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Black Story cap. 1 - Eileen


di Easytolove
04.03.2024    |    470    |    2 8.7
"Quando lei firma il registro delle presenze, con la dicitura “avvocato” prima del nome, sembra abbastanza soddisfatto, e Rebecca se ne esce con , “con la..."
Il mio nome è Eilleen, vivo in una piccola cittadina sulla costa atlantica, uno di quei posti in cui tutti si conoscono, abito in una casetta ai margini della periferia, dove iniziano i campi coltivati a mais e girasoli.
Ho una sorella più grande, sposata e trasferita nel grande capoluogo, mia madre è morta, e mi tocca accudire mio padre, alcolista e instabile mentalmente, un paranoico che vede ladri e potenziali assassini ovunque.
Sono la classica ragazza acqua e sapone, tutta casa e lavoro, non mi trucco e non compro abiti nuovi, utilizzo quelli usati dismessi di mia madre.
Ho una vecchia auto ,una Bel Air degli anni cinquanta, fumosa e maleodorante, mezza arrugginita, anche quella ereditata.
Svolgo le mansioni di segretaria tuttofare, in uno studio legale, con la quella specifica, di seguire e tenere ordinate le pratiche riguardanti la sezione delle difese d’ufficio, che il tribunale periodicamente ci assegna.
Vivo in un mondo tutto mio, in attesa della grande occasione, quella che mi faccia spiccare il volo, uscire da questa specie di prigione, in cui mio malgrado sono incatenata.
Non ho mai avuto un fidanzato,anche se ogni tanto fantastico sulla possibilità di accoppiarmi con un giovane avvocato dello studio, appoggiata con le mani sulla scrivania, chinata in avanti, la gonna alzata e lui che da dietro mi possiede con forza.
Spesso mentre mi lascio trasportare da questi pensieri, mi tocco, quando sono sola nel mio ufficio, l’idea di essere sorpresa da qualcuno aumenta la mia eccitazione, mi sfrego con la mano sotto alla gonna, sopra le mutandine, tra le cosce spalancate.
Ieri ha nevicato, ho fatto un giro per le strade imbiancate, prima di tornare a casa dal lavoro, e mi sono fermata in uno slargo, di fronte al mare, dove di solito si appartano le coppie di fidanzati, per fare all’amore.
Sono arrivata lentamente, a fari spenti, in una grossa automobile nera c’era una coppia, lui era sdraiato nel sedile, lei lo cavalcava lentamente, riuscivo a vedere le grosse tette dondolare, mentre i vetri si stavano appannando.
Ho alzato la gonna e mi sono tolta le mutandine, poi ho aperto lo sportello e ho preso in mano una manciata di neve, e ho iniziato a sfregarmi forte, la sensazione di gelo sulla mia patata mi ha procurato un lungo brivido nella schiena, ho trattenuto a stento un lungo grido di piacere e dolore.
Mio padre, a casa era ubriaco, e aveva litigato con un vicino, lo accusava di aver cercato di introdursi nel nostro garage, per rubare gli arnesi da giardino.
Avevano chiamato la polizia e un’ambulanza, la luce bluastra dei lampeggianti illuminava il cortile di casa, mentre un infermiere cercava di ripararlo dal freddo, era in mutande e canottiera, con una coperta.
Uno dei poliziotti, un vecchio amico di famiglia, ha cercato di calmarlo, poi mi ha preso da parte,
“Eileen, così non puoi andare avanti, cosa aspetti a farlo ricoverare e curare, prima che combini qualche grosso guaio”?
“Non è colpa sua, è da quando è morta mamma e lui si è addossato la colpa che è così”.
Alla fine siamo riusciti a farlo ragionare, tutti se ne sono andati e siamo rientrati in casa.
Come sempre dopo queste piazzate, divento la sua valvola di sfogo, mi incolpa delle sue disgrazie, sono una buona a nulla, destinata a restare senza marito, non come l’altra sua figlia prediletta, che si è sposata e sta facendo carriera, dopo avergli dato la gioia di due nipotini.
Faccio finta di non sentire, mentre il mio odio cresce lentamente, a volte penso di ucciderlo, affogarlo nella vasca da bagno,quando è completamente ubriaco, oppure con un colpo di pistola, quella che tiene nascosta nel garage degli attrezzi.
Poi quello che per anni resta sospeso nell’aria come una chimera irraggiungibile, all’improvviso appare.
Ero uscita nel parcheggio dello stabile dove sono ubicati gli uffici in cui lavoro, per fumare una sigaretta, e smangiucchiare il solito spuntino che mi porto da casa, quando come in un sogno è apparsa lei, una creatura fantastica e meravigliosa, come mai mi fosse successo di vedere.
