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Prime Esperienze

all'inizioooo .....


di moro_69
20.07.2015    |    15.621    |    2 8.3
"Si erano raddrizzati spaventati guardandosi intorno timorosi e soltanto dopo aver incrociato il mio sguardo e aver costatato che io ero l’unico che li avesse..."
A quindici anni io non avevo molte aspettative né fiducia né sicurezza nei miei mezzi, poi dopo nella crescente e progressiva scoperta della sessualità, ovvia tra l’altro per quell’età, io mi ero prontamente cercato una fidanzata, dal momento che avevo immediatamente scartato le più ambite e ricercate del gruppo, cosicché avevo messo gli occhi addosso a Faustina.

Lei peraltro minuta, rossa di capigliatura, garbata e vivace, nondimeno di buona e d’onesta famiglia, senza fratelli maschi, questo particolare che non disturbava né scomodava per niente in quell’ambiente, dove tutti dedicavano il massimo delle energie per raggiungere un obiettivo ben preciso ubicato tra le gambe d’ogni ragazza, dato che s’atteggiavano e si disponevano candidamente poi a paladini in appoggio, in difesa e in ultimo in onore delle proprie sorelle, anche se qualcuno veniva salvaguardato con fermezza a volte oltre il volere delle stesse interessate. Realmente un bizzarro e inconsueto ambiente quello maschile a quei tempi, spero per voi che siete giovani che attualmente sia cambiato.

Faustina non era appariscente né pomposa, io che come ho sopraccitato non sono mai stato molto abile né sicuro di me stesso, essendo imbarazzato e timido, evitavo e mi sottraevo a ogni forma di competizione con chi mi giudicava e mi vagliava, pertanto a questo proposito avevo preferito Faustina che incarnava e rappresentava per me un traguardo accessibile e abbastanza raggiungibile, senza che dovessi patire né tribolare l’antagonismo di qualcuno più attraente, più prestante e più risoluto di me. L’accortezza e la tattica praticata allora per conquistarsi e per raggiungere le grazie e le riconoscenze d’una ragazza, non dimenticate che vivevamo in una società notevolmente più ingenua di quella attuale, poiché si basava e consisteva nell’ergersi un po' come un suo personale difensore e protettore nelle occasioni e negli svariati pretesti che si presentavano nell’arco d’intera giornata.

Poteva semplicemente essere un’occasione per accordare loro un aiuto in un gioco di gruppo, anche linearmente e spontaneamente il non inasprirsi né infierire quando si giocava contro, oppure usare qualche piccola attenzione, per esempio offrire loro un pezzo del panino che io divoravo a merenda, oppure accompagnarle per comprare il pane, il latte o anche i giornali. Commissioni e incombenze queste ultime, alle quali nessuno si poteva sottrarre, perché i comandi e gli ordini venivano avvedutamente imposti, per il fatto che venivano chiaramente urlati dalle madri affacciate alle finestre o ai balconi quando il sole s’avviava a tramontare, e qualsiasi cosa si stesse facendo bisognava interromperla e obbedire. Naturalmente nessuno lo faceva con dedizione né entusiasmo, giacché ancor più difficilmente si trovava qualcuno disposto ad accompagnarci per quelle poche centinaia di metri di strada, rendendoci così meno duro il distacco dagli altri che imperterriti e imperturbabili continuavano nel loro gioco. Con Faustina io avevo incominciato esattamente in tal modo.

Come punto di partenza io l’avevo scelta in funzione di primo giocatore nella squadra di pallavolo avvelenata di cui ero il capitano, lei che però non valeva un gran che, m’aveva sgranato addosso nell’occasione due occhi grandi alquanto meravigliati, poi durante il gioco io mi ero impegnato ad aiutarla rischiando di compromettere e d’inguaiare addirittura il risultato finale tra l’esasperazione e l’indignazione dei miei compagni. Appariva pertanto tanto indubbio il mio modo di gareggiare in suo favore, in quanto era stato acutamente e sonoramente rilevato dalle battute ironiche di cui io non mi ero curato per niente, mentre lei era più volte arrossita. Al termine io le avevo chiesto in modo accorto e diligente senza farmi sentire dagli altri la frase:

“Ti sei divertita?” - circostanza questa che non avevo mai fatto con nessun’altra, perché non si usava tra di noi, in quell’occasione lei sbalordita m’aveva sgranato addosso per la seconda volta i suoi eccentrici occhi grigi e conseguentemente m’aveva sorriso annuendo contenta. A conclusione della giornata, quando sua madre le aveva urlato dal balcone d’andare a comprare il latte, visto che era quasi ora di cena, io l’avevo affiancata esclamando:

“Faustina aspettami, t’accompagno, perché ci devo andare anch’io”. Ormai lei non si stupiva più, sennonché m’aveva chiesto:

“Che cosa ti succede oggi?”.

