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LA DOMESTICA MANCATA


di La_Lilla
23.09.2022    |    10.121    |    12 9.7
"“Allora le conviene scendere e salire sul camion..."
Non ricordo bene che giorno fosse, mi pare un sabato, quando vengo contattata dall’agenzia Ability. Al telefono c’è Luisa, la splendida segretaria con cui avevo fatto sesso.
“Senti”, mi fa, “sono riuscita a trovare una parte per te in un film hard. Una piccola parte, niente di che. Stiamo parlando di un’ottima produzione, che vende bene. Purtroppo”, fa, sospirando, “sai, tu sei all’inizio, e i compensi non sono altissimi. Ma ti parlerò meglio nel dettaglio quando vieni qua. In settimana sei libera?”.
“Sì,”, le dico, “e sono molto contenta della cosa. Anche lunedì, di primo pomeriggio”.
“Perfetto, allora”, mi dice. “Facciamo per le sedici e trenta”.
“Okay. E grazie ancora”.
“Grazie a te”, mi risponde e mette giù.

Quel lunedì ero molto eccitata. È vero che Luisa mi aveva parlato di una “piccola parte”, però per me era già qualcosa. Del compenso me ne fregavo. O per dirla meglio mi interessava fino a un certo punto. Da qualche parte bisogna pur incominciare per entrare nel mondo del porno, e quella era la parte giusta.
Il tempo non prometteva bene. Le previsioni meteo davano violenti acquazzoni in tutta la regione. Decido così di partire in largo anticipo, in modo di arrivare puntuale all’appuntamento.
Esco dal garage di casa e già piove intensamente. La strada era piuttosto trafficata a quell’ora, così opto per l’autostrada: del resto dovevo fare più di cinquanta chilometri per arrivare fino all’agenzia, e la strada normale, in quelle condizioni, non era proprio il massimo. Rischiavo di ritardare, e parecchio, e la cosa mi seccava.
Mi sono immessa, così, in autostrada. La pioggia continuava a imperversare e i tergicristalli faticavano a togliere l’acqua dal parabrezza. Dopo cinque chilometri, sfortuna delle sfortune, sento che la macchina inizia a fare strani borbottii e a strappare. Grazie al cielo (almeno quello) a pochi metri individuo una piazzola d’emergenza. Accosto sotto il diluvio.
La macchina si spegne, all’improvviso, e io cerco di riavviare il motore, ma sembra non ci sia niente da fare: mi ha abbandonato lì, in mezzo all’autostrada, proprio sotto uno scroscio terribile.
Guardo l’orologio. Sono le tredici e trenta. Per fortuna sono partita in anticipo, prevedendo il peggio, mi dico.
Tento di nuovo di far ripartire la macchina, ma non sembra dare segni di vita. A quel punto mi resta solo una cosa da fare: chiamare i soccorsi stradali.
Cerco il numero di S.O.S. stradale sulle carte della macchina che tengo dentro lo sportellino del cruscotto. Lo trovo e lo compongo. Mi risponde un signore, che mi chiede in che punto mi trovo e se gli faccio la cortesia di inviargli la posizione. Mi dà un numero di cellulare. Lo ringrazio e gli invio la posizione su whatsapp. Nel frattempo mi invita a chiamare un taxi. Cosa che faccio non appena riattacca.
In meno di venti minuti vedo arrivare il soccorso stradale. Il tipo alla guida accosta il camion davanti a me e scende sotto il diluvio. Io abbasso il finestrino e lo saluto.
“Salve”, mi fa, “attacco la macchina e la carico. Lei però non può stare qua”.
Lo guardo perplessa. “E che faccio?”, gli dico, “scendo e sto sotto la pioggia?”.
“Ha un ombrello?”, mi fa.
“Sì ma…”, replico io. “Il taxi non è ancora arrivato”.
“E credo che non arriverà a breve”, mi fa.
“Come dice?”.
“Oggi c’è lo sciopero dei tassisti. Non so se lo sapeva”.
“No. Non ne sapevo niente. E allora?”.
“Allora le conviene scendere e salire sul camion. La accompagno alla prima zona di sosta coperta, che è qui a dieci chilometri. Poi da lì potrà attendere il taxi”.
A quanto pare non avevo scelta. L’uomo mi fissava: aveva una k-way arancione che lo copriva completamente, lasciando scoperto solo occhi e naso.