A bordo di una Corvette decappottabile rossa, nuova fiammante, e poi, come avvolta in una nuvola è scesa e ha attraversato il parcheggio, per imboccare l’androne che conduce al nostro studio.
E’ alta, bionda, tacco vertiginoso, gonna stretta, abito manageriale, una borsa di cuoio chiaro, il passo deciso, quasi da indossatrice, per un attimo i nostri sguardi si sono incrociati, ma lei quasi senza vedermi è passata oltre, come fossi praticamente invisibile.
Ho fatto presto a scoprire, chi fosse e come si chiamasse.
Lei è Rebecca G. una avvocatessa penalista abbastanza famosa, trasferita da Boston, si è stabilita nel nostro studio,come ha detto quando si è presentata, “ero stufa della grande città, nella vita non esiste solo il lavoro e la carriera, ho sentito il bisogno di una vita più rilassata, in una dimensione a misura d’uomo”.
Anche se le voci che hanno immediatamente iniziato a circolare, erano un po’ diverse, ma forse solo di qualche collega invidioso, ho subito cercato di attirare l’attenzione di questa creatura, per noi completamente diversa dal modello di avvocato a cui siamo abituati.
E con sommo e malcelato stupore, passando i giorni, ho iniziato a rendermi conto, anche senza darmene una razionale ragione,di come anche lei avesse una sorta di interesse nei miei confronti.
E’ iniziato con piccole richieste, spesso banali, la curiosità di sapere cosa ci fosse di così appetitoso nello spuntino, per poi vedermela arrivare nella pausa per fumare la sigaretta, con la scusa di aver dimenticato l’accendino.
Abbiamo iniziato a parlare, io del mio mondo banale e della mia situazione familiare, lei del suo bisogno di fuggire, quello che l’aveva portata a lasciare la grande città, e lo studio prestigioso, per lanciarsi in una nuova avventura.
L’unica cosa di cui non parlo, è della sua capacità di turbarmi il sonno, continuamente cerco di sbirciare nelle pieghe dei suoi abiti eleganti, la velatura delle calze sotto alle strette gonne, la sera a casa mi tocco,
pensando di infilare le mani e la lingua in quelle pieghe della pelle che riesco solo a immaginare.
Non mi parla mai di uomini, mariti o fidanzati, e questo non fa altro che alimentare le mie speranze, più passa il tempo e più non faccio altro che pendere dalle sue labbra, ormai sono perdutamente innamorata.
Anche mio padre si è accorto che sono insolitamente svagata, quasi assente, e mi minaccia, mi chiede chi è l’uomo da cui mi faccio scopare, e il motivo per cui non ne parlo, sicuramente è uno sposato, avrei rovinato un'altra famiglia, di stare attenta a non rimanere ingravidata, un bastardo in casa mai l’avrebbe fatto entrare.
Sopporto in silenzio, fantasticando sulla notte in cui, nel silenzio rotto solo dal suo russare di ubriaco, gli avrei sparato in testa con la sua pistola.
Sono appoggiata sul cofano della mia Bel Air, aspiro avida il fumo della mia sigaretta pomeridiana, quando sento la sua inconfondibile voce.
“Mi fai accendere Eileen?”
Le porgo la sigaretta con un sorriso, e lei ne approfitta per due lunghe aspirate, prima di usarla per accendere quella che tiene stretta in una mano.
Me la restituisce con il segno del rossetto rosso fuoco, che le decora le labbra, quasi come un segno distintivo.
“Hai impegni per questo week end Eileen?”
Resto per qualche istante assente, sospesa tra la realtà e l’immaginazione, prima di rispondere.
“Non ho mai impegni per il week end Rebecca”.
“Bene allora lo trascorriamo insieme, sempre se ti fa piacere”.
“Dove vorresti andare”?
“Qualunque posto mi va bene, non mi sono mai allontanata da questa triste città, lo sai”.
“Allora andremo in un posto romantico, le cascate del Niagara”.
La Corvette fila veloce lungo l’autostrada novanta, in direzione di Buffalo.
Rebecca guida sicura, per stare più comoda, ha indossato dei calzoni di stoffa morbida, e un maglioncino di lana colorata.
Non ha il suo solito trucco vistoso, ma qualcosa di leggero, quasi invisibile.
Per un banale spirito di emulazione, mi sono truccata come lei, e ho tirato fuori dal guardaroba di mia madre, l’unico vestito sartoriale, comprato per un occasione importante in un costoso negozio di Boston.