“Niente, mi sono accorto che mi piace stare con te” - io avevo acutamente risposto.

Quello era stato il colpo da maestro. Lei aveva abbassato gli occhi per terra e mordendosi le labbra senza il coraggio di guardarmi, dopo pochi passi io le avevo ribadito:

“Ti disgusta?”.

“Per niente, anzi, anche tu mi piaci”.

Al momento era fatta, quasi come se nell’occasione ci fossimo sposati in chiesa. Da allora avevamo cercato entrambi di moltiplicare le opportunità per stare insieme, contendendo e sfidando il dileggio e l’ironia dei compagni ai quali le manovre e le trame non potevano sfuggire, da mettere in conto pure le scontate gelosie delle altre ragazze, visto che non vedevano mai di buon occhio il fatto che qualcuna venisse a loro preferita. Dai sorrisi e le parole, eravamo presto passati ai baci rubati sotto le scale, baci veloci sulle guance sino a un sabato pomeriggio quando lei m’aveva concesso di baciarla sulle labbra. Quel giorno pioveva intensamente, l’estate era conclusa da poco, io l’avevo aspettata a lungo nell’androne delle scale sperando che la madre la spedisse come d’abitudine in latteria, unica occasione per trascorrere qualche minuto insieme, perché appena finite le vacanze si ritornava agli impegni scolastici sui quali nessun genitore era disposto a piegarsi né a transigere in quegli anni.

Se il tempo era bello riuscivamo a volte a ritagliarci qualche mezz’ora di gioco nel tardo pomeriggio, ma con l’approssimarsi dell’inverno le opportunità si riducevano in sostanza a zero. Riuscivamo a vederci soltanto quando chi rientrava per primo dalla scuola faceva la posta all’altro dietro i vetri della finestra, guardando giù per strada in modo tale da intercettarlo poi sulle scale o nell’ascensore. Un saluto veloce, un bacio sulla guancia e uno stringersi le mani con gli occhi acquosi e il cuore gonfio di dispiacere e di tristezza per non poter prolungare e seguitare l’incontro. Andare in latteria per comprare il latte, quello a lunga conservazione ancora non esisteva, anche se costituiva un obbligo quotidiano, dal momento che si trattava solamente d’aver la giusta dose di pazienza. Faustina era scesa verso le diciotto quando era quasi buio, eppure la luce sulle scale non era stata ancora accesa; io avevo sentito i suoi passi veloci e mi ero appostato dietro l’angolo del corridoio.

Quasi senza volerlo, lei mi era testualmente finita tra le braccia e dopo un attimo di batticuore e con un grido strozzato m’aveva riconosciuto e si era abbandonata sul mio petto. Io le avevo sollevato il mento appoggiando le labbra sulle sue, lei non si era scostata, così io protetto dall’oscurità che aveva creato una complice e inattesa atmosfera attorno a noi, le avevo forzato i denti con la punta della lingua. La reazione era stata spontanea, forse un po’ sorpresa ma arrendevole, quindi partecipe, poi addirittura impulsiva e passionale. Faustina si era stretta a me ansimando, abbracciandomi e intrecciando la sua lingua guizzante alla mia. Noi avevamo continuato a lungo, dato che nessuno dei due voleva fermarsi, il mio cervello si era totalmente fuso e tutte le mie sensazioni si erano interamente concentrate nella mia bocca che fremeva come se fossi colto da un attacco epilettico. Io penso che quella sia stata in modo categorico la sensazione fisica di maggior abbandono che mi sia mai capitata di vivere, dato che se Faustina l’avesse voluto m’avrebbe portato in quegli istanti a fare qualsiasi cosa, perché la mia volontà si era totalmente accasciata e annientata sulle sue labbra annebbiandomi.

