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Lui & Lei

Sverginità: "Barbara"


di renart
05.01.2017    |    7.105    |    1 9.7
"Fallo subito e non chiamerò la polizia, te lo prometto”, dice cercando il mio sguardo negli ovali del passamontagna..."
Da quella prima volta a casa sua, rivedo Sonia con regolarità. È lei a dettare tempi e modalità di incontro e, poi, situazioni ogni volta diverse in cui accoppiarsi con quanta foga e animalità i nostri corpi riescano a sprigionare. Io eseguo, da buon adepto, riconoscente per l’estasi che le sue carni riescono a darmi. Ma sono i periodi di inattività sessuale che mi devastano. Sono sempre arrapato e Sonia di media mi reclama 3-4 volte a settimana, quindi i rimanenti giorni li trascorro a scorticarmi l’uccello sul letto, ripensando ai nostri incontri, immaginando i successivi e consumando avidamente pornografia sul web, come è il caso di questa tarda mattinata di inizio luglio in cui, seduto alla scrivania, sfatto per il caldo, scelgo il video di una bionda ossigenata con un gran paio di tette appena cascanti, un culo da puledra da monta e una fessa così pelosa da poterci fare una sciarpa. Il suo manzo è un ragazzo tra i 25 e i 30, di una quindicina d’anni più giovane, una calvizie precoce e incipiente e l’aria allampanata su un corpo segaligno, così emaciato che la camicia gli sta addosso come su una cruccia e senza, come appurerò a breve, gli si vedono le costole come in una radiografia, ma con un bigolo fra le cosce da porto d’armi. La trama è semplice, scontata come richiesto in un porno, come del resto il titolo del cortometraggio: Colloquio di lavoro. Nella prima scena la donna è seduta alla scrivania, occhialini da manager rampante sul naso in perfetto pendant col viola della giacca, aperta su un top bianco col collo arricciato dalle cui trasparenze una panoramica appropriata rivela la pienezza florida di un paio di bocce che rimandano immediatamente, per associazione di immagini, all’idea di un ricovero lussurioso per uccelli in calore, dei quali un degno rappresentante non tarda a bussare alla porta. Avanti, risponde la donna, a malapena alzando lo sguardo da una cartellina azzurra, Prego, chiuda la porta e si accomodi, aggiunge poi, quando la sagoma del ragazzo ha fatto capolino nello studio. Dunque, prosegue la direttrice del personale, lei è il signor La Mazza, e lo squadra da sopra le lenti con uno sbatter di ciglia da leopardona che subito me lo intosta. Mi accendo una sigaretta e mi calo le brache alle caviglie – una zaffata di sperma secco mista all’esalazione ormonale mi aggredisce le narici e m’infoia ancor di più, una foia animale, di bestia selvatica arrapata - mentre la milfona interroga l’esaminando sulle sue esperienze lavorative più recenti. Il tizio, nei fatti addirittura più svagato di quello che già l’espressione abbondantemente suggerisce, sembra non avere grande familiarità col lavoro e non ha nemmeno idea della finalità cui mira il colloquio che sta sostenendo, come se avesse sbagliato posto, cosa che non sfugge alla scafata esaminatrice che, davanti alla scena imbarazzante dell’asino in mezzo ai suoni, come si dice, decide di alzarsi e mostrarsi in tutta la sua silhouette, fasciata nella gonna che completa il tailleur, particolarmente indicata ad esaltare l’opulenza sinuosa dei fianchi. Sotto lo sguardo lesso del ragazzo, in bilico sui tacchi a spillo, la donna si concede una breve passerella costeggiando, e sculettando con ostentazione, il lato più breve della scrivania – di un comune campionario di ufficio – per poggiare infine il barocco deretano sul lato lungo, quasi di fronte al demente, che nel frattempo ha allentato di un bel tot il giro di vite della mascella che ora gli penzola come un arto in necrosi imbarcando aria. Allora, signor La Mazza, possiamo passare adesso alla parte pratica del colloquio, per valutare concretamente l’eventuale idoneità, annuncia la gattona con fare malizioso, incrociando le braccia sotto alle tette, si alzi, grazie. Il giovane