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Prima di incontrarci ci conoscevamo già


di Membro VIP di Annunci69.it Occhidimare12
22.01.2023    |    600    |    5 8.0
"La sua presenza così docile, arrendevole e a tratti rapace, mi conquista di attimo in attimo..."
Una lunga seduta...

Margherita si sistemò sul divano. Il camino riscaldava l’atmosfera. Iniziò a parlare dopo aver pensato a quale storia della sua vita vera o creata estemporaneamente potesse dare inizio. Non esisteva una consequenzialità cronologica. Non le era stata richiesta. E, da pittrice astrattista, dipingeva quadri narrativi, a volte correlati, altre volte del tutto avulsi da una linearità temporale, però sempre chiari e lampanti.
Roger, l’ascoltava e guardava le sue gambe nude accavallate ma distese, illuminate dalla fiamma. Avrebbe voluto sfiorare la sua pelle ma si trattenne. Forse. Almeno così tradiva il suo sguardo maschile. Quello sguardo di eccitazione che in tutti gli uomini è sempre pressoché uguale. O almeno riconoscibile.
Si mise in ascolto.
“Da tempo ormai non ero più abitata dal demone dell’arte. Non dipingevo e non scrivevo. Non mi riusciva di scegliere e abbinare i colori. Non avevo più voglia di annotare neppure una riga. Ero così, discontinua. A tratti mi fregava troppo, a tratti proprio niente. Di cosa? Di ogni cosa e di nessuna. Questo era il tempo dell’attesa. L’attesa di qualcosa che mi cambiasse ancora una volta la vita. Qualcosa che sparigliasse le carte. ‘Non voglio accontentarmi di avere tutto. Devo ripartire da zero. Rifare tutto da capo. Ricostruire. Rimettermi in gioco. Buttarmi senza rete’ ripetevo ostinatamente a me stessa. In un battito di ciglia, lasciai il lavoro, lasciai la casa di mio marito. Abbandonai tutte le mie certezze e mi trasferii in un appartamento del centro in una piccola cittadina sorniona e accogliente; così, almeno, mi era sembrata. Mi sentivo ancora bella, di quella bellezza atipica, maledetta, asimmetrica, bruciante, angelica e demoniaca insieme. Di una bellezza che attraeva e allontanava come era accaduto per tutto il corso della mia vita. Ora ero libera. Mio marito non riteneva opportuno separarsi ma mi aveva concesso quella parentesi di distanza abitativa senza protestare.
‘Buonasera!’, finalmente lui mi scrisse; quel ragazzo che amava i gatti, dal volto antico, quasi biblico, mi contattò in chat sul social in cui eravamo spesso entrambi on line contemporaneamente. Era un venerdì sera, lo ricordo perché i venerdì mi piacciono sempre molto.
Ne fui sorpresa. O forse no. Ci conoscevamo già. Così ci parve; la legge dell’attrazione aveva agito da tempo. Non ricordo precisamente le parole con cui esordì ma entrammo da subito in una confortevole confidenza. Quale fosse la mia comfort zone non lo sapevo, però. Non l’avevo mai avuta. Mi buttai, si buttò, a ruota libera. ’Sto frequentando un corso piuttosto importante. Sono nella città dei papi. Si tratta di un progetto europeo di restauro di una chiesa diroccata. Sono un ingegnere, il mio campo di indagine è il sisma’ spiegò.
‘Un ingegnere! Dio mio, che tipo quadrato sarà questo!’ dissi a me stessa.
Io mi ero sempre pensata come un cerchio. Circolari erano le mie figure nella pittura. Circolari erano le figure delle mie donne, ritratte sempre con una coroncina di fiori tra i capelli intrecciati. Circolari le chiome dei miei alberi. Circolare ero stata io quattro volte in dolce attesa. Circolari erano i pensieri che ritornavano come il cane che si morde la coda non potendola afferrare e trattenere. Tutto era circolare in me. Conchiuso, tondeggiante, morbido.
Lo avvertii subito diverso da me eppure vicino. Chattammo per tutta la notte. Una notte calma in cui dalla finestra guardavo il riflesso della luna cittadina nella scuola di musica di fronte la mia stanza. ’Sono sposata, lo sai?’ scrissi, come per mettermi subito al riparo da qualcosa che percepivo come pericoloso. Non specificavo mai il mio status sociale anche se, in verità, era ben descritto sul profilo facebook.