Sono uscita prima dell’alba, non vista da mio padre, che dormiva ubriaco, e ho lasciato un biglietto sul tavolo, “torno lunedì”.

La radio su cui siamo sintonizzate, è di quelle classiche, trasmette musica country, e vecchie canzoni di Cole Porter e Irving Berlin.
“Coma mai le cascate del Niagara?”
Lo chiedo per rompere il silenzio, mi sono da poco risvegliata, la partenza nel cuore della notte a cui non sono abituata, mi ha messa a dura prova.
“Per il film con Marylin, è da una vita che ci volevo andare, ho pensato che farlo con te sarebbe stato perfetto”.
“Rebecca noi non siamo due sposi in luna di miele”.
Sorride senza rispondere, lascia che sia la mia immaginazione, a fantasticare.
“Ti andrebbe di guidare, mi si stanno per chiudere gli occhi”.
La Corvette è davvero veloce, devo stare attenta a non pigiare troppo l’accelleratore, schizza in avanti con forza bruta, imposto la velocità a ottanta miglia, scivola leggera sull’asfalto lucido dell’autostrada.
Rebecca si è addormentata, ha reclinato un poco il sedile, osservo il suo respiro leggero, ha indossato degli occhiali da sole, che si riflette a tratti sulle lenti scure, devo restare concentrata sulla guida.
Un po’ prima di arrivare a Buffalo, una grande area di servizio, con una luccicante insegna del McDonald, mi ricorda che lentamente è sopraggiunta una notevole fame.
Imbocco la stradina che a lato della carreggiata conduce nel grande parcheggio, e fermo la Corvette di fronte all’entrata del ristorante.
Rebecca come d’incanto si sveglia.
“Ti sei fermata, dove siamo, quanto ho dormito?”
“Quasi quattro ore, siamo a poche miglia da Buffalo, e mi è venuta una gran fame”.
“Ah ma siamo quasi arrivate brava Eileen, meriti un premio”.
Senza che potessi fare nulla, mi ha attirata verso di lei, e con una dolce risolutezza mi ha preso il volto tra le mani, e ho sentito le sue labbra contro le mie, e poi la lingua che si è fatta strada, prima piano e poi avida, a esplorare la mia bocca, ci siamo baciate per un tempo che non saprei quantificare.
Il portiere dell’Holiday Hinn dove Rebecca ha prenotato una stanza con due letti king size, con vista sulle cascate,ci osserva con sguardo sospettoso.
Quando lei firma il registro delle presenze, con la dicitura “avvocato” prima del nome, sembra abbastanza soddisfatto, e Rebecca se ne esce con , “con la mia assistente siamo qui per preparare una memoria difensiva per un processo che si terrà la prossima settimana, per favore non vorremmo essere disturbate”.

Il piccolo battello che effettua il tour panoramico ai piedi della cascata arranca a fatica contro la corrente impetuosa, tra la nuvola di acqua sempre più spessa, come una nebbia novembrina.
Le cerate gialle che ci hanno fornito grondano , le piccole perline umide si radunano nelle pieghe e formano dei rigoli che allagano il ponte di legno.
Siamo le uniche due turiste, l’alta stagione è ancora lontana, intravedo lo sguardo del marinaio, che al riparo nella piccola cabina di pilotaggio, ci guarda malizioso.
Rebecca è dietro di me e mi stinge, a tratti sento il suo alito sul collo, per brevi istanti le nostre bocche si sfiorano, la sua lingua dentro ad un mio orecchio mi procura un lungo brivido che mi piega le ginocchia.
Quando l’enorme muro d’acqua sembra quasi travolgerci, il battello inverte la rotta, e dopo aver compiuto un largo giro, rientra veloce, con la corrente che ci spinge, verso il molo da cui siamo salpati.
Il sole è tramontato, e l’aria gelida che proviene da nord ci aggredisce, mentre a passo svelto percorriamo il breve tratto che ci divide dall’unico ristorante aperto, dove Rebecca ha prenotato un tavolo per noi due.
“Cucina francese” recita la grande insegna al neon che troneggia di fronte all’ingresso.
Gli avventori sono radi, e il metre ci scorta ad un tavolo abbastanza defilato in fondo alla sala.
“Ti piace la cucina francese Eileen”?
“Credo di non averla mai provata Rebecca”.
“Lascio che sia tu a decidere i piatti anche per me”.
L’ascolto conversare con un cameriere tutto impettito, elencano una serie di specialità in francese, nomi a me del tutto sconosciuti.
