Racconti Erotici > Lui & Lei > La tristezza degli agrumi
Lui & Lei

La tristezza degli agrumi


di Membro VIP di Annunci69.it Occhidimare12
24.01.2023    |    346    |    12 9.7
"Perché la passione non chiede, la passione già sa..."
Alessandro sapeva di arance e di sole di Sicilia. Lo immaginavo, anche se non ci eravamo mai incontrati. O meglio, sì, in chat ci si incontra, ci si scontra, ci si mostra ma non ci si appartiene come quando ci si annusa il profumo aspro della nuca o ci si sfiora la dolcezza della pelle con le dita guardandosi negli occhi, screziati di desiderio di conoscenza e di voglie.
Era perfetto. Bello e intraprendente. Sicuro, determinato e mai invadente o perentorio. Risolto. Uno solo tra i tanti. L’unico. Unico. Per me era già così nell’immaginario. E l’immaginario, si sa, è un lago calmo ma melmoso e pieno di insidie in cui si rischia di rimanere invischiati. Chiusa in casa con il mio smart working potevo solo sbizzarrirmi con la fantasia. Potevo ideare semplicemente quello che volevo, o arrivare a idealizzare persino che un uomo, conosciuto su un sito di incontri, potesse essere proprio come lo avevo sempre desiderato. Mentalmente e fisicamente. Una sorta di normanno dagli occhi di mare e la chioma fulva da leone della savana. Non troppo alto, né imponente. Di statura fisica media e moralmente alta. Sopra la media. Mi piaceva come muoveva le mani in videochat e come sorrideva scoprendo due ammiccanti fossette sulle guance, al di sopra della barba, rosso tramonto. Un pronipote di Federico II di Svevia, detto lo Stupor Mundi, vagheggiavo. Viveva in una casa sul mare di cui più volte mi inviava immagini e video. La sua tana, il suo rifugio. Ma perché alludere con questa terminologia da animale in fuga alla propria villa?
Io mi chiamo Athena e sono un’inguaribile romantica e non vedo mai il male. Ma me ne faccio. Spesso. Mi autoinfliggo cose bellissime che mi scalfiscono dentro. Amo definirmi una concreta sognatrice. Quando esco mi imbacucco come un’anziana freddolosa, in realtà sono tutt’altro che fredda o freddolosa ma mi proteggo dal mondo, come se diversi strati di indumenti potessero essere una seconda pelle. Lo scudo di un cavaliere errante, insieme forte e gentile e fragile e scontroso. Appartenente a quella cerchia di persone che non appartiene a nessuna cerchia. Sono morbida, tonda, burrosa, come mi dicono gli uomini, tanti, che si invaghiscono di me. A volte mi sento in colpa perché mi sembra di prendere troppo posto nel mondo con la mia carne, i miei folti capelli ricci e neri e la mia personalità strabordante. L’unico mio posto legittimo nel mondo mi sembra da sempre la vasca, qualsiasi tipo di vasca, in cui ritrovo il calore perduto della nascita e le carezze dell’acqua, la mia madre naturale. Perché sì, sono una donna pesci. Una creatura appartenente all’acqua e che prende varie forme. Una creatura proteiforme. Gli uomini mi hanno sempre venerato come una dea, forse in virtù del mio nome, e se è vero che in nomen omen, beh a me sembrava di esser davvero la dea della guerra e della sapienza in perenne lotta tra sé e con il mondo. Nessuno sembra sapere che le donne apparentemente forti, quasi aggressive in ragione del piglio deciso che esibiscono, costruiscono attorno a sé una corazza per proteggersi; tanto tenero e vulnerabile è il loro essere, tanto più inviolabile è il loro guscio; proprio come l’aragosta che, alfine di preservare le sue carni morbide e candide, si costruisce uno scafandro duro da perforare se non con qualcosa di acuminato. Un’arma. Uno schiacciaanima. Alessandro, il cui nickname mi aveva da subito colpito: pescatorediperle, quel guscio impenetrabile, seppur, a distanza, sembrava averlo attraversato con dolcezza e costanza. Esprimendomi pensieri e propositi da realizzare insieme non appena ci fossimo incontrati fuori da un social troppo affollato di presenze importune e spesso irrompenti.