riacquista per un momento il controllo sulla sua mascella, deglutisce, poggia entrambe le mani sui braccioli della sedia e si tira su, acquistando la sua naturale postura sbilenca. Slaccia la patta e tiralo fuori, intima subito dopo, passando bruscamente al tu - segnale inequivocabile della volontà dominatrice che converte la distanza formale ma orizzontale in distanza verticale, in cui i ruoli del vertice e della base sono netti e definiti –, quindi si accomoda meglio sul ripiano della scrivania in modo da avere l’agio di accavallare le gambe, operazione che richiede la risalita dell’orlo della gonna che scopre le autoreggenti bianche strette intorno alla carne abbronzata delle cosce. A questo punto, comincio a menarmelo lentamente, ciucciando contemporaneamente la sigaretta. Ad ogni modo, il tipo, mostrando un comprensibilissimo impaccio, esegue l’ordine e il membro, non ancora eretto ma a barzotto, gli penzola dalla patta aperta come la proboscide di un cucciolo d’elefante. Da erudita della materia in questione, la donna si accomoda meglio gli occhialini sul naso e scruta l’attrezzo con scrupolo e attenzione, come se dall’insistenza del suo sguardo ne dipendesse la lievitazione. E in effetti, l’inquadratura del regista sembra cogliere per un attimo il fremito che percorre la carne pubica, ma immediatamente stacca sulla donna che riprende a parlare e, con velato sarcasmo, lascia intendere al giovanotto che così non si va da nessuna parte, che se pure la sostanza sembra esserci in potenza occorre che si tramuti in atto, altrimenti può anche ritirarsi e lasciare il posto a qualcun altro. Ma il ragazzo è giovane, inesperto, timido e imbarazzato, per cui la donna, finora squalo, è colta dal senso materno, rabbonisce i toni, ammorbidisce le parole e conviene che forse il pivello abbisogna di un piccolo stimolo, per così dire, allora gli sorride e tira la gonna su fino al pelo, la cui ombra incombente è più che evidente dalle trasparenze dell’intimo. Il salsicciotto, dotato di un’intelligenza tutta sua, a quella vista sembra essere colto da una scarica elettrica e balza su a scossoni, come i bracci di quelle lampade IKEA che per stendersi del tutto hanno bisogno di diversi passaggi. Bene bene bene, squittisce soddisfatta la giunonica chaperon, cominciamo ad intenderci. Quindi si stende sulla scrivania, tira su le gambe, dando visione di un culo grosso e tondo, anch’esso integralmente abbronzato come le cosce, e sfila il perizoma di pizzo in coordinato con le autoreggenti, per poi rimettersi seduta con le gambe aperte, in modo che la passera sia del tutto visibile. E anche in questo caso l’effetto è immediato, e il cazzo ha un altro scossone che gli dà la forma e la consistenza dell’obelisco dell’Immacolata. Incremento il ritmo della raspa, incollando lo sguardo su quest’ennesima versione dell’Origine, che mi sembra un grosso fiore carnivoro dalle labbra rosa già spalancate, pronte a fare un boccone della sua dose di carne dura. Ma intanto la donna si è tolta la giacca, scoprendo le spalle nude, slaccia il fiocco viola intorno al collo e sfila dall’alto anche il top, il cui bordo intoppa per un attimo sul seno lussureggiante, che si alza di un tot e nel ricadere rimbalza pesante un paio di volte su se stesso, trasmettendomi una scarica erotica che immediatamente si trasferisce alla mano destra, determinando un ulteriore aumento di velocità del saliscendi, e allo stesso tempo, come per osmosi, quello stesso movimento tellurico di carne percuote il cazzo del fortunato co-protagonista della sequenza, che si morde il labbro strabuzzando gli occhi e prende l’iniziativa di stringersi il coso nel pugno, menandoselo lentamente a sua volta. Poi tocca alla gonna, e per toglierla questa dea dell’abbondanza scende dalla scrivania, porta le mani dietro la schiena e tira giù la lampo, dimenando i fianchi per favorire la discesa dell’indumento lungo la superficie delle cosce e inclinando gradualmente il busto in avanti, così che le grosse mammelle, ornate di areole