“Eileen ti piacciono le lumache”?
“Non lo so Rebecca non le ho mai mangiate”.
Beviamo due grandi bottiglie di vino bianco frizzante, che ci servono dentro un secchio pieno di ghiaccio,
e mangiamo frutti di mare e crostacei, da un vassoio multipiano che la traduzione del menù recitava
“Il trionfo del cuoco”.
Poi ci portano due piatti con degli strani fori, con delle lumache dentro i loro gusci.
Sanno di aglio, burro e prezzemolo.
Per finire un petto di anatra cotto al sangue, con una strana salsa dolciastra che sa di arancio.
Rebecca ordina un'altra bottiglia di quel vino frizzante, finita la quale, mi sento molto ubriaca.
Durante il breve tragitto che ci separa dall’hotel camminiamo abbracciate, il frastuono della cascata nel sottofondo sembra quasi una colonna sonora, a tratti il vento trasporta il pulviscolo umido, Rebecca mi blocca contro un muro di legno , sotto al portico di un magazzino di paccottiglie per turisti.
Mi bacia con forza e poi, per la prima volta infila una delle sue mani sotto alla stretta gonna dell’abito di mia madre, fin dentro alle mutandine di cotone, ormai fradice di voglia, repressa da troppe ore.

Dormiamo nude e avvinghiate in uno dei due grandi letti.
Rebecca mi ha sfilato i vestiti lentamente, dopo che anche lei si è spogliata, ci siamo sepolte sotto allo spesso piumone, lei è caldissima, quasi rovente.
Sfrego forte la patata contro una delle sue morbide cosce, le nostre bocche sono incollate, a tratti mi sussurra frasi sconce, mi dice che vuole godere, le salgo sopra, lei apre le cosce, la sfrego con tutta la mia e forza e il mio peso, quando sta per venire, mi ordina di morderla, le stringo tra i denti una spalla, grida, più forte, più forte, continuo a stringere, godiamo insieme, un lungo e sconquassato orgasmo, che mi lascia il sapore del suo sangue nella bocca.
“Ti fa ancora male”?
Osservo il segno bluastro e leggermente gonfio, sulla spalla di Rebecca.
Dove i denti hanno intaccato la pelle ci sono due piccole crosticine, gli spalmo una pomata cicatrizzante,
siamo entrambe nude, nel letto della camera che lei occupa in un residence di fronte alla spiaggia.
Il vento impetuoso che soffia dall’oceano fa vibrare la finestra, per un attimo mi distoglie da lei, ma il mio sguardo si catapulta sui due duri piccoli meloni sormontati da una ciliegia, rosso fuoco.
“Ho fame di te Rebecca, ora te li mangio”.
Mi lascia fare, prima lentamente ma poi sempre più forte, inizio a mordere quella pelle tenera, ormai so che è quello che vuole, resta immobile, quasi paralizzata, sto attenta a non esagerare, a non lasciare troppi segni, anche se lei lo vorrebbe, sussurra piano “mordimi più forte amore mordi fino a farmi sanguinare”.
Ormai è passato quasi un mese dalla nostra gita alle cascate del Niagara.
Siamo entrate in una routine strana, al lavoro ci ignoriamo, come se la nostra relazione non esistesse,
poi la sera, dopo che sono passata da casa a controllare la follia di mio padre, dopo cena sgaiattolo fuori, e nella sua camera sul mare, divoriamo tutta la nostra malsana passione.
Un gioco troppo bello è destinato a durare poco, così mi diceva mia nonna quando da piccola facevo i capricci per qualcosa che era destinato a finire a breve.
Improvvisamente Rebecca è diventata scontrosa, ha lasciato la stanza vicino al mare, e non so dove stia alloggiando.
Sul lavoro mi evita, e a metà pomeriggio si eclissa, mi hanno detto che sta seguendo un caso molto complicato, che ogni sera si deve recare a Springfield, dove hanno allestito un collegio di avvocati.
Con la scusa di mio padre, un giorno non mi presento al lavoro, e mi apposto in una zona defilata, fuori dal parcheggio.
Quando vedo passare la Corvette che si allontana, la seguo, senza farmi notare.
Rebecca guida piano, non sembra avere fretta, si inoltra tra i campi incolti e la palude che li separa dal mare, per poi fermarsi nei pressi di un casolare, dall’aria abbandonata, in mezzo ai canneti e alle erbacce .
Mi fermo al riparo di una grossa macchia di rose selvatiche e attendo.