C’eravamo staccati con un balzo di spavento al rumore d’una porta che sbatteva, dopo di che si era accesa la luce delle scale guastando e rompendo a quel punto definitivamente l’incantesimo di quel durevole e irripetibile momento, sennonché avviandoci verso la latteria sotto l’ombrello aperto ci sentivamo scaricati e svuotati di energie e quasi incapaci di parlare: quella sensazione ci aveva sconvolto, l’espressione “follemente innamorati” era l’unica in grado d’esprimere e di raffigurare adeguatamente ciò che in quel momento provavamo. A seguito di quella prima volta ne erano ovviamente seguite molte altre, cercate e perseguite con tutte le nostre forze, ma sempre insoddisfacenti, perché entrambi le aspettavamo per giorni configurandoci nel cervello chissà quali meraviglie che erano rimaste deluse da quello spoglio ambiente, che poteva essere il solito sottoscala piuttosto che un portone buio o un angolo riparato dalla loro estrema brevità e per la paura d’essere scoperti.

Finalmente arrivò il periodo natalizio, approfittando delle vacanze eravamo riusciti a concordare con gli altri elementi della compagnia un’uscita pomeridiana, per andare tutti insieme al cinema per vedere un film largamente pubblicizzato in città con i manifesti collocati su ogni muro. Uscire alla sera in quei tempi non se ne parlava neppure, i soldi sempre scarsi nelle nostre tasche, erano per l’occasione forniti dalle ridotte mance natalizie più o meno misere del solito. Per la verità a nessuno di noi importava niente del film, di cui oggi non ricordo neppure il titolo, ma rappresentava solamente l’opportunità d’appartarsi al buio anche se eravamo attorniati da altre persone, unico pretesto per stare insieme alla ragazzina preferita. Noi avevamo subito formato le coppie che immancabilmente si erano sparse nei punti strategici della galleria, distanziate le une dalle altre per evitare che l’occhio ficcanaso e indelicato di qualcuno potesse cogliere le prevedibili effusioni degli altri. Inoltre, i maschietti protetti da questa barriera d’invisibilità, si sarebbero poi lodati e ostentati d’incredibili azioni e imprese erotiche, che alla luce dell’esperienza attuale, oggigiorno giudico e reputo nella quasi totalità fasulle.

A noi due era spettato l’angolo in alto a sinistra nell’ultima fila: una posizione astuta e strategica, perché lo schienale delle poltroncine poggiava contro la parete rendendo impossibile che qualcuno potesse sorprenderci alle spalle. Appena si era spenta la luce c’eravamo abbracciati come due sanguisughe, io le cingevo le spalle con la mano sinistra e nello stesso istante la stringevo per la cintura con la mano destra tirandola verso di me, lei mi teneva la mano sulla nuca e s’abbandonava tra le mie braccia spalancando le labbra e cercandomi con la sua lingua mai sazia. Quella là era una posizione insoddisfacente, perché il bracciolo della poltroncina s’interponeva tra i nostri corpi rendendo impossibile un contatto più completo, ma pur sempre migliore di quelle di cui ci eravamo dovuti accontentarci sino a quel momento, sempre assillati e ossessionati dal panico d’essere scoperti. Lì il tempo non ci mancava di certo. Dopo alcuni lunghissimi baci intervallati da frasi smozzicate che ci sussurravamo all’orecchio, peraltro insulse e sciocche come solamente due quindicenni innamorati avrebbero potuto scambiarsi, io mi ero ritrovato a pensare che forse avrei potuto tentare di spingermi un poco più in là.

Mi ero azzardato a porre il palmo aperto della mano destra sul suo seno ancora acerbo, ma indubbiamente già ben formato e sodo, visto che avevo avuto modo d’apprezzarlo nei momenti in cui ero riuscito a stringere Faustina al petto. Volevo che apparisse quasi un gesto casuale, imprevedibile, tale da non suscitare la sua violenta reazione che temevo, ma la reazione non c’era stata se non un lungo sospiro che m’aveva lasciato intendere che il mio gesto era risultato ben accetto e gradito. Io l’avevo palpata un attimo con delicatezza spostandomi poi sull’altro seno:

“Non stringere forte, che così mi fai male” - mi aveva sussurrato lei all’orecchio.

“Mi piace tanto” - avevo risposto io con il cuore in gola, giacché era testualmente la prima volta che toccavo le tette a una donna.

“Anche a me” - era stata la sua essenziale e primaria risposta.

Senza curarmi dei suoi timidi e poco convinti tentativi di resistenza, io le avevo infilato le mani sotto il maglioncino sbottonandole la camicetta e raggiungendo perciò il reggiseno, che però aveva rappresentato un ostacolo insormontabile, solido e impenetrabile come un’armatura medioevale.