Cerco l’ombrello, lo prendo, apro la portiera e affronto il maltempo, mentre l’addetto al soccorso stradale aggancia la mia macchina.
Non mi arrischio a correre con i tacchi (anche perché non lo so fare) ma cammino abbastanza veloce, sperando che l’acqua a terra non mi giochi bruschi scherzi. L’uomo mi osserva sgambettare in minigonna fino alla portiera del camion.
Finalmente salgo. Tutto sommato mi sono bagnata pochissimo, visto l’acquazzone. C’è l’autoradio accesa, con la musica a basso volume. Attendo che l’uomo in k-way arancione finisca le operazioni di aggancio e cerco di stare rilassata.
Dopo una decina di minuti, lo vedo salire. Si libera del k-way e lo butta dietro il seggiolino.
“Fatto”, mi dice. “Ma che cos’è successo di preciso alla sua macchina?”.
“Bo’”, gli faccio. “Si è piantata così, all’improvviso”.
“Cose che capitano”, aggiunge lui. “Adesso la accompagno alla stazione di sosta. Li potrà bersi qualcosa di caldo. Perché temo che l’attesa sarà lunga”.
“Speriamo di no. Ho un appuntamento importante”, faccio notare io.
“Me lo auguro per lei”, dice, mentre avvia il camion e partiamo.
Percorriamo un tratto di autostrada con il sottofondo musicale dei Cold Play. Lui guardava fissamente la strada e io giochicchiavo con lo smartphone. A un certo punto, però, un po’ seccata da quel mutismo, ho deciso di provocarlo; così, giusto per rendere piccante la situazione. In fondo si trattava di un bell’uomo maturo, sicuramente sposato, e dai modi gentili.
Sicché così, di punto in bianco, mi alzo tiro su la gonna, e gli chiedo:
“Secondo lei le mutandine rosse sotto questo vestito vanno bene?”.
Lui volta di poco la testa per guardarle.
“Direi che sono okay, sì”.
“No, perché, sa, avevo dei dubbi. Forse bianche erano meglio”.
“Quelle vanno benissimo”, fa lui, pacatamente.
“Ne è proprio sicuro?”.
“Sicurissimo”, dice, tornando ad osservarle.
Poi, di nuovo, silenzio tombale.
Ba’, penso, non sembro fargli effetto.
Da lì, a un attimo, mi dice:
“Mi capisca, io sto lavorando… Certe cose è meglio se non le vedo”.
“Puoi darmi del tu”, gli faccio.
“Sì, be’, insomma, ci siamo capiti”.
“Che c’è di male”, gli dico, “ti ho solo chiesto un parere”.
“Mi hai appena mostrato le mutandine; chiedere un parere è un’altra cosa”.
“Ma ti piacciono?”.
“Mi piace un po’ tutto, a dire la verità”, facendosi coraggio.
“Be’”, dico io osservando la sua patta, “scopriamo se ti faccio effetto o no”, aggiungo, accarezzandogli il pacco che, a vista d’occhio, si sta facendo sempre più grosso.
Lui non sembra protestare. Continua a guardare la strada e mi lascia fare.
“Siamo quasi arrivati”, mi dice a un tratto, “e adesso?”.
“Adesso cosa?”, chiedo.
“Adesso che mi hai fatto venire il cazzo duro, che si fa?”.
“Be’”, dico io, “tutto dipende da quello che vuoi fare tu”.
“Io vorrei svuotare, visto che sono tre giorni che non svuoto”.
“Mmmm”, miagolo io, “interessante”.
Nel frattempo entriamo con il camion nell’area di servizio. Lui dirige il camion verso il fondo del parcheggio, ben lontano dall’ingresso del locale. Arriviamo in un punto vicino a una siepe. Non un posto isolatissimo, ma quanto basta per quello che progettava di fare.
Spegne il camion e io intanto gli sbottono i jeans e ci infilo una mano dentro per liberare il suo cazzo. Lo tiro fuori, è già abbastanza duro: una cappella grossa e odorosa, che subito circuisco con la lingua. Lo sento fare “ught”, mentre il cazzo gli si inturgidisce del tutto.
Comincio a prenderlo tutto in bocca e a fare su e giù con la testa. Ogni tanto lui, con una mano, mi tiene giù, in modo che lo tenga dentro in bocca fino in gola. Lo sento godere. Gli succhio il cazzo per cinque minuti, dopo di che sento tutto il suo brodo caldo in bocca. Mando giù e gli dico: “sei stato velocino”.
