due cose si caricavano reciprocamente in un circuito che non sapevo come spezzare. Aprii la cintura e mi sbottonai. Abbassai la cerniera completamente e poi, afferrando i jeans con entrambe le mani, li abbassai a metà coscia. Mi ero completamente dimenticato di Francesca, che però non si era affatto scordata di me e mi aveva osservato per tutto il tempo. Fu lei a parlare per prima:
– Vedo che ti sei liberato per benino! Io pensavo che avresti aperto giusto la cerniera, ma a quanto pare non ti basta. Ma meglio così, almeno ora non sei più...compresso, – pose l’accento su quell’ultimo termine.
Mi resi conto di avere le mutande completamente in vista, il pene svettava finalmente in tutta la sua lunghezza e avevo pure ripreso a respirare più regolarmente.
– Ora devi tener fede al patto, e continuare a raccontare, – riprese la donna.
Forse il fatto di essermi svestito, o magari l’aver chiarito con lei la mia condizione, mi rese più sereno. Non temevo più l’imbarazzo e mi sentivo spavaldo, eroico.
– Camilla, – ripresi a parlare, – Stava masturbando Matteo. Era inginocchiata davanti a lui e lo teneva fermo in mano, muovendolo su e giù.
– Ma dove stavano? Alla cattedra??
– No, no. Si erano in qualche modo rifugiati verso il fondo della classe. In parte riparati dagli zaini che avevano messo sopra i banchi, anche se di sicuro non potevano ritenere di essere invisibili. Credo avessero in qualche modo pensato di dover mostrare un po’ di pudore, una di sorta di protezione psicologica. Ma, in fondo, la possibilità di essere visti contribuiva sicuramente all’eccitazione, come hai notato anche tu…
Francesca, la guardai meglio. Teneva la bocca semiaperta, le labbra dischiuse, aveva l’aria di stare immaginando la scena con dovizia di particolari. Sembrava molto eccitata, adesso era lei a rimanere in silenzio, si avvicinò ancora di più alla mia sedia.
Io ebbi un lungo brivido, la testa mi scoppiava, ma non osai dire niente. La visione che avevo in mente si era fusa con la donna che avevo di fronte ed ero di nuovo piombato dritto filato in un vortice di pensieri erotici.
– Sei proprio eccitato, – esordì lei, con gli occhi avidamente abbassati e un fremito nella voce, – vuoi… toccarti?
Non trovai nemmeno il coraggio di annuire. Mi limitai ad abbassare i boxer quel tanto che bastava, portandoli alla stessa altezza dei jeans. Adesso il mio membro stava in bella mostra davanti a lei, pulsava come una cosa viva e indipendente dalla mia volontà. La cappella, bagnata ed enorme, dominava dalla cima della torre, piena di una cattiveria violacea.
Lo presi in mano, con vigore, e cominciai a masturbarmi. Mentre lo facevo fissavo lo sguardo di lei, i suoi occhi scuri e pieni di voglia, desiderosi di godere.
Quasi all’unisono con me, anche lei iniziò a fare lo stesso. Diede un ultimo sguardo alla porta chiusa dell’ufficio e poi alla finestra, a verificare che non vi fosse nessuno in grado di vedere cosa stesse accadendo. Con le mani si aprì i jeans, li abbassò solo leggermente e infilò poi le dita sotto le mutandine nere.
La vista di Francesca, seduta al mio fianco ed intenta a toccarsi, mi eccitò come un cavallo pazzo.
Presi a masturbarmi con molta più energia, lo sentivo durissimo e turgido e la cosa mi faceva salire ancora di più il sangue al cervello.
Aveva preso a guardarmi con profondo desiderio, spostava lo sguardo un po’ sul mio viso e un po’ sul mio pene, ammirando le mie manovre con interesse.
Le appoggiai una mano sulla coscia, e lei fece in modo di avvicinarsi a me in modo che le nostre gambe si toccassero. Con l’altra mano continuavo a sbattermi come un forsennato, squadrandole intanto ogni angolo del corpo; le gambe aperte, i peli corti della figa appena visibili, le dita di lei, umide, che violentemente sparivano dentro il suo corpo, per poi uscirne ancora, sempre più fradicie. La ripercorsi con lo sguardo, ora le fissavo il seno sotto la camicetta; il profilo dei capezzoli si stagliava netto sotto gli abiti, quasi non vi fosse neppure un reggiseno a contenerlo.
