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IL TRIO MALTA


di La_Lilla
02.06.2023    |    8.744    |    13 9.3
"“E grazie di tutto e delle birre”, fa Paolo..."
Sono le quattro del pomeriggio e fa abbastanza caldo per essere aprile.
Sdraiata sul divano, mi annoio da morire.
Ho acquistato e poi indossato un completino intimo veramente sexy e hot.
Nessuno, però, mi sta guardando.
Mi alzo e vado in terrazza. È lunga e stretta e fatta ad angolo, con una ringhiera bianca.
Di fronte a casa mia c’è un edificio. È in costruzione da anni. Non si è mai visto un operaio o un muratore. Fino a oggi. Ce ne sono ben tre. Li osservo. Sono a una decina di metri dalla mia terrazza.
Rientro velocemente in casa. Appena sono dentro, penso: ma che sto facendo? Non volevo essere vista, guardata?
Decido di uscire di nuovo in terrazzo. Il mio appartamento è al primo piano; sopra ci vive una signora che ha un gatto. Il gatto in questo momento è appollaiato sulla ringhiera: si mantiene in equilibrio sulle zampette. Non so come ci riesca.
Io provo a fingere di essere in terrazza a stendere il bucato, nella speranza che quelli mi vedano.
Per strada, a quest’ora, non c’è nessuno, salvo un signore, che non conosco, che sta passando in questo momento. Ma non guarda su.
Non so come fare per attirare l’attenzione dei muratori. Spero solo che uno di loro si volti e mi veda, ma mi sembrano abbastanza presi dal lavoro.
Ho appena appoggiato le chiappe alla ringhiera. È fresca. Io sono completamente infoiata.
Sento un lungo fischio. È il segnale. Mi volto.
Uno dei tre, forse il più vecchio, quello con i capelli bianchi, mi fa un gesto da lontano. Fingo di non notarlo e rientro in casa.
Ancora: che sto facendo? Mi sto torturando?
Esco ancora. Il signore con i capelli bianchi e un altro muratore sono spariti. È rimasto solo un tipo, un altro operaio, di colore. Non guarda su, però, sta armeggiando con i suoi attrezzi.
Rientro di nuovo, sconsolata. Mi abbandono sul divano.
A quel punto, sento suonare il campanello. Il cuore mi sale in gola. Alzo il citofono. Rispondo.
“Sì”?
“Salve signorina”, sento, “siamo i muratori che lavorano qui di fronte. Ci ha visti prima”.
Resto in silenzio.
“Ci chiedevamo…”, (‘e dai, diglielo’, sento in sottofondo) “sì, insomma se non ha due birre fresche in frigo… siamo disposti a pagarle, non si preoccupi”.
Mi faccio una risata, in silenzio. Che tipi buffi, penso.
“Ma sì”, dico, “penso di sì, tengo sempre qualche birra in fresco”.
“Be’, allora…”, fa, “possiamo salire a prenderle?”.
“Okay”, dico io, “salite”.
Mentre attendo che salgano vado a mettermi un vestito e un paio di scarpe con i tacchi.
“Buongiorno”, dicono entrando, “non vogliamo disturbare. Prendiamo le due birre e ce ne andiamo”. A parlare è sempre il signore con i capelli bianchi.
“Ma no”, faccio io, “scherzate? Sedetevi. Ve le verso in due bicchieri. Vado subito a prenderle in cucina”.
I due si guardano facendosi un cenno d’intesa.
“Come vuole”, fa il bianco. L’altro, un tipo sui quarant’anni, piuttosto robusto e completamente rasato, sorride.
“E per favore”, dico, “non mi date del lei. Mica sono una signora”, aggiungo io.
Ridacchiano.
“Sì, scusalo”, dice questa volta il tipo sui quaranta. “Paolo è così, troppo informale”.
“Che cazzo dici”, fa lui tra lo stizzito e lo scherzoso. “Non è affatto vero”.
“E invece sì. E anche troppo gentile”, ribadisce l’altro.
“Di gentilezza non ce n’è mai abbastanza”, chioso io, andando a prendere le birre.
“C’hai ragione”, dice il quarantenne.
Torno con le birre e due bicchieri. Loro mi ringraziano e mi dicono che i bicchieri non servivano. Preferiscono berle a canna.
“Come vi pare”, dico io.
Mentre se le scolano, mi guardano. Io sono in piedi, con un vestitino corto addosso e le mie belle scarpe decolté tacco alto.
“Posso dirti”, fa Paolo il bianco, “che sei uno schianto?”.
Sorrido.
“Oh, grazie”, faccio. “Così mi fai arrossire”.
Lui continua a sorseggiare la birra.
“Di’ un po’”, fa quell’altro, “ma sbaglio o prima ti sei dimenticata il vestito, in terrazzo. O siamo noi che abbiamo le allucinazioni per via del caldo”, ridacchia.
“Ah! Ah!”, rido, andando a sedermi sul divano, “niente affatto. Ero intimo, sì, in effetti”.
“E…”, fa Paolo, “se non è domandare troppo… è una cosa che fai abitualmente, o è successo per caso”.
“Cosa”, chiedo.
“Provocare… intendo”.
Rido divertita.