“Ero pieno”, la sua risposta.
Poi si è rinfilato il cazzo nei pantaloni velocemente e mi ha detto che potevo scendere, visto che, comunque, non pioveva poi molto.
Sono scesa e l’ho visto ripartire con la mia lancia Y appesa dietro. Neanche un saluto. Niente. Ma, del resto, è il suo lavoro. Il mio, svuotare.

Fatto sta che del tassista non vi era traccia ed erano già le sedici meno venti. Richiamo e la centrale operativa mi dice che un taxi si è appena liberato e mi raggiungerà entro quindici minuti. Sono salva.
In effetti, verso le sedici, il tassista arriva. Gli dico di fare in fretta, che ho un appuntamento alle sedici e trenta e lui mi risponde che farà quello che può.

Incredibilmente, dopo varie peripezie, arrivo puntuale all’agenzia. Salgo e alla porta trovo la solita signora che mi informa che Luisa mi sta aspettando nel suo ufficio. Busso e, al suo “avanti”, entro. Ci salutiamo. Lei è come sempre bellissima. Minigonna vertiginosa e scarpe tacco alto. Decolté sempre ben in vista e sorriso arrapante.
“A breve”, mi dice, “dovrebbe essere qui anche uno della produzione”.
“Bene”, faccio io, “si firma, allora”.
“Be’”, mi blocca lei, “prima dovrà farti un altro provino. È l’iter”.
“Davvero? Dove, qui?”.
“No, no. Non qui. Sul set”.
“Dici davvero?”.
“Sì, questo film lo producono in città. Il set è a qualche isolato da qua”.
“Bene”, faccio. “Ma non ti ha parlato del mio ruolo?”.
In quel momento sentiamo bussare la porta.
“Avanti”, dice Luisa.
Entra un signore distinto, in giacca e cravatta, leggero pizzetto e occhiali scuri.
“Buongiorno”, dice Luisa andandogli incontro e stringendogli la mano, “lei è il dott. Preschi, immagino”.
“Sì, sono io”, fa lui. “Lei è davvero bellissima come mi avevano detto”.
“La ringrazio”, dice lei, quasi arrossendo. “E questa è Priscilla, la vostra attrice”.
“Buongiorno anche a lei”, dice l’uomo, “molto carina anche Priscilla, vedo”.
Lo ringrazio per il complimento e gli stringo la mano.
“Mi dicono”, continua, “che questa è la sua prima apparizione, o sbaglio”.
“No, no. Dicono bene. Non ho mai recitato prima”.
“Be’, non c’è poi molto da recitare, nella sua parte. Diciamo che c’è più da fare. Lei mi capisce”.
“Sì, certo. Mi aveva informato Luisa”.
“Io non l’ho mai vista all’opera”, va avanti l’uomo della produzione, “ma sono sicuro che ci sa fare. Tuttavia, devo metterla alla prova. Anche perché davanti a una telecamera, in un set, le cose si complicano un po’, vuoi per l’imbarazzo, la tensione… ecc. Lei capisce”.
“Ma sì, è ovvio. Ripeto, sono alle prime armi”.
“Dunque”, fa lui dondolando la testa, “facciamo così. La accompagno sul set, e lì ci mettiamo all’opera”.
“D’accordo, dico”.
“Viene anche lei signorina?”, chiede il produttore a Luisa.
“No”, fa lei, “mi dispiace. Ho molto da fare qui. Andate pure”.
“Bene, allora”, dice l’uomo battendo le mani, “andiamo”.
Ci avviamo all’uscita e scendiamo in ascensore. Fuori, in parcheggio, mi indica la sua macchina, una Range Rover da centomila euro. Saliamo e sgommiamo via verso la nostra destinazione.
In macchina mi chiede se sono tesa. Gli rispondo che un po’ di tensione l’avverto. Ma non so se sia davvero tensione o emozione. In fin dei conti sono ancora nella fase dei provini. Niente di certo.
Arriviamo dopo dieci minuti. Siamo di fronte a un grande edificio, a più piani. Al pian terreno ci sono alcune attività, e due portoni molto grandi. L’uomo si toglie di tasca un telecomando, e a un tratto vediamo uno dei portoni che inizia ad alzarsi. Entriamo e l’uomo richiude il portone sempre attivando il telecomando.
