ZETA 1

I piedi scalzi appoggiati sulla sabbia, le gambe piegate, la schiena a terra a
raccoglierne il tepore nella notte.
Le mani indicavano il cielo con fare indeciso, inesperto.
Lassù il firmamento dell'emisfero boreale, sconosciuto, ma amico, luminosissimo su di una terra immersa nel vero buio.
ZETA era arrivata lì verso le cinque del pomeriggio, aveva parcheggiato la Z-moto alla base della duna 45 nei pressi di Sossusvlei. L'aveva risalita con calma godendosi il tramonto appena giunta alla sommità, ed il colore arancio acceso che ricopriva l'orizzonte.
Mangiando lentamente quel poco che aveva portato nello zainetto e bevendosi un paio di Beck's aveva atteso il tramonto della luna, sempre ad ovest, mentre piano piano compariva sulla sua testa il cielo più incredibile che avesse mai visto.
Immersa nel deserto sconfinato intorno a lei, si accorse presto di quanto, piano piano, il silenzio si riempisse di suoni che il suo udito, disabituandosi al frastuono, cominciava a percepire.
La solitudine di quelle terre primordiali acuiva i suoi sensi, l'odore della sabbia calda, dell'aria che si inumidiva nella sera dall'oceano lontano ma sempre presente; le musiche misteriose degli animali, più attivi dopo il tramonto; il profilo delle gobbe scure delle dune contro la vertigine del cielo stellato; il sapore amarognolo del luppolo a rinfrescare la bocca socchiusa.
Buttò lo zaino, sfilò la tuta nera, pochi passi scalza, poi la pelle nuda e perfetta cercò il contatto con la terra dell'Africa, la terra genitrice dell'umanità.
Gli occhi spalancati nel tutto, le mani ruvide a cercare di trattenere la polvere rossa che fuggiva, chiusa a forza, dal pugno; sentiva il calore radiante del pianeta sotto di lei, mentre l'aria rinfrescava sul suo petto che, avido, se ne dissetava alzandosi ed abbassandosi con ampiezza inconsueta.
Per lunghi momenti Z si sentì tremendamente libera e parte del tutto, ma non si annichilì nella incommensurabile forza che la circondava immanente, il suo corpo e la sua anima se ne cibarono e rinvigorirono, ritrovarono nuova energia, come un feto nel grembo della madre.
Chiuse gli occhi e le parve di volare, di staccarsi da se stessa e dal suolo, vide il suo corpo giacere vitale, tumultuoso, sensuale, inquieto, perfettamente curvilineo, fondersi col profilo delle dune, vide le dune trapassare nel cielo, si tuffò tra le stelle, la natura, l'universo, l'uomo, la vita.
Le mani sprofondavano avide nella sabbia mentre sentiva il suo petto sollevarsi con forza e il respiro trasformarsi in lento ansimare.
In lei cresceva il desiderio di unirsi fisicamente alla terra atavica, di unirsi materialmente alla natura genitrice. Contorcendo le braccia, sporgendo le mammelle floride al cielo cercava di affondare nella sabbia tiepida lanciandone sul ventre voluttuose manciate. La testa rovesciata all'indietro, i capelli mescolati ed arruffati, le mani toccavano confuse ora i capezzi turgidi e fruttiferi. Godeva solitaria e pura, le mani scesero tra le gambe divaricate e flesse, si insinuarono curiose e stupite, sentivano come una sorgente preziosa in questa terra riarsa ed anelante di umidi umori.
Urlò libera mentre le sue acque escrete senza risparmio si impastavano fertili alla terra africana, urlò e gridò tutto il suo orgasmo contorcendosi nervosa ed elastica, unendosi alla duna.
Nessuno poté sentirla, nessuno poté vederla, nessuno raccontarla.
Si assopì sopraffatta dalla disarmante forza della natura africana e riposò,
recuperando le energie come mai le era accaduto.