“Be’, ogni tanto mi capita, sì”.
“Allora non ci sbagliavamo”, dice il quarantenne.
Io alzo le spalle.
“Lo prendiamo per un sì”, fa Paolo, tracannando il resto della birra.
“Diciamo che non è un no”, dico io, facendo spallucce.
La situazione si sta facendo piccante e imbarazzante insieme.
“Se allarghi un altro po’ le gambe, così seduta, qua noi non rispondiamo più di noi stessi”, dice sempre Paolo.
In effetti sono seduta e, forse senza pensarci, o forse perché sono talmente eccitata dalla situazione che manco mi rendo conto di quello che sto facendo, ho allargato le gambe mettendo così in bella mostra le mutandine.
“Non vi ecciterete per un paio di mutandine”, dico, ironica.
“Invece sì”, dice il quarantenne.
A quel punto Paolosi alza. Mi alzo anche io.
“Girati un attimo”, mi fa.
“Cosa devi controllare?”, gli chiedo.
“Il culo”, fa lui, senza tanti giri di parole. Il quarantenne annuisce.
Mi volto. Lui si avvicina e mi alza il vestito da dietro.
“Mmmm”, fa.
“’azzo, guarda che bel culo”, dice il quarantenne schiaffeggiandolo.
Io sto in silenzio.
“Sembra gradire”, dice Paolo, rivolgendosi al collega.
“Direi di sì”, fa lui.
“Ma possiamo sapere come ti chiami?”, mi domanda secco il Bianco.
Mi volto.
“Priscilla, e voi?”.
“Be’ io sono Paolo, lui Carlo”.
“Okay”, dico io, ridendo, “le presentazioni sono state fatte”.
Ridiamo tutti insieme.
“Che ne dici”, fa Paolo, che è il più chiacchierone, “se mi faccio una doccia, prima…”.
“Ma certo, come volete. Il bagno è da questa parte”, indicandoglielo.
“Anzi”, fa Paolo. “Vieni con noi. Mi piacerebbe che ti occupassi personalmente del lavaggio delle mie palle. Ti va?”.
La richiesta mi fa salire il cuore in gola. Sono talmente eccitata che tremo.
“Va bene”, dico solo.
Andiamo in bagno. Paolo si spoglia in un battibaleno. Ha la pancia, bella prominente, ed è molto peloso, soprattutto sullo stomaco e nella zona inguinale. Pelo bianco e grigio.
Carlo, invece, resta vestito.
Paolo si mette sotto la doccia e molla l’acqua.
“Dai”, fa, “datti da fare. Le palle non si lavano da sole”.
Carlo, dietro di me, sembra divertirsi. Ma si capisce che è piuttosto eccitato.
Verso un po’ di doccia schiuma sul palmo della mano e cerco le sue palle in mezzo a tutto quel pelo. Le trovo. Sono grosse come due prugne. E dure. Mentre gliele lavo, le massaggio. Intanto, dietro di me, Carlo inizia a liberarsi dei vestiti.
“Esperta nel lavaggio coglioni, vedo”, fa Paolo. “Continua così”.
Le strizzo.
“Ohi! Ohi!”, fa. “Piano. Giocherellona”.
Intanto il suo cazzo incomincia a inturgidirsi. Lo vedo salire lentamente, a scatti.
Dietro, Carlo, ormai nudo, mi palpeggia il culo.
“Che culo da troiona”, fa.
Io faccio un risolino istigatore.
Paolo intanto, dopo essersi sciacquato, esce dalla doccia. Ha il cazzo duro, orizzontale alla pancia.
“Hai un asciugamano?”, domanda.
“In quel cassetto”, dico indicandoglielo.
Lui lo apre, tira fuori un asciugamano e comincia ad asciugarsi.
Ora è il turno di Carlo. Entra nella doccia e apre i rubinetti.
Ha il cazzo duro anche lui, pur senza averglielo sfiorato.
“Mmm”, dico io, “vedo che siete belli eccitati”.
“Con una vacca come te davanti”, dice Paolo, “mi pare il minimo”.
“Eh sì”, dice Carlo, uscendo a sua volta dalla doccia e asciugandosi con un altro asciugamano.
“Ma tu non eri quello gentile?”, dico ridendo e rivolgendomi a Paolo.
“Ah! Ah!”, fa lui, “nel sesso non esiste la gentilezza”, mi spiazza.
“Concordo”, fa Carlo. “Più è rude e meglio è”, aggiunge, menandosi il cazzo.
Io, che sbrodolo da un bel po’, li guardo e basta.
“Andiamo di là”, fa Paolo, che stiamo più comodi.
Io intanto lascio cadere il vestito ai piedi, e li seguo.
“Giù”, fa Paolo, “in ginocchio sul tappeto”.
Mi accovaccio, anch’io, proprio come il gatto, a terra sul tappeto.
È un attimo, e mi schiaffa il cazzo in bocca fino alle palle.
“Tienilo dentro in bocca così, brava”, mi dice, mentre tengo lo sguardo alzato su di lui. Quello che vedo, però, principalmente, è la sua pancia pelosa e appena appena i suoi occhi.
“Ti piace tutto in bocca così, vero?”.
Annuisco.