Arriviamo in uno stanzone molto grande, in cui ci sono due divani, un letto e altri strumenti per pratiche sadomaso o BDSM, tutti disposti nelle varie zone dell’ambiente.
Passano alcuni uomini nudi che ci salutano. Due donne, in fondo, sedute su degli sgabelli, si stanno truccando di fronte allo specchio. Completamente nude anche loro. Pare che gli unici due vestiti, là dentro, siamo io e il produttore.
“Eccoci”, fa a un certo punto, “questo è parte del set. All’interno. Alcune scene verranno girate anche all’esterno. Scene in cui lei non sarà coinvolta”.
L’effetto che fa osservare un set porno del genere standone all’interno è quello di quando si visitano le gallerie d’arte moderna. Nell’insieme sembrano cose senza senso, ma poi, attraverso le inquadrature, i registi riescono a dare a esse il giusto significato. I letti, per esempio, sono inseriti in un contesto di camera familiare. Ovviamente, restringendo l’inquadratura, quello che si vede è una camera da letto qualsiasi.
Viene verso di noi un signore con la pancia, basso e con pochi baffi.
“Piacere, sono Billy, il regista”, si presenta.
“Piacere”, dico io. “Priscilla”.
“Bene Priscilla. Tu avrai un ruolo semplice semplice: dovrai fare la domestica, nella scena. Ti riassumo la trama del film, così, su due piedi”, fa. “In sostanza c’è questo figlio illegittimo di colore che è andato alla ricerca di suo padre, e lo trova. Il padre è un ricco possidente della zona. Quando lo vede arrivare, dà incarico alle guardie di imprigionarlo in una specie di scantinato. Stringo”, fa stringendo i pugni. “Tu saresti l’addetta a portargli del cibo. Sulla porta dietro cui è segregato c’è la più classica delle aperture (l’avrai vista in mille film) dove si passa il cibo. Solo che tu, quando scendi e ti accingi ad aprire lo sportello, Sebastian ci infilerà il cazzo e tu, passato un attimo di finto stupore, comincerai a succhiarlo. Intesi?”.
“Certo… Faccio. Tutto qui?”.
“Non propriamente. Il punto è che Sebastian ha un cazzo notevole, sui ventisei centimetri, per intenderci, e noi cerchiamo una ragazza trav che lo accolga in bocca almeno per venti, ventidue centimetri. Non è una cosa facile, lo so. Ha il cazzo grosso quanto un tuo polso, quello. Tu pensi di riuscirci?”.
Al momento non sapevo se dire sì o no. Ventidue centimetri in bocca? Non credo di averli mai presi completamente. O forse sì.
“Dovrei provare”, gli faccio.
“Appunto”, dice Billy, “siamo qui proprio per questo”. E un attimo dopo, rivolgendosi a un tizio con uno stuzzicadenti in bocca, fa: “È pronto Sebastian?”. L’altro gli risponde: “Ci siamo quasi”.
“È di là”, fa il regista, “con le succhiatrici. Deve raggiungere le dimensioni ottimali”.
“Capisco”, faccio esterrefatta.
Il produttore per tutto il tempo della chiacchierata è stato muto ed ha ascoltato.
Finalmente si fa vivo questo Sebastian. Cammina verso di noi segandosi la verga. Quando è vicino la guardo: una cosa fuori dal normale, sicuramente. Un cazzo enorme, esagerato. Lo tiene stretto in pugno: ha le mani grandi, ma le dita fanno appena il giro.
“Bene”, fa il regista, “proviamo allora”.
“Mettiti in ginocchio”, mi dice Sebastian.
Mi inginocchio e prendo l’anaconda in mano.
“No, non con la mano”, fa il regista, “nella scena devi usare solo la bocca. Niente mani”.
Sebastian avvicina il suo grosso cazzo alla mia bocca e me lo infila dentro. Poi comincia a spingerlo dentro il più possibile.
Sento che mi manca il fiato e sto per soffocare. Lo tira fuori. Ho un conato e dalla bocca mi esce saliva e, credo, succhi gastrici.
“Non ci siamo per niente”, dice il Billy.
Anche il produttore scuote la testa.
“Riproviamo”, dice a Billy. “Fa più piano”.
Io cerco di spalancare la bocca al massimo e ritraggo la lingua. Il cazzo entra, forse per metà. Lo tira fuori e lo spinge di nuovo dentro, ma la seconda vola sento che è molto vicino alla gola. Trattengo, a fatica, i conati, ma faccio degli sforzi, e lo stomaco sembra non reggere.