Dopo qualche minuto giunge un grosso pick up, con a bordo due persone, vestite come dei cow boy, con i jeans,gli stivali, dei giacconi di montone imbottito, e dei grandi cappelli di feltro.
Sono un ragazzo, alto e grosso, e una donna bionda con i capelli lunghi, raccolti in una lunga coda.
Rebecca dopo essere scesa anche lei, si sofferma a parlottare con loro, e poi tutti e tre, si avviano verso il casolare.
Lascio passare qualche minuto, e poi cercando di essere più silenziosa di una faina, mi avvicino lentamente, fino ad una delle finestre, dalla quale si intravede una luce, tremolante come quella di un camino acceso.
La stanza è quasi del tutto priva di mobili, nel centro in terra sopra ad un vecchio tappeto, c’è un materasso, di fronte ad un focolare, nel quale arde un grosso fuoco, che illumina la scena.
Rebecca e gli altri due sono nudi, il ragazzo ha solo il cappello nel capo, e la sta scopando da dietro, mentre lei inginocchiata sul materasso, ha il volto affondato tra le cosce della donna, che sdraiata si contorce, afferrandole il capo, premendolo contro la propria fica.
Resto per qualche istante a contemplare lo spettacolo, poi mentre una strana rabbia mi assale, corro nella mia auto, la scena mi ha sconvolta e eccitata, e mentre loro continuano la loro orgia nello squallore di quel tugurio, mi masturbo con ferocia.
Uno degli avvocati dello studio, bussa alla porta del mio ufficio.
“Eileen per favore porteresti questa memoria difensiva a Rebecca, dille di metterla a punto, che mi serve per domani”.
E’ passata una settimana da quella sera, e lentamente ho iniziato ad odiarla.
Era la mia speranza di fuggire, l’amore che aspettavo da una vita, invece si è rivelata una puttana, che gode a illudere le persone, per usarle e buttarle come un gioco che è diventato noioso.
La porta del suo ufficio è aperta, entro senza bussare e appoggio la cartellina sul suo tavolo.
Ora che la odio è ancora più bella di prima.
“Eileen mi hai spaventata, come stai”?
“Molto male Rebecca, da quando hai deciso di non considerarmi più, e poi ti ho vista con quei due vestiti da cow boy, ti facevi scopare in quella catapecchia nella palude”.
La vedo arrossire.
“Mi hai seguita”?
“Volevo sapere Rebecca, purtroppo ho scoperto che solo una donna non ti basta, mentre la lecchi e ti fai leccare, hai bisogno anche di un maschio che ti scopa”.
“Sono fatta così Eileen, mi spiace, è la mia natura, mi porta sempre verso queste relazioni malate.”
“E’ per una di queste storie torbide che hai dovuto lasciare Boston, vero?”
“Si, ma ti prego, non ne fare parola con nessuno, non posso in questo momento, ricominciare un'altra volta da capo”.
“Solo se ci vedremo ancora un'altra volta, voglio un ultima notte con te, poi ti lascerò per sempre in pace,però verrai tu a casa mia”.
“D’accordo dimmi quando”.

Il camionista fissa la strada, la prospettiva è occupata dal lungo muso, che nasconde il grosso motore.
Il parabrezza non è molto grande, diviso in due da un montante di ferro verniciato, una pelle di vacca bianca e nera copre il cruscotto, dietro ai due sedili, un materasso, dove poco fa mi ha scopata.
D’altronde quando mi ha caricata, questo era l’accordo,mi avrebbe dato un passaggio fino a Baltimora, in cambio di sesso.
Le ultime ventiquattro ore sono state terribili, qualcosa dentro di me si è risvegliato, stento a riconoscere la persona che sono diventata.
La mia rabbia contro Rebecca si è scatenata incontrollata, dopo che è stata a casa mia, l’ho seguita, e mi ha portata in quella che è l’alcova dove si incontra con quei due, quella donna e quel ragazzo vestiti da cow boy.
Sono entrata silenziosa nella camera dove, Rebecca e la donna, sdraiate sulla schiena una di fianco all’altra si stavano baciando, mentre lui, a turno le scopava, per qualche istante, per poi cambiare, una specie di danza, interminabile e insopportabile da vedere.
La pistola di mio padre ha fatto fuoco, ha smesso solo quando sono finiti i colpi nel caricatore.
Sono rimasta a osservare, le chiazze di sangue che si allargavano sul lenzuolo, ad ascoltare il silenzio che finalmente ha avuto ragione su quei gemiti di piacere.
Poi sono uscita e ho guidato, ho lasciato l’auto in una stazione di servizio, dove mi sono fatta caricare da questo sconosciuto.


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