“Le piace, sì, puoi scommetterci”, dice Carlo che, nel frattempo, dopo essersi sputato su una mano, incomincia a ispezionare il mio buchetto.
Io ho ancora il cazzo di Paolo in bocca, che è un cazzo interessante, e quasi sto per soffocare.
“Be’”, fa lui, “brava. Sei una di quelle che ha resistito più a lungo”.
Il che è piuttosto strano, da parte mia, perché in genere ho i conati. Ma si vede che il cazzo di Paolo mi scende bene lungo la laringe. Il che potrebbe fare di lui uno dei miei amanti preferiti.
Dietro, intanto, Carlo è alle prese con il mio perizoma. Cerca di scostarlo, ma non ci riesce.
“Ma non è uno di quelli con il filetto che si scosta?”, domanda.
“No”, dico mentre Paolo mi tamburella il cazzo sulla fronte.
“D…”, bestemmia. E poi con uno strattone, me lo strappa via.
“Le troie non dovrebbero portare mutandine”, mi dice, e intanto, dopo essersi gommato, mi punta il cazzo sulla rosa.
Lo sento entrare lentamente. Poi toglierlo e riprovarci con maggior vigore. Infine tirandolo fuori di nuovo, allargandomi il buco e sputandoci dentro due volte. Subito dopo, senza esitazione, me le sbatte dentro, infilzandomi, letteralmente.
Caccio un urlo.
“Cosa fai”, dice, rivolgendosi a Paolo, “ficcaglielo in bocca quel cazzo. Deve miagolare, la troia. Non urlare”.
Paolo non si fa pregare due volte e me lo risbatte in bocca.
“Brava”, fa Carlo. “Uno in culo e uno in bocca. Così ti piace, vero?”.
Annuisco.
Carlo ci dà dentro alla grande, cavalcandomi senza pietà. Paolo ogni tanto sfila il cazzo dalla mia bocca e mi guarda e poi lo infila di nuovo e, tenendomi per la nuca, si assicura che mi entri tutto in gola.
Non ho neanche i tempo di respirare e dai colpi infertemi da Carlo, sento tutto il corpo scombussolato.
Sono già venuta di culo e l’ho fatto notare a Carlo, gemendo come una cagna, la qual cosa lo ha galvanizzato a sfondarmi con ancora più irruenza. Sembra non stancarsi mai. Quello che pare sul punto di venire, al contrario, è invece Paolo, che avvisa:
“Non ce la faccio più. Devo svuotare”.
“Aspetta”, fa Carlo, “cavalca un po’ il culo della troia. Non sai cosa ti perdi”.
Io guardo Paolo. Il cazzo ha degli scatti repentini. È grosso e violaceo. Sta per esplodere.
Parte una schiazzata, seguita da altre tre, che mi investono la faccia.
Mentre dalla cappella gli scende l’ultimo rivolo di sborra, gli massaggio le palle pelose, per agevolare l’uscita.
“Cielo”, fa, esausto, “che sborrata”.
Poi – con l’asciugamano con cui si era asciugato prima – si pulisce cazzo e palle e, mentre comincia a rivestirsi, guarda l’orologio.
“Porca eva”, fa a Carlo – che intanto aveva rallentato il ritmo – “sono già le sei. È quasi un’ora che siamo qui. Marcos è là fuori da solo”.
“Va’ chiamarlo. Sarà felice di darti il cambio”, fa lui, tirando fuori il cazzo dal mio culo e continuando a menarselo.
Io mi alzo. Ho la pisella microscopica e sbrodolo in modo evidente.
“Ammazza”, fa Paolo, “sbrodoli proprio come una cagna”.
“Eh, sì, faccio io”, accucciandomi di nuovo, sfilando il profilattico a Carlo e prendendo avidamente in bocca il suo cazzo.
“Che vacca insaziabile”, fa Paolo. “Vado a chiamarlo”.
“Sì, a questa troia serve un bel cazzone XXL”.
“XXL?!”, faccio, sbalordita e guardando Carlo.
“Sì, cara, Marcos ti farà camminare storta per un po’, questo è sicuro. È portoricano. Non scherza”.
Paolo se ne va e io continuo a prendermi cura del cazzo di Carlo, che mi apostrofa a dovere.
Due minuti dopo, arriva questo Marcos. Mi giro. È un tipo statuario, grande e grosso, muscoloso. Ha due rocce al posto delle gambe. È in pantaloncini corti e scarpe da lavoro. A petto nudo.
“È qui la festa?”, esordisce ridacchiando.
“Sì, hai indovinato”.
“Immaginavo. Bel troione, vedo”.
Io sorrido.
In un attimo si abbassa i pantaloncini e le mutande. Se li sfila e li butta sul divano. Resta nudo con le scarpe da lavoro ai piedi.
La proboscide, perché di proboscide si tratta, gli penzola semidura in mezzo alle gambe.
“Ti serviranno due mani con lui”, fa Carlo, ridendo.
“Eh, direi, sì”, dico io.
Mi stacco da Carlo e impugno i cazzo di Marcos. A fatica riesco a fare il giro con le dita.
“Che cazzone”, dico, infoiata al massimo.