“Più di così non entra”, dice Sebastian.
“Okay”, fa Billy.
Lo tira fuori pieno di saliva che sgocciola a terra.
“Mi dispiace”, dice a quel punto il regista, “ma penso che non faccia al caso nostro”.
“Ho la bocca piccola”, dico. “Sono più accogliente dietro. Sono sicuro che mi entrerebbe quasi tutto”.
“Purtroppo la scena è quella. Per l’anal abbiamo altre comparse e Marilyn”.
Delusa mi alzo. Sebastian se ne va segandosi. A quel punto mi volto e vedo che alla porta c’è un’altra trav, una sorellina. Anche lei qui per un tentativo, di sicuro.
Saluto il regista e il produttore, e lascio il set. Mentre esco guardo la sorellina e le sorrido.
“Com’è?”, mi fa.
“Una cosa impossibile. È come ficcarsi in bocca il palo di un semaforo. E chi ci riuscirà mai”.
La vedo sorridere, mentre viene chiamata da Billy.


Una volta uscita da quella specie di garage ripenso alla sborrata dell’autista dell’autorimessa. Non era un granché come cazzo, ma aveva un buon sapore, anche la sborra, e mi sarebbe piaciuto assaggiarla di nuovo. Era logico che ero infoiata come una troia, perché comunque il cazzo di Sebastian mi aveva fatto bagnare le mutandine.
Cammino velocemente verso la fermata dell’autobus, sperando non sia già passato. Fortuna vuole che arrivi giusto nel momento in arrivo. Salgo. È piuttosto pieno. Resto in piedi. Mentre l’autobus parte sento una voce maschile dire: guarda quella. Subito dopo, un’altra voce maschile, rispondere: vai dai. Un attimo dopo sento un uomo dietro di me. Non mi volto, resto aggrappata al palo dell’autobus e guardo fuori. L’uomo dietro di me mi appoggia il cazzo sul culo. A giudicare da come inizia a strusciarlo, ce l’ha già duro. Quelli accanto non si rendono conto di cosa sta succedendo, perché lui mi sta proprio attaccato. La cosa mi eccita in maniera smisurata. Talmente tanto che sono costretta a scendere. Cosa che faccio appena dopo due fermate. Scendo. Ovviamente scendono anche i due uomini. Non so chi sono, non li ho ancora visti in faccia. Cammino svelta ed eccitatissima davanti a loro sui miei tacchi altri e dentro il mio vestitino corto. Ogni tanto volto la testa appena di lato e con la coda dell’occhio vedo che mi sono dietro, a una decina di metri di distanza. Svolto in un viottolo, lo percorro velocemente. Loro sempre dietro, parlottano. Chissà come sono, penso, cosa vogliono fare; io sto sbrodolando nelle mutandine. Posso essere a tal punto vacca? Così tanto da sperare che questi due sconosciuti mi scopino a dovere? Penso di sì. Anzi, sicuramente sì. Ad un certo punto sento che iniziano ad allungare il passo. In un attimo mi sono dietro.
“C’è un posticino qui”, dice uno dei due, camminandomi a fianco, “vieni con noi, dai”.
Senza dire nulla lascio che mi conducano in questo posto.
Ora li vedo. Sono due ragazzi, sulla quarantina. Uno sembra palestrato, l’altro solo robusto. Entrambi molto più alti di me.
“Sei sicuro di avere le chiavi di questo coso?”, domanda il palestrato.
“Certo che sì. Stavamo facendo le manutenzioni in questa zona la scorsa settimana e non ho ancora restituito le chiavi”, dice l’altro, armeggiando con un mazzo di chiavi. “Ecco, deve essere questa”.
Ci troviamo di fronte alla porta di una specie di deposito, anche se non riesco a capire di che deposito possa trattarsi. Provo un misto di paura ed eccitazione. I ragazzi non sembrano pericolosi, ma solo intenzionati a sbattermi come merito.
Il ragazzo robusto infila la chiave la gira. La porta si apre. Entriamo. Sempre il ragazzo robusto cerca l’interruttore della luce, perché dentro c’è buio pesto. Per fortuna lo trova. Ora riconosco l’ambiente. Sì, è un deposito, c’è un sacco di materiale elettrico, compresa l’attrezzatura di quelli che montano quelle grande antenne, i ripetitori, per le compagnie telefoniche.