‘Sono fidanzato da otto anni. Ora va molto bene ma abbiamo attraversato una crisi abbastanza profonda alla morte di mio padre’ replicò.
‘Lo immagino, è successo anche a me la stessa cosa’ aggiunsi.
Si chiamava Akihiko, che nella sua lingua voleva dire ‘principe luminoso’”.
Roger si sedette su una poltrona distante dopo aver fatto abbastanza nervosamente il giro della stanza. Lei si era interrotta e aveva raccolto i suoi ricordi, i suoi pensieri. Le cose da raccontargli. Per placare la curiosità o per testare il suo controllo?
“Ci sentimmo per tanti mesi. Tutti i giorni. In verità era qualcosa di contorno a quello che stavo vivendo: lasciarmi alla spalle una storia controversa, tormentata e da cui fuggivo come la mosca intrappolata nella tela del ragno che prontamente le lancia contro i propri fili vischiosi, e che più essa tenta la fuga, più viene risucchiata al centro della fitta trama” disse guardandolo fisso negli occhi cerulei, seppure da lontano.
Roger era agitato, come mai prima. Tamburellava nervosamente con le dita flessuose sulla mensola del camino.
“Ci vedemmo la prima volta a distanza di sei mesi dal primo messaggio in chat, in occasione di una mia mostra. Stavo parlando con una coppia di visitatori e mi arrivò un’energia strana, assecondai l’impulso a voltarmi e lo vidi, lì, in un angolo dell’enorme atrio del palazzo provinciale che ospitava le mie tele, c’era Akihiko. Giovane, più minuto di quanto mi aspettassi, senza la sua proverbiale barba. Ci presentammo e fummo da subito complici. Totalmente. Di una complicità innominabile. Non di quelle per cui si diventi migliori amici o amanti in preda a febbrili spasmi di passione. Diversa. Strana. Intangibile ma di cui non si poteva più farne a meno. Tornammo a sentirci per chat, tante, troppe volte al giorno. Solo l’estate successiva al nostro primo incontro portai mio figlio ad una sua lezione di Aikido. Lì, mi apparve del tutto diverso. Più grande dei suoi trentasei anni, più imponente e maestoso di quanto mi fosse apparso nel suo cappotto blu alla mostra. Ci accolse con un grande sorriso e con un più disinvolto modo di fare. Era nel suo campo. Più sicuro. Sapeva il fatto suo. Qualche giorno dopo accettai l’invito di un tale, una sorta di vichingo rosso, alto e robusto che mi aveva aiutato nell’allestimento di una piccola mostra all’interno di uno studio medico. Rifiutare non mi era parso cortese in un’atmosfera estiva che preludeva, in fondo, ad una meritata e spensierata serata amichevole. Andammo a cena e poi a bere un mojito. Vicino la cascata, a ridosso del locale, in una suggestiva cornice di metà luglio, improvvisamente, mi baciò. In quell’attimo, che mi sembrò eterno, pensai a come reagire, se scostarlo con forza e risentirmi o... optai per il bacio onirico che trasforma l’altro in quello che vuoi tu. Mi figurai Akihiko. E fu molto bello. Da quell’istante iniziai a figurarmelo in maniera del tutto diversa, o meglio, iniziai a volerlo vedere in maniera del tutto nuova, differente. Carnale, potente, passionale. Anche se culturalmente e caratterialmente lontano anni luce dal mio modo di essere e di fare. Corsi a casa e glielo raccontai in chat.
‘Non so cosa dire. Mi lusinga!’ rispose, come sempre in modo composto e neutrale.
Qualcosa era avvenuto in me e questo mi bastava, al di là di qualsiasi sua eventuale risposta che, come previsto, fu enigmatica. Indecifrabile” confidò Margherita impulsivamente.
“Quale risposta ti saresti aspettata?” chiese, con voce venata di un mezzo astio, Roger che intanto si era voltato a guardare al di fuori dalla finestra il vento che agitava i flutti al di sotto della scogliera bluastra e i rami spettrali degli abeti in lontananza che si muovevano come in una danza macabra.