“Metilo in boca”, fa lui, perentorio.
Mi avvicino e lo prendo in bocca. Se me ne entra un quarto, è già tanto.
“Più a fondo. Putana”, dice.
Ma non ci riesco ed ecco di nuovo i conati di vomito.
Carlo guarda mentre si mena e ridacchia.
Marcos spinge il suo cazzo, che ora si è fatto grosso come un palo, e io sento che sto per soffocare.
“Dentro tuto, vaca”, insiste.
Ma io ho i conati e lo sfila.
“Be’, proviamo col culo, visto che in bocca non entra, vaca”, dice.
Si danno il cambio. Ora Carlo, davanti, me lo sbatte in bocca. Marcos, il portoricano, strappa con i denti la confezione di alluminio del profilattico e se lo srotola sul cazzone. Il profilattico arriva neanche a metà dell’asta.
Sono già abbastanza allargata, visto che Carlo ci ha dato dentro per mezz’ora. Ma il cazzo del portoricano è un’altra cosa.
Aspetto che entri. Lo infila con calma.
“Culo roto, la putana”, dice. “Adeso apriamo di più”.
Mi dà un colpo secco, spietato, senza preavviso. Avverto una fitta all’altezza del bacino. Come se mi avesse infilato un braccio. Ho il cazzo di Carlo in bocca, ma riesco comunque a urlare.
Poi inizia a scoparmi infilandomelo fino all’elsa. Avverto un misto di dolore e piacere che però mi costringe a urlare.
La cosa infoia talmente tanto Carlo, che mi sborra in bocca. Un sacco di sborra calda che ingoio avidamente, mentre seguito a emettere gridolini incessanti.
“Brava, troia. Adesso ti lascio in compagnia di Marcos. Lui completerà il lavoro”.
Io non gli do retta, praticamente. Non sento più niente, a parte il mio culo che si sta aprendo in due. Ho un orgasmo anale forte, incessante, e prego Marcos di rallentare.
Ma non c’è verso. È davvero spietato. Anzi, mi solleva il culo, facendo in modo che stia con la testa appoggiata al tappeto, completamente piegata a libro, e lui in piedi mi infila il cazzo in verticale.
“Voglio sentire frignare, vaca”, dice.
Sto godendo talmente tanto di culo che mi si tappano persino le orecchie. La sborra che mi esce dalla pisella scende lungo le cosce.
Frigno e strillo.
La cosa va avanti per venti minuti. Ogni tanto lui sfila il cazzone, mi allarga la rosa, ci sputa dentro e ricomincia a pompare. Siamo entrambi sudati, ma lui non sempre per nulla stanco. Mi sta distruggendo.
“Quando ho finito, ti ricordi di questo, securo”, dice, facendo un po’ il bullo.
Mi solleva come se tirasse su un una sedia di plastica, mi porta sulla tavola e mi adagia di schiena. Poi mi tiene le gambe bene aperte e me lo infila con forza da davanti. Urlo.
In quel momento rientra Paolo.
“Ti si sente urlare da fuori, troia”, dice.
Ma io non capisco più niente.
“Mmmm”, fa. “Eccitante a gambe aperte”.
“Non le chiude più, securo, dopo”, da Marcos sbattendomelo dentro sempre più forte.
Cerco di non urlare ma mi sta letteralmente aprendo con il suo cazzo enorme.
“Però”, fa Paolo, “lo accoglie tutto. 25 cm, troia. Hai un culo mangia cazzi”.
Ne ho presi da 22, 23. 25 mai. Ma non credo vi sia molta differenza. E infatti non c’è. La sensazione è quella di avere, appunto, un braccio dentro il culo; un braccio che ti arriva fino al colon.
Dopo altri dieci minuti di pompata senza pietà, Marcos, su suggerimento di Paolo (comincia a farsi tardi e devono ancora sistemare gli attrezzi), accelera la situazione. Mi tira giù dalla tavola e mi mette per terra. Io, in ginocchio, apro la bocca, mentre lui si sega rapidamente.
Sto lì, con la lingua fuori, guardandolo, e aspettando la mia ricompensa, che non tarda ad arrivare. Il primo fiotto mi investe completamente capelli e fronte. Il secondo finisce dritto nella mia bocca. Il terzo e quarto sempre in faccia, inondandomi.
“Vaca”, dice, avvicinando la cappella alla mia bocca e costringendomi a pulirla con la lingua.
“Brava, così, tuta pulita”.
“Dai”, fa Paolo, “andiamo”.
Marcos cerca i suoi pantaloncini.
“E grazie di tutto e delle birre”, fa Paolo. “Alla prossima”.
Io mi reggo in piedi a fatica. Giuro. Sono tutta scombussolata. Tremo.
“Siete qui anche domani?”, faccio.
“No. Tra due settimane, penso. Ma non garantisco niente. Ora andiamo, bella. Ciao”.
Marcos è uscito, salutando con la mano.
Chiudo la porta, mentre loro se ne tornano al lavoro.
“Be’, con l’andazzo con cui hanno iniziato quella costruzione”, penso, “chi li vedi più, ‘sti tori”.
Poi mi volto, vedo i due bicchieri vuoi e le due bottiglie di birra stappate. Sotto una bottiglia ci sono dieci euro.
