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SISSY SI', MA NON PUTTANA


di La_Lilla
08.10.2022    |    7.110    |    6 9.8
"“Non te ne andare”, mi fece nel tentativo disperato di trattenermi, “ho bisogno di una Sissy”..."
Nel luglio di quell’anno mi innamorai perdutamente e stupidamente (ma questo lo riconobbi solo molto tempo dopo, come sempre) di un uomo maturo che voleva fare di me la sua Sissy.
(Voglio solo dire, prima di cominciare il racconto, che quest’uomo era un uomo in primo luogo galante e, in secondo luogo, di cuore, nel senso che mi aiutò in un momento di difficoltà, anche economica).
Lui diceva di essersi perso per me e che voleva assolutamente diventare il mio padrone. La cosa all’inizio mi impaurì un po’, ma in seguito capii che non c’era nulla di male nella sua proposta: si trattava di una cosa tra noi, di un modo di vivere il nostro rapporto in un modo del tutto originale.
Quest’uomo si chiamava Mike, aveva sessant’anni, allora, e un fisico tonico, sul genere robusto, tipo bull. Quando andai a vivere a casa sua (ci rimasi per ben sette mesi, tra i vari spostamenti), la prima cosa che mi chiese di fare, se volevo diventare una Sissy servizievole come desiderava lui, era mettermi la cintura di castità; sì insomma, la gabbietta, per intenderci. Io non obiettai; era un suo desiderio ed effettivamente se volevo essere Sissy a tutti gli effetti da quel giorno in poi avrei dovuto dimenticarmi delle erezioni.
(Dirò, qui, che non l’avevo mai provata prima, quindi non sapevo l’effetto che poteva fare sul mio corpo, né se sarei riuscita a tenerla a lungo come lui, certo, voleva, ma provai, anche per curiosità e perché, del resto, non avevo altra scelta se volevo restare con lui, e lui mi piaceva, parecchio).
La acquistò lui, personalmente, e, sempre personalmente, me la mise chiudendola a chiave.
“Questa”, mi fece dondolandomela davanti agli occhi, “la terrò io”.
Non dissi nulla, allora, e mi sembrava giusto: si indossa per non cadere nella tentazione… che ne so, di masturbarsi; ma io onestamente non avevo mai avuto problemi a venire di sfintere, quindi la cosa mi fregava fino a un certo punto.
I problemi, quelli veri, vennero quando dovevo uscire, perché non uscivo en femme: nasconderla non era tra le cose più semplici del mondo, così ne parlai con lui.
“Un Sissy”, mi disse (ricordo ancora perfettamente le sue parole), “dovrebbe uscire sempre con gonne o vestitini, non con i pantaloni”.
Mentre me lo diceva mi stava legando i polsi alla spalliera del letto con due corde. Poi mi legò anche le gambe, fissandole a pioli agli angoli.
“Ma non me la sento di uscire vestita da donna”, gli dissi chiaro e tondo.
Lui si mise sopra di me e con il frustino mi frustò il petto.
Lanciai un gridolino di piacere.
“Prendi pantaloni larghi, non se ne accorgerà nessuno”, continuando con la frusta.
“È quello che faccio. Sembro un hippy vestita così. In ufficio la gente mi guarda storto”.
“Se ne faranno una ragione”, mi disse, e poi mi mise una di quelle maschere che si allacciano dietro la testa con una cinghia e sul davanti hanno una grande bocca carnosa che ti impedisce di chiudere la tua.
Quella sera passò un’ora e mezza a scoparmi la bocca. Alla fine ero così sfinita che mi addormentai con le gambe allargate.
Al mattino, quando mi svegliai, lui non c’era più, ma mi aveva slegata e coperta e aveva lasciato un biglietto sul suo cuscino.
SAI CHE TI AMO, c’era scritto, E NON POSSO STARE SENZA DI TE.