Con me non parlano. Sono più intenzionati a fare che a parlare.
“E se arriva qualcuno?”, domanda il palestrato.
“Oggi non verrà nessuno qui. Fidati”.
“Speriamo”.
“In ogni modo li sentiremmo arrivare”.
“Mi fido di te”.
Io li guardo senza proferire parola. Loro mi rivolgono a malapena degli sguardi. Mi vedono più come un oggetto da usare, in questo momento. Un oggetto per il loro sfogo sessuale. In realtà penso che un po’ di imbarazzo lo provino, anche se riescono a mascherarlo bene parlando tra loro.
Quello più robusto comincia a togliersi i pantaloni. Resta in boxer. Ha un bel rigonfiamento.
Si avvicina e mi fa:
“Liberalo”.
Gli abbasso lentamente i boxer finché il cazzo non salta fuori a molla. Lo vedo fare effetto pendolo due, tre volte. È già bello duro e ritto e scapellato.
“Fammi sentire la lingua sulla cappella, troia”, dice.
Tiro fuori la lingua e la passo attorno alla cappella. Lui ha un sussulto. Il cazzo fa uno scatto all’insù.
“Che brava”, fa.
Galvanizzata e eccitatissima continuo a leccargli la cappella, senza affondare il cazzo nella bocca.
Quello palestrato, dietro, intanto, mi ha sollevato il vestito e mi sta palpando il culo. Ha abbassato i pantaloni anche lui ed è in sega a cazzo duro.
“Infilzala, dai”, lo sprona l’amico.
Sento che mi tira giù le mutandine; poi sputa sul mio buchetto. Ora è alle prese con il preservativo. Io intanto continuo con il mio lavoro di lingua. Quello robusto sta godendo come un maiale.
Quello dietro infila due dita nel mio buco. Poi appoggia la punta del cazzo. Un attimo: è dentro.
“Wow”, fa. “una meraviglia ‘sto culo. Meglio di una fica”.
Quello davanti mi dice di aprire la bocca e tirar fuori la lingua. Poi comincia a sbattermi il cazzo sulla lingua.
“Senti come me lo hai fatto diventare, puttana”.
Io, soddisfatta, sorrido e lo guardo.
“Sì, voglio che mi guardi mentre ti sbatto il cazzo sulla lingua”.
Intanto il ragazzo dietro ha cominciato a darci dentro. Pompa senza pietà. Sto sbrodolando come una troia. Gli dico di non fermarsi, che voglio sentirlo dentro fino alle palle.
“Tutto dentro, sì, troia. Tutto”, dice lui.
Il robusto mi sbatte il cazzo in bocca e mi tiene la testa, in modo da bloccarmela. Ho il suo cazzo fino in gola, ma a differenza di quanto accaduto con Sebastian, non ho conati. Non ha un cazzo enorme, questo, però è bello grosso, eppure sento che posso tenerlo in bocca a lungo, almeno finché non mi manca il respiro.
Lo tira fuori e sputo; subito me lo sbatte dentro di nuovo e inizia a scoparmi la bocca con foga.
Il palestrato ha rallentato il ritmo, forse per non venire prima del dovuto. Io lo incoraggio ad aprirmi il culo.
“Non ne hai abbastanza, eh, razza di troia”, dice, e riprende a darci dentro con forza.
A ogni colpo mi trema il culo e sento vibrare lo stomaco. In quel momento, il ragazzo robusto tira fuori il cazzo dalla mia bocca, indietreggia appena, si prende il cazzo in mano e mi guarda. Un attimo dopo inizia a pisciare. Un getto preciso, a pressione, al cento della mia fronte: sento la piscia calda schizzarmi dappertutto: praticamente mi sta inondando la faccia.
“Ti piace, eh, la piscia calda?”, andando avanti a urinare.
Annuisco con il capo. A terra ha fatto un lago.
“La stai annegando”, scherza il muscoloso.
“Guarda come se la gode, la troia. Porcella”, fa l’altro.
Io sorrido.
Quando ha finito chiede il cambio. Fa segno al muscoloso di levare gli strumenti sopra a un tavolone di legno. L’altro li mette a terra a uno a uno velocemente. Poi mi solleva e mi fa sdraiare sul tavolo di legno. Il muscoloso decide di fare il sacchetto, cioè di calarmi le palle in bocca, da sopra, e segarsi mentre io gliele succhio, mentre l’altro, dopo essersi messi il condom, mi infila il cazzo nel culo senza pietà.