“Voglio toccarti meglio, voglio baciarti i capezzoli” - le avevo sussurrato io, con la voce spezzata dall’emozione mordendole il lobo dell’orecchio.

“Tu sei matto, non si può, ci possono vedere”.

Le scuse erano infruttuose e inutili, tenuto conto del livello d’eccitazione che avevamo ormai raggiunto:

“Va’ in bagno e slacciati il reggiseno, dai ti prego” - le avevo chiesto io implorante.

Lei aveva indugiato un attimo titubante. La scritta luminosa toilette era lì accanto a noi a pochi passi di distanza. Faustina si era sollevata incerta dirigendosi là, io l’avevo trattenuta per un istante afferrandole la mano e tirandola verso di me le avevo immediatamente sussurrato:

“Levati anche le mutandine”. Lei si era voltata incredula facendomi un gesto di diniego con la mano:

“Sei matto” - mi aveva sibilato di rimando, avviandosi veloce quasi correndo verso l’insegna luminosa.

Nei pochi istanti nei quali ero rimasto impaziente al mio posto da solo, mi ero guardato intorno constatando come nessuno era interessato né alle nostre schermaglie né tanto meno al film, impegnati com’erano in tutt’altre faccende; dai rumori e dall’agitazione che proveniva dalla mia destra, in quanto da alcuni sedili più in là avevano trovato posto Costanzo e Mirella, mi sembrava addirittura che lei lo stesse manipolando a dovere, stando ai convulsi mugolii di Costanzo, perché l’operazione stava giungendo proprio in quel momento alla sua logica conclusione. Faustina era ritornata quasi subito per sedersi composta al mio fianco, rigida, con le mani strette in grembo e lo sguardo fisso in avanti. Io le avevo circondato le spalle, ma lei si era mantenuta rigida, io l’avevo baciata sulla guancia accarezzandole i capelli:

“Ti amo” - le avevo bisbigliato amabilmente infilandole le mani sotto il maglioncino dove avevo scoperto che non si era limitata a slacciare il reggiseno, se lo era addirittura tolto.

La massa morbida e calda del suo piccolo seno aveva teneramente invaso il palmo della mia mano, mi erano venute le lacrime agli occhi per la tenerezza e per l’emozione. Avevo trovato con i polpastrelli il bottone del capezzolo che si era subito irrigidito al contatto:

“Ti piace?”.

“Sì, molto”- aveva mugolato lei, mentre io non riuscivo a decidermi tra l’uno e l’altro seno, visto che cercavo d’afferrarli simultaneamente, per il fatto che sembravano produrle una scossa elettrica.

“Come sono diventati duri, sono come il mio uccello” - le avevo sussurrato.

“Sciocco” - aveva borbottato con gli occhi languidi, abbandonata sullo schienale della poltroncina per meglio lasciarsi toccare, quasi distesa, ma al tempo stesso partecipe e attiva dei miei toccamenti.

“Toccami anche tu” - le avevo chiesto io, a quel punto convinto che finalmente nulla mi sarebbe stato proibito.

“Mi vergogno”.

“Lo vuoi però”.

“Questo che cosa c’entra, mi vergogno lo stesso. Non ci riesco”.

“Chiudi gli occhi e provaci, dai che ti guido io”. Io le avevo afferrato la mano, ma lei me l’aveva immediatamente sottratta stringendosela sotto l’ascella:

“No, lascia, non voglio”.

Io le avevo appoggiato il viso sulla spalla affondandolo nell’incavo della sua gola e mentre con la mano spalancata riuscivo a stuzzicarle nel frattempo i due capezzoli, l’avevo baciata delicatamente sul collo leccandola come fosse un gelato. Faustina aveva risposto mugolando di piacere e a quel punto io ero arrivato a spingere la mano sotto la sua gonna scozzese con le pieghe fasciate con le calze di nylon verso l’alto, sino al bordo del reggicalze e di lì ero salito ancora sulla pelle nuda senza trovare resistenze né ostacoli. Faustina si era veramente levata le mutandine come io le avevo chiesto, è devo ammettere che tale era stata la mia emozione a quella scoperta, siccome ero rimasto in sostanza inceppato e incapace di fare nulla.

“Non farmi male, ti prego. Nessuno mi ha mai toccato lì. Te lo lascio fare perché ti amo, però ho tanta paura” - m’aveva implorato abbracciandomi il viso con dolcezza.