“Quella. Oppure, uhm… non lo so. Quella, però con l’aggiunta di qualcos’altro!” replicò, abbassando istintivamente il tono della voce come parlando fra sé, Margherita.
“Cosa aveva di speciale questo ragazzo?” domandò Roger a bruciapelo con l’aria di chi vuol sapere e non sapere.
“Sapeva ascoltare” rispose senza esitare.
“Ti piaceva?” continuò ad incalzarla.
“Fino ad allora lo avevo considerato un amico. Una presenza costante e gentile nelle mie giornate sempre tormentate. Nulla di più. Talvolta ero troppo, troppo distante. Distratta da altro da potermi accorgere di quanto effettivamente fosse importante quel suo esserci sempre, senza volere nulla. Bello era bello ma non di più di altri conosciuti prima” disse.
“Solo un amico, e poi?” continuò, con tono sempre più inquisitorio, Roger aggiungendo altra legna di quercia nel grosso camino in pietra che ne divorava ogni ora grande quantità, accatastata ai lati, nella legnaia ordinatamente tenuta.
“Un amico. Continuò ad esserlo, certamente, ma lo vidi come un uomo che si muoveva con eleganza nel suo dojo” disse.
“Nel dojo?” chiese.
“Beh, sì. Frequentai le sue lezioni di arti marziali per un po’” rispose.
“Fin quando, poi?” Roger era curioso, impaziente e forse eccitato dalla possibilità che Margherita gli raccontasse un qualche particolare intimo.
Non lo fece. Almeno quel giorno.
Se ne andò come stordito. Rimase sospeso. Pensieroso. La salutò a mezza bocca e chiuse la porta dietro di sé con un impercettibile disappunto.

Un giorno sul lago

“Quella sera mi addormentai senza problemi e ripensai a quel racconto che avevo inventato per Akihiko e che non avevo neppure per un attimo accennato a Roger. Non era ancora tempo di fidarmi di lui. C’era qualcosa di strano nel suo sguardo e nella sua voce che tradiva uno stato emotivo di contrarietà.
Ricordai un racconto di luglio, scritto in una chat telefonica tra intervalli e sospensioni che ci aveva tenuto legati. In ascolto, per un intero pomeriggio. I puntini di sospensione sono i suoi. Il resto è la mia invenzione narrativa ispirata da quel momento di iniziale conoscenza” Margherita scorse le pagine scritte sull’ipad trovando queste note...

Sul lago...
Io sono sotto un pioppo, col mio cavalletto in riva all’acqua calma e melmosa.
Un piumino è steso sul prato rasato. Tutto è pulito intorno. La natura parrebbe domata dall’intervento dell’uomo.
Tira un refolo di vento.
Dipingo tranquillamente con pochi tratti tremuli.
Sembrano minime citazioni di colore che richiamano un paesaggio lunare.
Intorno a me e alla mia tela rettangolare non c’è nessuno.
Indosso un vestito di lino bianco a fiori e ho i capelli mossi raccolti con una matita nera alla nuca in uno chignon approssimativo da cui sfuggono ciuffi ribelli color bronzo.
Mi muovo sull’erba che mi accarezza le piante dei piedi nudi.
Ad un tratto alzo lo sguardo.
Vedo arrivare un tale.
Cammina lentamente.
Lentissimamente.
Alto.
Bruno.
Indossa una camicia bianca di lino con il collo alla coreana e un paio di jeans dalle striature blu oltremare.
Mi sorride.
Sono miope e da lontano non vedo benissimo.
Riconosco però l'incedere.
E la fronte.
La barba.
… (Miei).
… (Suoi).
Si siede sul piumino damascato rosso sangue di bue.
… (Suoi).
Si inginocchia di fronte a me.
Chiude gli occhi.
Il vento muove i suoi capelli neri che al sole brillano.
La sua fronte è bagnata.
Le mani, piccole, proporzionate, appoggiate sulle gambe.
Muscolose e tornite.
La sua aura mi attira.
Come l’effigie d’un semidio sceso in quel preciso luogo per ispirare la mia arte.
Mi inginocchio di fronte a lui.