– Ti prego, aiutami, prendilo tu in mano, – la implorai, ormai privo di qualsiasi vergogna.
– Caro, non chiedermelo, stiamo già violando qualsiasi regola, – disse lei, ansimando mentre godeva.
La guardai intensamente, anche lei non era più in grado di capire cosa le stesse succedendo. Teneva la bocca spalancata, cercando di non emettere alcun suono per evitare di destare sospetti. Non era un compito facile, anche perché la sua voglia, non trovando il giusto sfogo nella voce, si era disseminata nel resto del corpo. Stava aggrappata alla sedia con le gambe, ormai spalancate. I suoi jeans erano scivolati un po’ più in basso, per via dei movimenti convulsi del corpo, e ora potevo vedere chiaramente la sua mano scivolare con facilità dentro di lei, sotto le mutandine.
D’improvviso, Francesca ebbe un forte orgasmo. Mi fissò negli occhi per una lunga frazione di secondo, immobile, poi strinse le gambe, lasciando la mano ficcata tra le cosce. L’altra mano rimase in appoggio sul tavolo della scrivania. Piegò la schiena in avanti, come sospinta da una forza interiore che non le lasciava scampo, vidi quel corpo contorcersi sul fulcro della sua figa vogliosa. Aprì la bocca, tentando di contenere la voce, e solo un flebile suono le uscì dalle labbra.
Io, vedendola in quel modo, piegata su sé stessa, con il viso sconvolto così vicino al mio sesso, non potei più contenermi. Detti un’ultima strattonata e venni copiosamente. Lo tenevo saldo tra le dita, accompagnando ogni schizzo con forti strette della mano lungo tutta l’asta. Lo sperma sbalzò fuori e finì interamente sul viso di lei, ripetutamente. Non ebbe il tempo di riprendersi dal suo piacere, che subito un liquido bianco aveva preso a colarle dalle guance, dagli occhi, dalle labbra. Tenne la bocca semiaperta per quegli interminabili secondi, assaggiando così il mio seme caldo.
Io lasciai la presa. Ero sfinito. Lei tornò a sedersi normalmente, succhiandosi un po’ le labbra per non lasciar andare quel denso sapore salato, poi mi sorrise e sbottò:
– Vedi un po’ cosa abbiamo combinato, hai mica un fazzoletto?
– Sì, nella giacca!
– Ecco, vedi di recuperarlo, anzi prendi tutto il pacchetto.
E mentre parlava stava seduta immobile, con la schiena ben dritta, nel tentativo di non peggiorare la sua situazione.
Io mi rivestii di corsa e andai all’appendiabiti, presi i fazzoletti e glieli porsi.
Aspettai che si fosse asciugata per bene il viso, anche perché non sapevo cosa dire in quel momento. Sentivo addosso una grande stanchezza, unita ad una strana felicità. La guardavo ripulirsi dal mio sperma, notando che diverse gocce le erano finite sulla camicetta, macchiandola.
Tornammo ad assomigliare a due esseri umani, o forse avevamo appena smesso di esserlo. Francesca aprì la finestra per arieggiare:
– Meglio far entrare un po’ d’aria, perché qui se arriva qualcuno non so cosa possa capitare. Oh, guarda, è arrivata la professoressa Rambaldi!, – disse, guardando nella mia direzione e allungando il dito indice verso il parcheggio riservato ai docenti.
Io presi il mio zaino di corsa e indossai la giacca in un lampo, volevo evitare di farmi trovare lì dentro. Lei mi venne dietro, mi afferrò entrambe le mani e disse:
– Sono sicura che quanto sto per dirti non è necessario ma, ad ogni modo, te lo dico lo stesso. Quello che è appena successo deve rimanere tra noi, chiaro? – mi fissò severa.
– Sì, sì, certo, garantito.
– Bravo ragazzino! Ti lascio andare dalla tua professoressa, però non hai finito di raccontarmi la storia della rissa. Come è finita?
– Ahah, giusto, non te l’ho più raccontata, vorrà dire che dovremo trovare un’altra occasione per discutere della vicenda…
– Bel furbetto! Vai va, altra occasione, fuori di qui!
E sorridendo felice mi aprì la porta dell’ufficio, lasciandomi uscire. A pochi metri di distanza mi voltai, cercandola con gli occhi. Dalla porta socchiusa sbucava il suo bel viso, mi salutò dolcemente con la mano e richiuse.
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