“Desidero venire a trovarti e passare del tempo con te. Non voglio occuparti casa. Essere invadente. Prenoterò una suite, se ti fa piacere, dove potremmo incontrarci e da lì spostarci, andare in giro. Voglio scoprire la tua terra. Voglio scoprire te. Ridere, leggere, mangiare, vedere un film e fare l’amore. Tanto. Ne ho troppa voglia e troppo bisogno” scriveva con un linguaggio diretto e pulito. Era semplice. Intelligibile e mai equivoco o irritante.
Io, invece, non ero mai troppo chiara. Mi vergognavo. Mi era tornato quel sano pudore che ti fa misurare le parole, le pause, i messaggi da evitare e per fortuna, anche limitare le uscite non consone troppo ricorrenti, purtroppo, in chat, da parte di tutti, forti di uno schermo dietro il quale celare identità e vite reali. Quell’antico pudore che conservi solo per chi è puro nel modo di rapportarsi e di essere con te. Mi piaceva piacergli tanto. Perché lo scopo di ogni persona sensibile, nella vita, non è piacere poco a tanti ma piacere tanto ad una sola persona. Quella i cui occhi incroci per caso e che ti fa vedere attraverso il proprio sguardo tutto più bello, tutto più possibile. Quella la cui voce ti rimette al mondo. Quella il cui sguardo ti disgela ciò con cui fino ad allora avevi convissuto interiormente senza potertene liberare.
Girammo giorni per le strade della capitale, ci fermammo a mangiare nei posti più tipici, andammo a visitare la casa di Keats. Mi regalò un libro di Lord Byron e scarpe con il tacco, borse e abiti costosi. Gli piaceva scegliere con me e per me scelse anche un kimono nero a fiori dorati. “Questo è per te che sei la mia guerriera e la mia geisha” disse. Portava le buste del nostro shopping con nonchalance come pochi uomini sono capaci di fare senza protestare e con un sorriso sempre sfoggiato con autentica amorevolezza. “Dimmi qualcosa in siciliano!” gli dicevo mentre sopra di me si prendeva tutto. Occhi, pelle, tremori, odori, umori, cuore e anima. A me non sono mai piaciuti i principi azzurri ma i re oscuri. Quelli dal mantello nero che galoppano sotto le stelle per venire a rapirti personalmente per poi sbatterti su un letto di quercia nel loro castello sulla scogliera, da cui si ode il rumore dei marosi. Dalle cui finestre si vede la schiuma bianca delle onde che si suicidano sugli scogli e flutti riottosi implacabili. Amo i sovrani che scendono in battaglia e non quelli che dettano le proprie strategie di guerra assisi comodamente sul proprio comodo trono. I re guerrieri che proteggono il proprio regno con sangue e viscere pulsanti dal ventre ferito. Lui aveva alcunché di regale in ogni gesto. Anche quando prese un’arancia rossa e la stracciò sulla mia bocca, sul mio seno, sul mio mare inquieto e ne leccò il succo sanguigno da ogni meandro in cui era gocciolato. “Amo u'to corpo chi cola. A to anima chi trabocca attraverso u suduri chi mi doni! Nun vogghiu lasciarti. Nun vogghiu irimminni da chisti jorna, dai to' luoghi, do' to' calore accussì umano e raro. Prezioso pi mia chi sunnu un’ombra” mi sussurrò all’orecchio con voce tremula e impetuosa. Ripetendolo più volte. Tutte le volte che ci incontrammo e ci appartenemmo come le rose alle proprie spine.
Quando, l’ultima volta, se ne andò avvertii un grosso peso sulle spalle. Una sorta di atlantismo improvviso che mi faceva quasi barcollare. Cosa ci fosse di così oscuro, dionisiaco, sotterraneo nella sua personalità che mi esaltava e mi sprofondava contemporaneamente non mi era affatto chiaro. La sua passionalità dolce e selvaggia mi svuotava. Mi sentivo come un’arancia a cui fosse stato sottratto il proprio succo e fosse avvizzita ma non attraverso il singolo frutto bensì con tutta la pianta e la terra dattorno; tanto che per salvarla sarebbe occorso un fuoco purificatore e salvifico. Quella che è nota come tristezza degli agrumi mi stava ammalando partendo dall’anima e passando al corpo o viceversa, non mi era per niente facile stabilirlo.