“Cavolo, veramente accogliente”, dice, rivolgendosi all’amico. “Avevi ragione”.
L’altro ride, mentre si sega.
Io, con le palle in bocca, ho un orgasmo di culo. Sono talmente eccitata che ho le convulsioni.
“Guarda come gode, la troia. Ti piacciono i miei coglioni, vero?”, mi dice.
Io mugugno qualcosa, con le sue palle in bocca.
Cinque minuti dopo informa l’amico che sta per venire.
“Anch’io”, gli risponde l’altro.
Allora fa il giro del tavolone di legno e avvicina il cazzo alla mia bocca. Ora li ho sopra di me, tutti e due i cazzi, pronti a esplodere. Se ne vengono quasi in contemporanea, schizzandomi in bocca il latte caldo. Il robusto ne ha di più, almeno due fiotti di distacco.
Ho la bocca piena di sborra, ma fatico a mandarla giù, sdraiata, così mi tiro su, a libro, e sento l’altro che gli dice:
“Quanto cazzo è che non sborravi. Le hai riempito la bocca”.
“Da una settimana”, fa sapere l’altro.
Mando giù una buona quantità di sborra.
I due intanto si rivestono.
“Soddisfatta puttana?”, mi chiede il robusto.
“Sì”, dico, “grazie”.
“Non c’è di che, troia, se passi di qua un’altra volta ti daremo la seconda razione di latte”.
I due sorridono.
“Dai che andiamo”, fa il robusto, “che devo chiudere”.
Mi do una ripulita veloce e usciamo.
“Be’”, dice il palestrato, “alla prossima. Sei stata brava”.
E se ne vanno. Li guardo camminare verso la strada. Sono a piedi. Ho bisogno urgente di un taxi per tornare a casa. Basta autobus.


I giorni successivi continuo a pensare all’uomo del carroattrezzi. Penso e ripenso a quei momenti sul camion. A un tratto vado allo specchio, mi guardo e mi dico: Priscilla, non ti sarai mica innamorata, scema. Eppure temo proprio che sia così. Mi piaceva tutto di lui, la sua pancetta, il sapore della sua sborra, persino il suo cazzo minuto. Ma pensa te, mi dico, con tutti i cazzoni che ti sei fatta, ti vai a invaghire con uno con un cazzo così piccolo. Che poi non era piccolissimo; è che per i miei standard non era propriamente un granché. Credo dodici, tredici centimetri. Ma era bello; mi era piaciuto vederlo spuntare dai pantaloni. Ma ora, che fine aveva fatto quell’uomo?
Fortuna volle che in quell’autorimessa ci fosse anche l’officina. Infatti fui contattata proprio da lui tre giorni dopo. Al telefono la sua voce era ancora più roca e virile che dal vero. Sentivo il cuore in gola, mentre mi informava che la mia macchina non aveva niente di che, era soltanto la batteria a terra ed era stata sostituita dal meccanico. In buona sostanza potevo andare a prenderla quando volevo. C’erano, come ovvio, da pagare tutte le spese, ma quello è ciò che mi preoccupava di meno.
Nel pomeriggio mi reco in taxi all’autorimessa. Scendo ed entro.
Lui mi saluta e mi fa vedere dov’è parcheggiata la mia macchina.
“Oh, grazie, dico. Quando le devo”, aggiungo.
“Be’, devo ancora fare il calcolo, in realtà”, mi dice. Adoro quel suo sguardo da falso ingenuo. “Ma andiamo nell’ufficio, lo faccio subito”.
Entriamo nel suo ufficio. Si siede e inizia a fare dei calcoli con la calcolatrice.
“Sono 250 euro”.
“Porco cane”, impreco.
“Eh, lo so, ma ci sono i costi del trasporto, la chiamata, la batteria di ultima generazione…”
“Certo, certo, non sono qui per sindacare”, taglio corto.
“Come intende pagare, contanti o bancomat?”.
Lo guardo e sorrido.
“Posso chiederle una cosa?”.
“Ma certo. Quello che vuole”.
“L’altro giorno, le è piaciuto davvero?”.
Rimane immobile, quasi paralizzato per un attimo.
“Certo che sì, che domande”.
“Allora perché ci stiamo dando del lei, quando ci eravamo detti che potevamo darci del tu?”.
“Bo’”, fa lui, pensandoci. “Hai iniziato tu”.