“Sono stati di parola”, penso.

Sono le quattro del pomeriggio e fa abbastanza caldo per essere aprile.
Sdraiata sul divano, mi annoio da morire.
Ho acquistato e poi indossato un completino intimo veramente sexy e hot.
Nessuno, però, mi sta guardando.
Mi alzo e vado in terrazza. È lunga e stretta e fatta ad angolo, con una ringhiera bianca.
Di fronte a casa mia c’è un edificio. È in costruzione da anni. Non si è mai visto un operaio o un muratore. Fino a oggi. Ce ne sono ben tre. Li osservo. Sono a una decina di metri dalla mia terrazza.
Rientro velocemente in casa. Appena sono dentro, penso: ma che sto facendo? Non volevo essere vista, guardata?
Decido di uscire di nuovo in terrazzo. Il mio appartamento è al primo piano; sopra ci vive una signora che ha un gatto. Il gatto in questo momento è appollaiato sulla ringhiera: si mantiene in equilibrio sulle zampette. Non so come ci riesca.
Io provo a fingere di essere in terrazza a stendere il bucato, nella speranza che quelli mi vedano.
Per strada, a quest’ora, non c’è nessuno, salvo un signore, che non conosco, che sta passando in questo momento. Ma non guarda su.
Non so come fare per attirare l’attenzione dei muratori. Spero solo che uno di loro si volti e mi veda, ma mi sembrano abbastanza presi dal lavoro.
Ho appena appoggiato le chiappe alla ringhiera. È fresca. Io sono completamente infoiata.
Sento un lungo fischio. È il segnale. Mi volto.
Uno dei tre, forse il più vecchio, quello con i capelli bianchi, mi fa un gesto da lontano. Fingo di non notarlo e rientro in casa.
Ancora: che sto facendo? Mi sto torturando?
Esco ancora. Il signore con i capelli bianchi e un altro muratore sono spariti. È rimasto solo un tipo, un altro operaio, di colore. Non guarda su, però, sta armeggiando con i suoi attrezzi.
Rientro di nuovo, sconsolata. Mi abbandono sul divano.
A quel punto, sento suonare il campanello. Il cuore mi sale in gola. Alzo il citofono. Rispondo.
“Sì”?
“Salve signorina”, sento, “siamo i muratori che lavorano qui di fronte. Ci ha visti prima”.
Resto in silenzio.
“Ci chiedevamo…”, (‘e dai, diglielo’, sento in sottofondo) “sì, insomma se non ha due birre fresche in frigo… siamo disposti a pagarle, non si preoccupi”.
Mi faccio una risata, in silenzio. Che tipi buffi, penso.
“Ma sì”, dico, “penso di sì, tengo sempre qualche birra in fresco”.
“Be’, allora…”, fa, “possiamo salire a prenderle?”.
“Okay”, dico io, “salite”.
Mentre attendo che salgano vado a mettermi un vestito e un paio di scarpe con i tacchi.
“Buongiorno”, dicono entrando, “non vogliamo disturbare. Prendiamo le due birre e ce ne andiamo”. A parlare è sempre il signore con i capelli bianchi.
“Ma no”, faccio io, “scherzate? Sedetevi. Ve le verso in due bicchieri. Vado subito a prenderle in cucina”.
I due si guardano facendosi un cenno d’intesa.
“Come vuole”, fa il bianco. L’altro, un tipo sui quarant’anni, piuttosto robusto e completamente rasato, sorride.
“E per favore”, dico, “non mi date del lei. Mica sono una signora”, aggiungo io.
Ridacchiano.
“Sì, scusalo”, dice questa volta il tipo sui quaranta. “Paolo è così, troppo informale”.
“Che cazzo dici”, fa lui tra lo stizzito e lo scherzoso. “Non è affatto vero”.
“E invece sì. E anche troppo gentile”, ribadisce l’altro.
“Di gentilezza non ce n’è mai abbastanza”, chioso io, andando a prendere le birre.
“C’hai ragione”, dice il quarantenne.
Torno con le birre e due bicchieri. Loro mi ringraziano e mi dicono che i bicchieri non servivano. Preferiscono berle a canna.
“Come vi pare”, dico io.
Mentre se le scolano, mi guardano. Io sono in piedi, con un vestitino corto addosso e le mie belle scarpe decolté tacco alto.
“Posso dirti”, fa Paolo il bianco, “che sei uno schianto?”.
Sorrido.
“Oh, grazie”, faccio. “Così mi fai arrossire”.
Lui continua a sorseggiare la birra.
“Di’ un po’”, fa quell’altro, “ma sbaglio o prima ti sei dimenticata il vestito, in terrazzo. O siamo noi che abbiamo le allucinazioni per via del caldo”, ridacchia.
“Ah! Ah!”, rido, andando a sedermi sul divano, “niente affatto. Ero intimo, sì, in effetti”.
“E…”, fa Paolo, “se non è domandare troppo… è una cosa che fai abitualmente, o è successo per caso”.
“Cosa”, chiedo.
“Provocare… intendo”.
Rido divertita.
“Be’, ogni tanto mi capita, sì”.
“Allora non ci sbagliavamo”, dice il quarantenne.