L’impressione era quella di essere stata morsa come una mela, succhiata come da un vampiro che sugge il sangue dal collo di una bianca fanciulla ignara o quale un neonato che si fa allattare azzannando con le gengive il capezzolo della madre come uno squaletto nervoso che annusa nel latte il proprio sostentamento.
Quando un giorno, di un anno dopo, non lo sentii più, piansi. Piansi fino allo spasimo. Una cortina nera, d’un tratto, era calata sulla mia vita. Come un sipario lugubre, di fine, di morte. Non riuscii a capire quella crudeltà. Quella crudeltà ipotizzata ma che spesso gli esseri umani infliggono proprio a chi li ama di più. Il silenzio è sempre crudeltà. Il silenzio della virtualità è deformante. Ci trasforma in tigri di carta spaventose e forti nell’aspetto ma fragili nell’essenza, capace di prendere fuoco con una piccola scintilla di sospetto. Non rispondeva più ai messaggi. Non li visualizzava neppure. Era stato un anno intenso, sapevo tutto di lui ma non sapevo niente effettivamente della sua vita. Non avevo voluto sapere niente. Non avrei potuto rintracciarlo ma non lo avrei fatto comunque perché come mi diceva sempre lui: “Fimmina d’onore sei e orgogliosa!” imitando il personaggio di Gennarino Carunchio che mi faceva ridere e per il quale ammiravo la sua innata vis attorica. E se avesse avuto una moglie, e dei figli? Ma allora perché sostenere come aveva sostenuto: “Io sono un’ombra!”? Passarono settimane fino a quando per puro caso vidi al telegiornale il suo viso. Statico. Consunto. Le labbra cianotiche e i capelli tagliati come ad un soldato preso e tenuto in ostaggio in un pugno di metri. Non era un soldato. Era il figlio di un boss di mafia che solo per me aveva rischiato più volte di essere preso uscendo dal suo covo familiare. E lo avevano preso, torturato e infine ucciso. Ammazzato perché si era concesso il lusso di non essere un’ombra ma un uomo che semplicemente amava. Avevo percepito il nero della sua vita ma non quello della sua anima che era pura e bambina. Mi disperai. Fui sollevata solo quando seppi che era stato freddato, lui così caldo che conteneva il sole dentro di sé, perché si era ribellato a quel cumulo di merda che è il sistema delinquenziale che lo avrebbe voluto risucchiare nelle proprie spietate gerarchie. Era morto perché uomo d’onore fu. E orgogliosa ne fui io. I miei occhi cerchiati di nero si sollevarono sulla testa di moro che mi aveva regalato e di cui mi raccontò la triste leggenda d’amore ad essa legata. Vi trovai un bigliettino minuscolo con una dedica: “A te solo che mi hai accolto senza sapere chi fossi. Perché la passione non chiede, la passione già sa. E io ti so e ti saprò oltre la vita come la perla più rara che mai avrei potuto pescare”. E, in fondo alla statua bianca dalle labbra rosse ove infilai le dita, una perla rara e di inestimabile valore. Il valore della libertà. Il valore del coraggio di non morire di disamore, prima ancora di essere morti nel corpo.
“Amo il tuo corpo che cola. La tua anima che trabocca attraverso il sudore che mi doni! Non voglio lasciarti. Non voglio andare via da questi giorni, dai tuoi luoghi, dal tuo calore così umano e raro. Prezioso per me che sono un’ombra”.
Disclaimer! Tutti i diritti riservati all'autore del racconto - Fatti e persone sono puramente frutto della fantasia dell'autore. Annunci69.it non è responsabile dei contenuti in esso scritti ed è contro ogni tipo di violenza!
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Votazione dei Lettori: 9.7
Ti è piaciuto??? SI NO


Commenti per La tristezza degli agrumi:

Altri Racconti Erotici in Lui & Lei:



Sex Extra


® Annunci69.it è un marchio registrato. Tutti i diritti sono riservati e vietate le riproduzioni senza esplicito consenso.

Condizioni del Servizio. | Privacy. | Regolamento della Community | Segnalazioni