Le ginocchia si sfiorano.
Chiudo gli occhi e...
Lo guardo.
Lo scopro a poco a poco con le mani.
Pelle a pelle.
Tergo la sua fronte. Rorida.
Accarezzo gli zigomi.
Al tatto è straordinariamente bello.
Le dita gli sfiorano le palpebre.
Le ciglia sembrano piume.
Il palmo aperto della mia mano sinistra gli disegna il naso.
Le guance.
Ricoperte di peli. Morbidi.
Niente è ispido.
Niente è ruvido.
Entrambe le mie mani accarezzano il suo volto come fosse l'unica cosa davvero espressiva al mondo.
L'indice umido di sudore disegna il profilo austero e dolce. Fiero e arrendevole.
…Narra ancora, cantrice. Scrive.
Indugio sul labbro superiore e poi su quello inferiore.
La bocca si schiude appena.
Il sole illumina le labbra e i denti che sembrano perle.
Tengo il volto ieratico con la presa dolce ma decisa di entrambe le mani.
Lui appoggia i palmi sulle mie.
La mia testa si inclina sul collo.
Ne respiro l'odore che si addensa tra lo zigomo e la spalla.
Come se respirassi il suo soffio vitale.
Il suo sudore è come se avesse una delicata e garbata nota alcolica.
Mi inebrio col suo odore.
Semplice di pelle. Buono come mirra.
... (Suoi).
A me la mirra mi manda fuori di testa.
A me mi non si dice. Lo so.
In quel preciso momento però sono…
fuori di testa.
Fuori dal mondo.
Fuori dal tempo.
Appoggio la guancia sulla spalla.
Apro gli occhi e vedo.
Il collo, senza pieghe, è diventato rosso. A chiazze diseguali.
Reclina il capo all'indietro come fosse divenuto pesante.
Non intende pensare. Si abbandona. Totalmente.
Si lascia accarezzare, sfiorare, annusare...
È nelle mie mani.
Invincibile e vinto.
Potrebbe allontanarmi.
Rifiutare quel contatto intrusivo.
Parlare.
Alzarsi.
Aprire gli occhi.
Mi spaventa questo non capire.
Questo non poter prevedere.
Nel lago salta una rana e il rumore cambia l'atmosfera placida.
Ci risvegliamo.
Mi guarda con gli occhi scuri come un pozzo.
Mi afferra la nuca, i capelli, con forza e tenerezza.
Mi atterra sul lembo libero della coperta e...
E...? …Ormai sono catturato da questa narrazione. (Scrive).
Si sdraia accanto a me. Di lato. Ci guardiamo negli occhi.
Mi accarezza i capelli.
Guardo parte del suo petto scoperto. Quello che si intravede dalla camicia semiaperta.
Con la mano sinistra, inizio a sbottonarla e lui mi lascia fare.
Appoggia la testa sul suo braccio. La tiene sollevata.
Ma rilassata.
La camicia è aperta.
Il vento ci scompiglia i capelli.
Dolcemente.
Appoggio una mano sul suo torace.
E chiudendo gli occhi lo accarezzo.
Voglio solo che il mio tatto esplori di nuovo la sua pelle.
Il corpo.
Tra le dita sento ogni pelo del petto.
La sua presenza così docile, arrendevole e a tratti rapace, mi conquista di attimo in attimo.
Continua tu... (Gli scrivo).
… No, ora voglio sapere da te come va a finire la storia. (Mi scrive).
Il sole scende sul lago.
Sembra un'arancia che si tuffa in uno spritz.
Nessuno ancora intorno.
Solo il guizzo di qualche anfibio interrompe il silenzio dell'imbrunire.
Lui si siede accanto a me e si libera della camicia.
Lo guardo come se fosse l'opera scultorea più bella mai osservata.
Mi sovrasta.
Imponente eppure calmo.
Leggero. Come l'aquila che si poggia sul proprio nido.
Reale. Deciso.
Sento il respiro sul collo.
Sul mento.
Sulla bocca.
Le labbra si sfiorano.
Lui preme su di me.
I suoi baci diventano sempre più intensi.
Tutto, ad un tratto, diventa potente, sfrenato.