Io alzo le spalle.
“Lo prendiamo per un sì”, fa Paolo, tracannando il resto della birra.
“Diciamo che non è un no”, dico io, facendo spallucce.
La situazione si sta facendo piccante e imbarazzante insieme.
“Se allarghi un altro po’ le gambe, così seduta, qua noi non rispondiamo più di noi stessi”, dice sempre Paolo.
In effetti sono seduta e, forse senza pensarci, o forse perché sono talmente eccitata dalla situazione che manco mi rendo conto di quello che sto facendo, ho allargato le gambe mettendo così in bella mostra le mutandine.
“Non vi ecciterete per un paio di mutandine”, dico, ironica.
“Invece sì”, dice il quarantenne.
A quel punto Paolosi alza. Mi alzo anche io.
“Girati un attimo”, mi fa.
“Cosa devi controllare?”, gli chiedo.
“Il culo”, fa lui, senza tanti giri di parole. Il quarantenne annuisce.
Mi volto. Lui si avvicina e mi alza il vestito da dietro.
“Mmmm”, fa.
“’azzo, guarda che bel culo”, dice il quarantenne schiaffeggiandolo.
Io sto in silenzio.
“Sembra gradire”, dice Paolo, rivolgendosi al collega.
“Direi di sì”, fa lui.
“Ma possiamo sapere come ti chiami?”, mi domanda secco il Bianco.
Mi volto.
“Priscilla, e voi?”.
“Be’ io sono Paolo, lui Carlo”.
“Okay”, dico io, ridendo, “le presentazioni sono state fatte”.
Ridiamo tutti insieme.
“Che ne dici”, fa Paolo, che è il più chiacchierone, “se mi faccio una doccia, prima…”.
“Ma certo, come volete. Il bagno è da questa parte”, indicandoglielo.
“Anzi”, fa Paolo. “Vieni con noi. Mi piacerebbe che ti occupassi personalmente del lavaggio delle mie palle. Ti va?”.
La richiesta mi fa salire il cuore in gola. Sono talmente eccitata che tremo.
“Va bene”, dico solo.
Andiamo in bagno. Paolo si spoglia in un battibaleno. Ha la pancia, bella prominente, ed è molto peloso, soprattutto sullo stomaco e nella zona inguinale. Pelo bianco e grigio.
Carlo, invece, resta vestito.
Paolo si mette sotto la doccia e molla l’acqua.
“Dai”, fa, “datti da fare. Le palle non si lavano da sole”.
Carlo, dietro di me, sembra divertirsi. Ma si capisce che è piuttosto eccitato.
Verso un po’ di doccia schiuma sul palmo della mano e cerco le sue palle in mezzo a tutto quel pelo. Le trovo. Sono grosse come due prugne. E dure. Mentre gliele lavo, le massaggio. Intanto, dietro di me, Carlo inizia a liberarsi dei vestiti.
“Esperta nel lavaggio coglioni, vedo”, fa Paolo. “Continua così”.
Le strizzo.
“Ohi! Ohi!”, fa. “Piano. Giocherellona”.
Intanto il suo cazzo incomincia a inturgidirsi. Lo vedo salire lentamente, a scatti.
Dietro, Carlo, ormai nudo, mi palpeggia il culo.
“Che culo da troiona”, fa.
Io faccio un risolino istigatore.
Paolo intanto, dopo essersi sciacquato, esce dalla doccia. Ha il cazzo duro, orizzontale alla pancia.
“Hai un asciugamano?”, domanda.
“In quel cassetto”, dico indicandoglielo.
Lui lo apre, tira fuori un asciugamano e comincia ad asciugarsi.
Ora è il turno di Carlo. Entra nella doccia e apre i rubinetti.
Ha il cazzo duro anche lui, pur senza averglielo sfiorato.
“Mmm”, dico io, “vedo che siete belli eccitati”.
“Con una vacca come te davanti”, dice Paolo, “mi pare il minimo”.
“Eh sì”, dice Carlo, uscendo a sua volta dalla doccia e asciugandosi con un altro asciugamano.
“Ma tu non eri quello gentile?”, dico ridendo e rivolgendomi a Paolo.
“Ah! Ah!”, fa lui, “nel sesso non esiste la gentilezza”, mi spiazza.
“Concordo”, fa Carlo. “Più è rude e meglio è”, aggiunge, menandosi il cazzo.
Io, che sbrodolo da un bel po’, li guardo e basta.
“Andiamo di là”, fa Paolo, che stiamo più comodi.
Io intanto lascio cadere il vestito ai piedi, e li seguo.
“Giù”, fa Paolo, “in ginocchio sul tappeto”.
Mi accovaccio, anch’io, proprio come il gatto, a terra sul tappeto.
È un attimo, e mi schiaffa il cazzo in bocca fino alle palle.
“Tienilo dentro in bocca così, brava”, mi dice, mentre tengo lo sguardo alzato su di lui. Quello che vedo, però, principalmente, è la sua pancia pelosa e appena appena i suoi occhi.
“Ti piace tutto in bocca così, vero?”.
Annuisco.