larghe e rosa sulle quali troneggiano capezzoli sugli attenti come soldatini di piombo, prendono a ballonzolare nel vuoto gravitazionale come caciocavalli blanditi da un leggero zefiro primaverile. Sto quasi per venire, allora rallento, prendo fiato, spengo la cicca nel guscio di cocco che funge da posacenere, mi concentro su altri dettagli, tipo lo scarno arredamento della stanza, il ficus alla sinistra della finestra, con i vetri oscurati da orribili veneziane gialline, lo schedario sulla destra, una stampa degli Orologi Molli di Dalì alla sinistra dell’ingresso, sopra il divanetto a due piazze di velluto blu. Niente altro, a parte la scrivania e le due sedie utilizzate dagli attori. Quando il flusso di sangue nella vena centrale dell’uccello rallenta le pulsazioni, ritorno sulla donna, che adesso è di nuovo seduta sulla scrivania, con le gambe aperte e le braccia stese all’indietro, così da reggere l’inclinazione del busto, con le tette che si sono leggermente divise, andando una a destra l’altra a sinistra, tuttavia lasciando il solco ancora piuttosto stretto, così da non mollare nemmeno per un istante l’idea madre che nasce non appena lo si vede. Indossa soltanto gli autoreggenti, adesso, e le scarpe, della stessa tonalità del tailleur e degli occhiali (ancora al loro posto). Spogliati, ordina, e il ragazzo obbedisce, slaccia prima la camicia, denudando il tronco rachitico, poi si libera dei mocassini e dei pantaloni, palesando gambe magre e gracili, che sembrano lì lì per spezzarsi in due, maculate di peli a chiazze, come piccoli cespugli sparsi qui e là su un monte brullo, infine sfila gli slip, mostrando alla telecamera un culo incredibilmente piatto e senza polpa, dal cui solco fa capolino una vegetazione pelifera non propriamente estetica, del tutto simile a quei ciuffi d’erba secca che spuntano tra gli interstizi delle mattonelle sui marciapiedi mal manutenuti. Insomma, la sola parte vitale in quell’uomo è concentrata tutta sul davanti, coagulata intorno al suo cazzo duro e grosso, incredibilmente grosso, come se un membro equino fosse stato avvitato al suo ventre incavato da una natura scherzosa e bizzarra. Nudo come un verme, con la sola eccezione di osceni calzini di spugna ai piedi, il giovane La Mazza, le spalle aguzze un po’ curve, le gambe arcuate e l’arco del cazzo teso allo spasimo e vibrante come un diapason, resta immobile in attesa, squadrato in lungo e in largo dalla matrona, che intanto si rovista distrattamente fra la selva pubica, ghermendone i riccioletti, e che alla fine, posando lo sguardo sulla parte che conta e non trattenendo di umettarsi le labbra prefigurando un seguito elettrizzante, gli intima di leccargliela. Un ordine secco, perentorio, come la frustata di un addomesticatore da circo: leccamela. Il gonzo si fionda come un sanbernardo verso il centro delle cosce della donna, che lo favorisce alzando le gambe il necessario per accoglierne la testa, che subito avviluppa nell’abbraccio delle cosce, piantandogli le punte dei tacchi tra le scapole, che sembrano voler bucare l’esile strato di pelle che le riveste. La macchina da presa trova l’angolo giusto e restringe il campo sulla lingua saettante fra le grandi labbra rosa acceso, il pollice che stana il clitoride fra il pelo fulvo e lo solletica forte, fino a farlo gonfiare e rizzare come un pistillo, il medio dell’altra mano che si apre un varco nel bocciolo e comincia a pompare allo stesso ritmo delle corpose slinguazzate, sulle quali anch’io modulo la velocità della mia sega. E ci sono quasi, infatti devo rallentare di nuovo, stringendo forte il cazzo alla radice, per bloccare l’orgasmo. Accendo un’altra sigaretta, aspiro avidamente calmando le pulsazioni del cuore e ritorno sulle immagini. Il cunnilingus continua senza soluzione di continuità e produce l’effetto inevitabile, con lei che mugola forte, oramai del tutto stesa con la schiena sulla scrivania, con la testa ciondoloni nel vuoto e le dita che arruffano i radi capelli del leccatore, dai quali, come mostra