Irrefrenabile.
Gli dico: parlami.
Ho bisogno della tua voce.
Lui non mi risponde.
E allora lo incalzo: dimmi che non mi vuoi!
Non risponde.
Continua a baciarmi, ovunque.
... (Suoi).
I nostri corpi vibrano al vento della sera. Come fossero coesi.
Assemblati in una sola cosa.
Uniti nell'armonia del Ki.
Lo Spirito tepido e potente respiro dell’universo che ci ha fatti trovare.
Incontrare.
Desiderare.
Essere l'uno dentro l'altra come l’incastro di un gioiello luminoso.
Unico.
Perfetto.
La mia vacanza più bella sei tu!
Il posto più calmo le tue braccia, il lago più limpido il tuo sguardo profondo d'anima.
…Wow! (Chiosò).
Quel che aveva pensato, provato nel leggere, non lo seppi mai.

Racconto o invenzione?

La felicità non è un evento ma un atteggiamento. La rilettura di quel racconto le ispirò di nuovo una strana frenesia. Roger si fece vivo solo quattro giorni dopo. Si salutarono con una insolita freddezza.
“Siediti, continua a raccontarmi di Akihiko” le intimò con sguardo torvo.
“E se non volessi?” gli chiese.
“Devi. Non sei qui in vacanza ma per guarire. Ricorda che sono il tuo terapeuta. Avanti, non farti pregare”.
Roger, che prima le sembrava di conoscere da sempre era diventato all’improvviso un estraneo. Le faceva paura. Un attimo e ci si conosce da sempre. Un attimo dopo si è estranei.
“Lo so che non fu solo qualcosa di platonico. Si capisce” disse aggrottando la fronte.
“E da cosa, scusa? E poi perché? Sono stata spesso protagonista di amori platonici, sai. Specialmente nell’adolescenza. Amori durati anni e anni. Che ancora trascino così, sul filo del niente e del tutto” rispose stizzita.
“Ti leggo la mente. A me non puoi mentire” sentenziò.
“Io non mento mai. Invento, semmai. Quello che ti ho detto è la verità” insistette.
“Non ne dubito. C’è dell’altro tuttavia, avanti, racconta” confermando la sua richiesta quasi brutalmente.
L’atteggiamento di Roger le parve sospetto come se ricercasse nei racconti più che la causa del malessere una qualche possibile prova di colpevolezza.
“Sei morboso. Mi vuoi giudicare?” domandò.
“Affatto. Non potrei. Sono un professionista in questo momento, non un tuo amico”.
Riprese il racconto. Non si fidava più. Non era libera e sincera ma raccontò.
“L’estate passò in fretta. Ci vedemmo una o due volte, ancora, non ricordo. Forse andammo in un ristorante. Forse venne a casa mia. Svariate volte litigammo. Discutemmo per dettagli comunicativi che ci allontanavano e ci avvicinavano creando una sorta di marea di rabbia e di comprensione alternate. Ripartii per accompagnare i miei figli a scuola il primo giorno di settembre. Non successe nulla di più tra noi. Se è questo che vuoi sapere, Roger!”.
Si rivolse a lui sperando che non insistesse perché gli raccontasse dettagli e particolari che avrebbe potuto usarle contro. Non era più il medico ma l’avvocato di suo marito che l’aveva spinta lì, con la scusa di una possibile cura. Lo vide così.
“Non ci credo. Dimmi la verità!” insistette.
“Prima di Natale tornai. Mi avevano invitata nella mia terra per ritirare un premio di pittura e inaugurare la nuova esposizione a tema religioso. In quel periodo due delle mie opere erano esposte anche a Dubai. Fui felice del riconoscimento e del periodo creativo particolarmente positivo. Era un giovedì e mi trovavo ospite di un locale adibito a bed and breakfast dell’abbazia in cui era esposta la mia nuova personale di pittura, intitolata ‘Estetica estatica’ e ispirata alla fenomenologia dell’estasi nelle diverse religioni del mondo. Il luogo era bellissimo. L’abbazia si stagliava tra la vegetazione tipicamente mediterranea del paese montuoso che ospitava l’evento e che quella notte, come credo ogni notte, era semideserto. Sentii l’irrefrenabile desiderio di vederlo pertanto non gli scrissi nulla, gli mandai solo la posizione al cellulare convinta però che quella sorta di criptico invito sarebbe stato disatteso. La luna nivea disegnava il contorno triangolare di ogni abete nero posto a cintura del complesso abbaziale certosino. Antichissimo.