“Perché pensavo che ci fosse altra gente qui fuori”.
“No, per fortuna oggi non c’è nessuno”.
“In che senso ‘per fortuna’”.
“Nel senso che… no, niente… ho detto una cosa senza senso”.
“No, no... Secondo me no. Forse è perché nascondi a te stesso che vorresti stare un po’ con me”.
“Certo che sì”, fa, alzandosi, “sei una bella fica, dopotutto”.
“Ti ringrazio. Sei gentile”.
“Fai venire il cazzo duro tu. A tutti, immagino”.
“Be’, non proprio a tutti. A chi voglio, diciamo”.
“A me lo hai fatto venire duro. Lo volevi?”.
“Sì, a te sì, perché ti voglio”.
Mi abbasso e gli apro la patta dei pantaloni.
“No, no, un attimo”, fa. “Aspetta che abbasso le veneziane. Se arriva qualcuno e ci vede?”.
Va verso la vetrata e abbassa le veneziane. Poi chiude la porta a chiave.
“Così va meglio”, dice, mentre io ritorno ad occuparmi della sua patta. “Aspetta, li levo”, mi fa, abbassandosi i pantaloni.
Indossa un paio di mutande da uomo vecchio stile. Del resto è un signore sulla sessantina con mutande da signore sulla sessantina, che a dire il vero a me attizzano parecchio.
Gliele abbasso. Non ha il cazzo in tiro. Anzi, direi che è ancora abbastanza moscio. Ma forse è per via della tensione.
Glielo slinguazzo un po’, tirandolo su con la lingua, mentre lo vedo crescere. Poi me lo infilo tutto in bocca, aspettando che ci cresca dentro.
La cosa fa effetto, perché gli si inturgidisce più velocemente di quanto immaginassi.
Glielo spompino per una decina di minuti e gioco con le sue palle.
“Sto per venire”, fa. “Aspetta”.
Mi fermo. C’è un bicchiere di plastica sopra la sua scrivania. Vedo che lo prende.
“Non posso sporcare qui… Caz…”, continua, “ahhhh, sborrooo”, mentre io gli massaggio i coglioni.
Sborra, quatto fiotti dentro il bicchiere, centrandolo con grande maestria.
“Che effetto mi fai”, mi dice, non appena ha finito.
“Ho visto”, gli faccio, sorridendogli.
Poi vedo che va verso il cestino cercando di buttare il bicchiere.
“No, fermo”, gli dico, “dallo a me”.
Mi guarda sorpreso. Credo non abbia capito.
Gli strappo il bicchiere dalle mani e lo alzo sopra di me, tiro fuori la lingua e lascio colare la sborra nella mia bocca. Lentamente, lo vuoto tutto e ingoio.
“Santo cielo, che troia”, mi dice. “Mai vista una maiala come te, giuro”.
Gli restituisco il bicchiere vuoto e cerco di avvicinarmi a lui per bacialo.
Si ritrae e mi guarda male.
“Che intendi fare?”.
“Credo di essermi innamorata di te”.
“Ma io sono sposato”, mi fa.
“Lo immaginavo”, dico io. “Ma potremmo comunque vederci, ogni tanto. Hai il mio numero. Puoi chiamarmi quando vuoi”.
“Che sciocchezze vai dicendo”, fa lui brutale. “Non posso avere una relazione extraconiugale con una trav. È già stato un grosso rischio fare questo qui. Figuriamoci se la cosa può proseguire”.
Lo guardo, delusa.
“Sei cattivo con me, ma apprezzo la tua sincerità. Come vuoi, pago in contanti, ecco qua”, appoggiando i 250 euro sul tavolo.
“Ti faccio uno sconto, dai. Facciamo 200, e non se ne parla più”, restituendomi i 50 euro.
“Così, però, mi offendi”, gli dico. “Io non ho bevuto la tua sborra per risparmiare 50 euro, ma perché mi piaci e tanto e perché pensavo… ma lasciamo stare, è meglio”, aprendomi la porta dell’ufficio e uscendo.
“No, aspetta”, lo sento dire, “non volevo dire questo”.
Ma ormai sono già fuori, diretta alla mia macchina.
Forse l’amore non fa per me, non fa per Priscilla. Forse è stato tutto un errore, penso, mentre ingrano la retro. Forse sono una svuota cazzi e basta, come è giusto che sia.











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