un impietoso fotogramma, si librano in aria pulviscoli di forfora. Aaaaaaahhhh, grugnisce ad un tratto la donna, sbattimelo dentro, voglio il tuo cazzo, scopami fooorteee. La Mazza non si fa pregare, si tira su, con le caviglie della figona che rimangono sulle sue spalle da uccellino, così che la potta, aperta al massimo grazie al lungo lavorìo di lingua, si trova giusto in corrispondenza del suo cazzo che, dopo averne inumidito la cappella contro l’interno delle labbra stillanti miele come da un favo, insolca d’un colpo in quell’andito molle fino alla matrice, e comincia a fottere con decisione, abbracciato alle cosce muliebri per garantirsi una spinta ottimale del bacino, con le tettone che sobbalzano ad ogni affondo, mentre lei rivolta gli occhi all’indietro e spalanca la bocca, come se tra le fauci dovesse accogliere un altro grosso transito tipo quello che la sta penetrando così profondamente da sentirlo nello stomaco, ed esala grugniti rochi e lussuriosi che mi mandano in pappa il cervello e che mettono il turbo alla mia mano, che ora sale e scende sull’asta dura come un manicotto sul pistone lanciato a pieni giri. La telecamera gira lentamente intorno ai due, riprendendo la chiavata da diverse angolazioni e attardandosi, non so perché, sulle chiappe senza ciccia del fottitore, che si aprono e si stringono come un vecchio mantice, ogni volta che il manganello esce e rientra, poi inquadra dal basso i coglioni gonfi che si schiantano contro il sesso della donna, come marosi rigonfi di tempesta che schiaffeggiano una scogliera, quindi risale su e riempie l’obiettivo, vivaddio!, delle morbide e sinuose grazie della femmina in calore, e sulle espressioni deformate del suo viso, zoomando sulla bocca e sugli occhiali, che hanno perso la centratura e ora sobbalzano sghembi, infine il regista conclude la sequenza immortalando il primo piano di La Mazza, le palpebre calanti e la mascella ciondolante, un filo di bava all’angolo destro della bocca e la lingua fuori, come quella di un cane assetato. La situazione – la mia, intendo – precipita al cambio di posizione, quando lei si tira su (mostrando, nell’atto di quell’addominale, tre rotolini di adipe, tre piccole onde di carne che mi mandano in orbita), scende dalla scrivania, si volta e, chinandosi ad angolo retto e poggiandosi con i gomiti sul ripiano del tavolo, offre il suo immenso culo, saldato alle cosce sode e rotonde come colonne di un tempio greco, al giovane che, rimasto orfano del caldo anfratto evidentemente un pelo di troppo, arpiona frenetico i floridi fianchi da giovenca, spinge sull’esterno la presa di carne, così che il solco si allarga mostrando la striscia di pelo che unisce, come un sentiero francigeno, il buchetto grinzoso del culo alla sorca ammiccante, e vi affonda di nuovo dentro, schiantando con più foga ancora il suo ventre contro le chiappe michelangiolesche, producendo uno ciaf ciaf che mi manda in deliquio. Non può durare molto così, sento montare nelle viscere l’orgasmo come albume, non rallento il ritmo della mano, devo assolutamente sbrodare adesso, mi mordo il labbro inferiore nel momento in cui la donna porta una mano fra le cosce e, urlando come un’ossessa, si sgrilletta il clitoride freneticamente mentre il mandrillo sgancia la morsa dalla chiappe e si stende sulla schiena della puledra che sta montando a velocità costante, come un metronomo del cazzo, abbarbicandosi forte alle mammelle e stropicciandone i turgidi capezzoli fra gli indici e i pollici. È qui che schizzo, urlando, pallettoni di sbrodo denso che si schiantano un po’ sulla pancia un po’ sul monitor del pc, colando lungo i fianchi femminei e addensandosi sulla grata bucherellata della cassa dell’audio, quindi mi occorre recuperare alla svelta un kleenex, prima di combinare un guaio, e mi perdo gli ultimi spasmi che mi sferzano l’uccello scuotendomelo come un fuscello in mezzo alla tormenta.
Sto riprendendo fiato quando il trillo di un essemmesse irrompe nell’aria immobile, satura di calore e di ormoni.