“Venne?” le domandò, sollevando il viso e buttandolo verso la spalla destra.
“Intorno alla mezzanotte sentii bussare alla porta della mia stanza. Un battito lieve, delicato quasi impalpabile. Non ero sicura che fosse reale. Chiesi chi fosse.
‘Sono Akihiko’ rispose sotto voce. Non era solo per il luogo in cui si trovava che usava quel tono morbido, elegante, avvolgente. La sua voce era bambina, timida, piccola, discreta. Sempre. Un leggero particolare di pronuncia gli incastrava la s tra palato, lingua e denti. Me ne accorgevo solo io. Forse. Le sue insolite frequenze mi erano perfettamente familiari.
Aprii sorpresa, incredula, felice.
Il silenzio del corridoio imponeva il silenzio nella stanza. Entrò con passo leggero come leggero era sempre il suo approccio fisico alle cose, agli eventi, agli oggetti. A me. Mi baciò sulla guancia. Distanziandosi col bacino dal resto del mio corpo. Lo faceva sempre anche quando mi abbracciava.
Ci sedemmo sul piccolo letto addossato alla parete di pietra nell’austera cella claustrale.
Non dimenticherò mai il suo sguardo. Dolce e luciferino. Le pupille scure fiammeggiavano con la danza delle candele.
Parlammo. Come sempre. Parlammo. Tanto. Senza mai arrivare ad un punto fermo.
Il letto di ferro battuto cigolava ad ogni nostro piccolo movimento, ad ogni minimo tentativo di aggiustamento posturale sull’alto strato di coperte di lana marroni da cui svettava un lenzuolo bianco. Candido era anche il guanciale, gonfio, compatto, imponente.
Bevemmo un liquore alle erbe che i monaci avevano gentilmente messo a disposizione sullo scrittoio. Lui mi fissava. Io lo fissavo.
Ci nutrimmo di silenzio e parole sussurrate per cercare di comprendere quell’assenza di mesi dalla chat.
Non ne cavammo nessuna ragione. Come sempre. Le nostre distanze erano sempre irragionevoli. Inspiegabili.
Eppure lui di spiegazioni ne aveva sempre per tutto. Non gli mancava di certo l’eloquenza né la logica.
Si distese scostando il cuscino su cui davvero sarebbe stato difficile poggiare la guancia, almeno non senza colmare un gran divario tra testa e spalle.
Socchiuse gli occhi.
Gli accarezzai i capelli neri, setosi, convinta che quel gesto gli avrebbe procurato un certo fastidio.
Si sarebbe ribellato. Avrebbe accennato un mezzo sorriso di dissenso.
Si addormentò, invece, lasciandosi accarezzare; e io accanto a lui. Dietro la sua schiena. Abbracciandolo mi scaldò il ventre e l’anima. La sua apparente cedevolezza mi donò un’inaspettata sicurezza nel volerlo proprio lì. Arrendevole. Silente. Addormentato ma pur sempre presente.
L’alba arrivò di lì a pochissimo. Fu la notte più breve della mia vita. Lui nel letto non c’era. Né in tutta la stanza che al risveglio sembrava più grande. Fredda. Vuota. Terribilmente vuota. Abbandonata da lui e dal calore persino delle candele.
C’era però il cuscino posizionato dove sempre era stato.
“Lo avevi sognato?” chiese Roger quasi sollevato.
‘Sì. Ma questo mondo è ostile al sogno. Non lo permette.” rispose con soddisfazione evidente, serbando in seno però una dolce malinconia per il mancato avveramento di un evento che, lì per lì, aveva dovuto inventare ad arte per il suo sempre più morbosamente invadente psicoterapeuta.
Tirò un sospiro di silenzio. Quella sera cenarono nel pub, giù al villaggio. Roger sfoggiava di nuovo il suo sorriso enigmatico e sembrava aver ritrovato persino il buonumore.
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