“Le piace, sì, puoi scommetterci”, dice Carlo che, nel frattempo, dopo essersi sputato su una mano, incomincia a ispezionare il mio buchetto.
Io ho ancora il cazzo di Paolo in bocca, che è un cazzo interessante, e quasi sto per soffocare.
“Be’”, fa lui, “brava. Sei una di quelle che ha resistito più a lungo”.
Il che è piuttosto strano, da parte mia, perché in genere ho i conati. Ma si vede che il cazzo di Paolo mi scende bene lungo la laringe. Il che potrebbe fare di lui uno dei miei amanti preferiti.
Dietro, intanto, Carlo è alle prese con il mio perizoma. Cerca di scostarlo, ma non ci riesce.
“Ma non è uno di quelli con il filetto che si scosta?”, domanda.
“No”, dico mentre Paolo mi tamburella il cazzo sulla fronte.
“D…”, bestemmia. E poi con uno strattone, me lo strappa via.
“Le troie non dovrebbero portare mutandine”, mi dice, e intanto, dopo essersi gommato, mi punta il cazzo sulla rosa.
Lo sento entrare lentamente. Poi toglierlo e riprovarci con maggior vigore. Infine tirandolo fuori di nuovo, allargandomi il buco e sputandoci dentro due volte. Subito dopo, senza esitazione, me le sbatte dentro, infilzandomi, letteralmente.
Caccio un urlo.
“Cosa fai”, dice, rivolgendosi a Paolo, “ficcaglielo in bocca quel cazzo. Deve miagolare, la troia. Non urlare”.
Paolo non si fa pregare due volte e me lo risbatte in bocca.
“Brava”, fa Carlo. “Uno in culo e uno in bocca. Così ti piace, vero?”.
Annuisco.
Carlo ci dà dentro alla grande, cavalcandomi senza pietà. Paolo ogni tanto sfila il cazzo dalla mia bocca e mi guarda e poi lo infila di nuovo e, tenendomi per la nuca, si assicura che mi entri tutto in gola.
Non ho neanche i tempo di respirare e dai colpi infertemi da Carlo, sento tutto il corpo scombussolato.
Sono già venuta di culo e l’ho fatto notare a Carlo, gemendo come una cagna, la qual cosa lo ha galvanizzato a sfondarmi con ancora più irruenza. Sembra non stancarsi mai. Quello che pare sul punto di venire, al contrario, è invece Paolo, che avvisa:
“Non ce la faccio più. Devo svuotare”.
“Aspetta”, fa Carlo, “cavalca un po’ il culo della troia. Non sai cosa ti perdi”.
Io guardo Paolo. Il cazzo ha degli scatti repentini. È grosso e violaceo. Sta per esplodere.
Parte una schiazzata, seguita da altre tre, che mi investono la faccia.
Mentre dalla cappella gli scende l’ultimo rivolo di sborra, gli massaggio le palle pelose, per agevolare l’uscita.
“Cielo”, fa, esausto, “che sborrata”.
Poi – con l’asciugamano con cui si era asciugato prima – si pulisce cazzo e palle e, mentre comincia a rivestirsi, guarda l’orologio.
“Porca eva”, fa a Carlo – che intanto aveva rallentato il ritmo – “sono già le sei. È quasi un’ora che siamo qui. Marcos è là fuori da solo”.
“Va’ chiamarlo. Sarà felice di darti il cambio”, fa lui, tirando fuori il cazzo dal mio culo e continuando a menarselo.
Io mi alzo. Ho la pisella microscopica e sbrodolo in modo evidente.
“Ammazza”, fa Paolo, “sbrodoli proprio come una cagna”.
“Eh, sì, faccio io”, accucciandomi di nuovo, sfilando il profilattico a Carlo e prendendo avidamente in bocca il suo cazzo.
“Che vacca insaziabile”, fa Paolo. “Vado a chiamarlo”.
“Sì, a questa troia serve un bel cazzone XXL”.
“XXL?!”, faccio, sbalordita e guardando Carlo.
“Sì, cara, Marcos ti farà camminare storta per un po’, questo è sicuro. È portoricano. Non scherza”.
Paolo se ne va e io continuo a prendermi cura del cazzo di Carlo, che mi apostrofa a dovere.
Due minuti dopo, arriva questo Marcos. Mi giro. È un tipo statuario, grande e grosso, muscoloso. Ha due rocce al posto delle gambe. È in pantaloncini corti e scarpe da lavoro. A petto nudo.
“È qui la festa?”, esordisce ridacchiando.
“Sì, hai indovinato”.
“Immaginavo. Bel troione, vedo”.
Io sorrido.
In un attimo si abbassa i pantaloncini e le mutande. Se li sfila e li butta sul divano. Resta nudo con le scarpe da lavoro ai piedi.
La proboscide, perché di proboscide si tratta, gli penzola semidura in mezzo alle gambe.
“Ti serviranno due mani con lui”, fa Carlo, ridendo.
“Eh, direi, sì”, dico io.
Mi stacco da Carlo e impugno i cazzo di Marcos. A fatica riesco a fare il giro con le dita.
“Che cazzone”, dico, infoiata al massimo.
“Metilo in boca”, fa lui, perentorio.
Mi avvicino e lo prendo in bocca. Se me ne entra un quarto, è già tanto.