Le sue parole candide, essenziali e sincere m’avevano sciolto un groppo acido che portavo in gola sin da quando ci eravamo seduti in quel posto, quasi piagnucolando io l’avevo baciata sulle labbra. In quell’istante si era accesa la luce nella sala, rapidamente c’eravamo ricomposti, aiutati dai cappotti che portavamo in grembo e che riuscivano a mascherare con facilità le nostre azioni, non altrettanto però erano riusciti a fare i nostri vicini. Il mio sguardo aveva colto Mirella chinata su Costanzo, intenta indubbiamente a masturbarlo se non addirittura a succhiargli il cazzo. Si erano raddrizzati spaventati guardandosi intorno timorosi e soltanto dopo aver incrociato il mio sguardo e aver costatato che io ero l’unico che li avesse visti, m’avevano sorriso imbarazzati e si erano rimessi a conversare intensamente. Faustina distesa sul sedile non si era accorta di nulla.

“Hai visto Mirella che cosa stava facendo a Costanzo?”.

“No, che cosa?” - mi aveva risposto, guardandomi con i suoi grandi occhi grigi, liquidi e sognanti, che avevano imposto a me un grosso sforzo per sopraffare il desiderio che provavo ad abbracciarla lì in mezzo a tutti incurante delle possibili conseguenze.

“Non ci crederai, ma glielo stava succhiando”.

“Non è possibile, ma va la, non ci credo. Proprio Mirella, quella lì che va sempre in chiesa. Non ci crederei nemmeno se la vedessi con i miei occhi”.

“Allora sta’ attenta e prova a guardarli mentre spengono le luci”.

Io avevo ribattuto corrucciato e stizzito, mentre pregavo con tutte le mie forze che le luci s’affrettassero a spegnersi, perché non m’interessava nulla di loro due, io volevo soltanto riprendere l’esplorazione sotto la gonna di Faustina. Quando dopo era finalmente ritornato il buio lei aveva frenato la mia legittima e naturale irruenza.

“Aspetta un attimo, lasciami vedere” - m’aveva sussurrato curiosa e pettegola Faustina all’orecchio.

L’attesa era stata breve, perché non appena adattati gli occhi alla penombra, avevamo potuto scorgere a pochi passi da noi Mirella abitualmente indaffarata che s’affrettava a infilare le mani nei pantaloni di Costanzo, per estrarvi il suo cazzo e iniziare a massaggiarlo per fargli riacquistare il vigore che probabilmente aveva perduto nell’attesa.

“Che cosa gli sta facendo?”.

Adesso lei sta cercando di farglielo drizzare ancora, lui si è spaventato e gli è diventato flaccido” - le avevo risposto, con un misto d’invidia e d’ironia nei suoi confronti.

Quindi, approfittando della sua momentanea distrazione, io le avevo accortamente infilato la mano sotto la sottana raggiungendole subito l’inguine. Lei aveva serrato immediatamente le cosce e m’aveva bloccato con fermezza il polso, tuttavia il gioco era compiuto, io ero arrivato in postazione e di lì non m’avrebbe schiodato nemmeno un colpo di cannone. Un colpo di cannone purtroppo era subito arrivato, rappresentato da una coppia di persone anziane, che risalendo la scalinata nell’oscurità si erano venute a sedere proprio nei sedili davanti ai nostri, impossibile e inattuabile mettere in atto qualunque cosa senza rischiare d’attirare la loro attenzione, che tenuto conto per quei tempi, si sarebbe trasformato in un richiamo ufficiale seguito poi nell’espulsione dalla sala con tutte le conseguenze e le ripercussioni del caso.

Io avevo dovuto accontentarmi di tenerle stretta la mano sudata, di guardarla a lungo negli occhi e di baciarla frettolosamente nei momenti di maggior intensità del film, durante la quale l’attenzione dei due guastafeste era presumibilmente concentrata sullo schermo. In conclusione eravamo usciti dal cinema a pomeriggio inoltrato, era ormai buio e le vetrine addobbate a festa per il Natale diffondevano una luce calda per le strade affollate, nel tempo in cui gli unici che non si sentivano minimamente in festa eravamo probabilmente noi due.

Con la mano nella mano io mi ero avviato lentamente verso casa, con il cuore gonfio, imbevuto d’un misto d’avvilimento, di sconforto e di tristezza.

{Idraulico anno 1999}
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