In quel periodo andavo anche dallo psicologo e in un certo senso gli feci capire la mia situazione. Lui mi chiese se la cosa mi rendeva felice e io gli dissi di sì, che stavo bene, però non ero capace di gestire l’imbarazzo di fronte agli altri.
“È più che normale quello che prova”, disse lui, “lei sta vivendo un’intensa storia d’amore basata sulla possessione. Deve accettarne le conseguenze”.
In strada, una volta uscita dallo studio, pensavo che la gente mi guardasse in mezzo alle gambe per capire cosa nascondevo, ma era ovvio che si trattava soltanto di una mia impressione; avevo paura, però, di soffrire per questa cosa, o addirittura di ammalarmi.
Ne riparlai con Mike, il quale mi disse di stare tranquilla, che nessuno si sarebbe mai accorto che indossavo la gabbietta, e che dovevo essere felice di vivere una situazione simile, che molte altre trav come me avrebbero pagato per trovarsi al posto mio. Io annuii; in un certo senso era vero. Quando ne parlai con Lina, lei mi disse che dovevo essere fiera di me stessa, perché avevo raggiunto “il culmine della sottomissione e della troiaggine”, e che lei era alla ricerca di qualcosa di simile. Anche lei, come Mike, mi disse di indossare abiti larghi, abbondanti, di due taglie in più, “tanto”, aggiunse, “adesso va di moda vestirsi così”.
Passarono due mesi ma l’imbarazzo, quando andavo in giro, invece di scemare piano piano, sembrava aumentare. Un giorno, di fronte al mio commercialista, accavallando le gambe, cacciai un urlo mica male.
“Che succede”, mi fece, “stritolati i gioielli? Succede spesso anche a me”, e poi rise.
“Più o meno”, dissi, però lui capì che c’era dell’altro.
La cosa finì lì e tornai a casa. Quella sera, in una stanza che teneva appositamente per i suoi giochi, tipo Grey, quello di 50 sfumature di grigio, mi appese a delle corde che andavano fissate sul sotto coscia e gli avambracci. Praticamente alla fine delle operazioni io restavo sospesa in aria, appesa come un salame, e in quelle occasioni Mike chiamava anche dei suoi amici, per usarmi in compagnia.
In sostanza si mettevano attorno in quattro e mi giravano, come in una giostra, ogni volta che giravo mi trovavo davanti un cazzo nuovo e nel culo ne avevo uno di diverso. Si servirono di me facendomi godere come un cagna per tre ore.
Quando Mike, una volta che i suoi amici se ne furono andati, incominciò le operazioni di sganciamento, mi disse che ero stata brava, che ero la sua Sissy obbediente e che era sempre più innamorato di me.

Un mese dopo lasciai il posto di lavoro in cui avevo lavorato per dieci anni e io e Mike traslocammo in una grande città, portandoci appresso tutti gli attrezzi del mestiere, che Mike si premurò di sistemare in una nuova stanza “del piacere”, come la chiamava quello là.
In quella grande città, libera da impegni lavorativi, cominciai a stare meglio, a sentirmi più me stessa e a prendere coraggio, tanto che iniziai con le prime uscite en femme, di sera, soprattutto, ma poi anche di giorno. Facevo brevi camminate intorno all’isolato, e vedevo che i maschi mi guardavano e avevano quello sguardo da porci che diceva: “Ti scoperei, puttana”.
Un giorno mi si avvicinò un ragazzo e mi mise la mano sul culo. Gli dissi di non farlo più, che il mio padrone era severo, e che avrebbe dovuto vedersela con lui, poi. Ricordo che, con gli occhi fuori dalle orbite, mi disse: “Il tuo padrone? Ma stai scherzando?”.
Aveva ragione. Forse la cosa stava andando un po’ oltre.
Mike, intanto, si era fatto nuovi amici, e ogni tanto li portava a casa e mi faceva scopare con loro mentre lui, nell’altra stanza, davanti alla tivù, fumava sigari e beveva scotch.
Poi, un giorno, capii che non erano affatto suoi amici, che nessuno di quelli che mi portava a casa erano suoi amici, e lo capii perché chiesi a uno di loro da quanto tempo conosceva Mike, e la sua risposta fu: “Mike? E chi lo conosce ‘sto Mike?”.
Tutto mi fu chiaro: Mike contattava della gente, forse in chat, forse mettendo annunci, e si faceva pagare per le mie prestazioni. Infatti, quando ci trasferimmo a Milano, era sempre a casa, e quando gli chiedevo come andava il suo nuovo lavoro, si inventava sempre scuse assurde e strane, tipo che era in smart working o che era entrato nel mondo dell’alta finanza ed era diventato un broker. Tutte balle, perché era spesso ubriaco e fatto, e io non lo riconoscevo più. Lui non era il Mike di cui mi ero innamorata, non lo era più, no, e probabilmente non lo sarebbe più stato.
Gli dissi tutto questo un giorno quando mi presentai a cena vestita da uomo e senza gabbietta.
“Che cazzo credi di fare, troia! Tu sei la mia Sissy”.
“Non più, Mike”, feci io, perentoria.
“E come cazzo hai fatto a levarti la gabbietta!”, chiese, furioso.
“Sono anni che lasci le chiavi in giro. Anni. Ho sempre fatto finta di non vederle, Mike, perché mi fidavo di te, della nostra storia, di quella cosa meravigliosa che stavamo vivendo; io, la tua Sissy, la tua troia, la vacca pronta a servirti... E invece ho scoperto che hai fatto di me non una mignotta d’alto bordo ma un puttana da strada qualsiasi, una che di ti fa guadagnare soldi… Tutte cose che io non sono e non voglio essere, capito?”.
Rimase pietrifica dopo queste mie parole. Poi mi alzai (avevo già preparato le valige e andai a prenderle), tornai da lui e gli dissi soltanto: “Addio, trovati un’altra puttana che ti mantenga, non io”.
Lo vidi piangere. Dico sul serio. Era la prima volta. Forse era giù di morale pure lui, o ubriaco. Lo era spesso, ultimamente.
“Non te ne andare”, mi fece nel tentativo disperato di trattenermi, “ho bisogno di una Sissy”.
“No”, gli dissi prendendo la porta e andandomene, “tu hai bisogno di diventare un uomo, Mike. Un uomo”.
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