“Più a fondo. Putana”, dice.
Ma non ci riesco ed ecco di nuovo i conati di vomito.
Carlo guarda mentre si mena e ridacchia.
Marcos spinge il suo cazzo, che ora si è fatto grosso come un palo, e io sento che sto per soffocare.
“Dentro tuto, vaca”, insiste.
Ma io ho i conati e lo sfila.
“Be’, proviamo col culo, visto che in bocca non entra, vaca”, dice.
Si danno il cambio. Ora Carlo, davanti, me lo sbatte in bocca. Marcos, il portoricano, strappa con i denti la confezione di alluminio del profilattico e se lo srotola sul cazzone. Il profilattico arriva neanche a metà dell’asta.
Sono già abbastanza allargata, visto che Carlo ci ha dato dentro per mezz’ora. Ma il cazzo del portoricano è un’altra cosa.
Aspetto che entri. Lo infila con calma.
“Culo roto, la putana”, dice. “Adeso apriamo di più”.
Mi dà un colpo secco, spietato, senza preavviso. Avverto una fitta all’altezza del bacino. Come se mi avesse infilato un braccio. Ho il cazzo di Carlo in bocca, ma riesco comunque a urlare.
Poi inizia a scoparmi infilandomelo fino all’elsa. Avverto un misto di dolore e piacere che però mi costringe a urlare.
La cosa infoia talmente tanto Carlo, che mi sborra in bocca. Un sacco di sborra calda che ingoio avidamente, mentre seguito a emettere gridolini incessanti.
“Brava, troia. Adesso ti lascio in compagnia di Marcos. Lui completerà il lavoro”.
Io non gli do retta, praticamente. Non sento più niente, a parte il mio culo che si sta aprendo in due. Ho un orgasmo anale forte, incessante, e prego Marcos di rallentare.
Ma non c’è verso. È davvero spietato. Anzi, mi solleva il culo, facendo in modo che stia con la testa appoggiata al tappeto, completamente piegata a libro, e lui in piedi mi infila il cazzo in verticale.
“Voglio sentire frignare, vaca”, dice.
Sto godendo talmente tanto di culo che mi si tappano persino le orecchie. La sborra che mi esce dalla pisella scende lungo le cosce.
Frigno e strillo.
La cosa va avanti per venti minuti. Ogni tanto lui sfila il cazzone, mi allarga la rosa, ci sputa dentro e ricomincia a pompare. Siamo entrambi sudati, ma lui non sempre per nulla stanco. Mi sta distruggendo.
“Quando ho finito, ti ricordi di questo, securo”, dice, facendo un po’ il bullo.
Mi solleva come se tirasse su un una sedia di plastica, mi porta sulla tavola e mi adagia di schiena. Poi mi tiene le gambe bene aperte e me lo infila con forza da davanti. Urlo.
In quel momento rientra Paolo.
“Ti si sente urlare da fuori, troia”, dice.
Ma io non capisco più niente.
“Mmmm”, fa. “Eccitante a gambe aperte”.
“Non le chiude più, securo, dopo”, da Marcos sbattendomelo dentro sempre più forte.
Cerco di non urlare ma mi sta letteralmente aprendo con il suo cazzo enorme.
“Però”, fa Paolo, “lo accoglie tutto. 25 cm, troia. Hai un culo mangia cazzi”.
Ne ho presi da 22, 23. 25 mai. Ma non credo vi sia molta differenza. E infatti non c’è. La sensazione è quella di avere, appunto, un braccio dentro il culo; un braccio che ti arriva fino al colon.
Dopo altri dieci minuti di pompata senza pietà, Marcos, su suggerimento di Paolo (comincia a farsi tardi e devono ancora sistemare gli attrezzi), accelera la situazione. Mi tira giù dalla tavola e mi mette per terra. Io, in ginocchio, apro la bocca, mentre lui si sega rapidamente.
Sto lì, con la lingua fuori, guardandolo, e aspettando la mia ricompensa, che non tarda ad arrivare. Il primo fiotto mi investe completamente capelli e fronte. Il secondo finisce dritto nella mia bocca. Il terzo e quarto sempre in faccia, inondandomi.
“Vaca”, dice, avvicinando la cappella alla mia bocca e costringendomi a pulirla con la lingua.
“Brava, così, tuta pulita”.
“Dai”, fa Paolo, “andiamo”.
Marcos cerca i suoi pantaloncini.
“E grazie di tutto e delle birre”, fa Paolo. “Alla prossima”.
Io mi reggo in piedi a fatica. Giuro. Sono tutta scombussolata. Tremo.
“Siete qui anche domani?”, faccio.
“No. Tra due settimane, penso. Ma non garantisco niente. Ora andiamo, bella. Ciao”.
Marcos è uscito, salutando con la mano.
Chiudo la porta, mentre loro se ne tornano al lavoro.
“Be’, con l’andazzo con cui hanno iniziato quella costruzione”, penso, “chi li vedi più, ‘sti tori”.
Poi mi volto, vedo i due bicchieri vuoi e le due bottiglie di birra stappate. Sotto una bottiglia ci sono dieci euro.
“Sono stati di parola”, penso.



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