*
Il 12 nero delle 14 è strapieno. Nonostante i finestrini aperti, il calore sprigionato da tutta questa fauna messa insieme e compressa come conigli nella stia è un miscuglio di sudore, ormoni, deodoranti guastati, cibo che fermenta nelle sporte che matrone sfatte mantengono ferme fra le caviglie gonfie, come pinguini maschi il loro brav’uovo, in attesa che qualcuno liberi un posto, o per gentilezza o perché deve scendere, una mistura mefitica che si fonde in un afrore acre, pungente, e che ristagna in questo cubicolo arancione su ruote conservandosi come in un thermos. Il grosso dei viaggiatori, vista l’ora di punta, sono studenti che producono la chiassosa allegria propria degli ultimi giorni di scuola. Riconosco qualche faccia nota, ci salutiamo con un cenno della testa, visto che le mani sono impegnate a mantenersi, anche solo con un dito, ad un pezzetto di sbarra o di seggiolino. Cerco di guadagnare il centro dell’autobus, chiedendo inutilmente permesso e stringendo fra le dita il biglietto, a mo’ di giustificazione, come se il solo mostrarlo dia per scontato, e quindi motivato, il mio necessario avanzare fino alla testa del mezzo, dov’è collegata l’obliteratrice. Impiego almeno un paio di fermate per arrivarci, sfruttando il movimento tettonico che si produce nella confusa e male orchestrata discesa e salita, ma alla fine, in virtù della corrente umana, sono quasi alla macchinetta, c’è solo l’ostacolo di una donna che la copre, abbarbicata com’è all’asta che la sorregge. Ha i capelli neri e ricci, tenuti assieme come un grosso bouquet da una fascia rossa, una camicetta bianca che le tira un po’ sulle spalle, una gonna leggera, a metà coscia, riempita da un paio di chiappe prepotenti, larghe e sode – come appuro al primo scossone disponibile, grazie al quale sembra del tutto accidentale e privo di qualsivoglia sordida malizia il contatto del mio inguine col suo gran culo. La donna rimane immobile, non accenna a ritrarsi, scorgo il suo sguardo fisso sulla nuca del conducente al di là del divisorio di plastica scura, improvvisata, nonché inutile, bacheca sulla quale fa mesta mostra di sé il regolamento da seguire a bordo e le caratteristiche dell’autobus, con tanto di capienza evidenziata in grassetto. Spingo impercettibilmente il pacco induritosi contro quella carne tosta, sfregandoglielo con un leggero gioco di bacino, e sono quasi certo che la donna abbia risposto con un altrettanto impercettibile rinculo del didetro, calando appena il busto in avanti, anzi, sono sicuro della volontarietà del suo movimento, perché ora aumento la pressione e lo stesso fa lei, con forza uguale e contraria, nel perfetto rispetto della terza legge di quel capoccione di Newton, il che inietta nuova linfa nel mio arrapamento, l’uccello si gonfia come un pavone occupando tutto lo spazio di cui dispone e picchia con la testa per uscire da lì ed entrare altrove. Intontito dall’eccitazione, la mente ottenebrata dalla concupiscenza e incapace di comportarsi secondo la prassi più elementare della ragione, la patta sempre incollata al culo della donna, stacco la mano dalla barra cui è artigliata e, come se non appartenesse più al mio controllo ma agendo per una volontà tutta propria, la sento scivolare sul mio corpo, sul fianco sinistro, giù per la gamba, muovendosi guardinga e silenziosa come una faina nel mezzo di un agguato al pollaio, e da lì ecco che si stacca per coprire i pochi centimetri che la dividono dal poplite femmineo, sfiora appena la vena azzurra che separa la coscia dal polpaccio e subito sale, con i polpastrelli formicolanti d’impazienza, lungo la linea immaginaria che demarca il confine tra il muscolo semitendinoso e il bicipite femorale – i cui nomi mi sono tristemente noti per essermeli stirati all’ultima curva dei 1500 metri in una infausta edizione dei Giochi della Gioventù -, infilandosi sotto la gonna fino a trovare la vasta rotondità del gluteo e lì aprire le dita a ventaglio e arpionare la carne di brace e nuda, in virtù della presenza discreta di un perizoma, il cui filo è risucchiato dal solco che ora percorro col dito medio in tutta la lunghezza, spingendolo alla nicchia ben protetta da fronde morbide e folte, ed ecco che sfiora le labbra, già dischiuse come una magnolia nel giardino dell’Eden, e sta per farci capolino nel mezzo quando la donna si scrolla di colpo, agitando le grosse chiappe, e la mano immediatamente sguscia via, riappropriandosi del suo posto sulla sbarra. Al gesto di insofferenza – così mi è parso – e, insomma, di disappunto, non segue il voltarsi stizzito della donna e una sua piazzata, additandomi vox populi come molestatore, anzi chiede permesso all’amorfo muro di carne che ha davanti e s’incunea in una selva di gambe e braccia e busti accaldati, perché nel frattempo, con uno sfiato e uno sbuffo prolungato, si sono aperte le porte, e occorre far presto a scendere prima che gli appiedati alla fermata, incuranti della norma, si ammassino spingendosi sulle scalette e ingorgando il passaggio. Senza pensarci due volte, mi metto in scia, anche se la donna ha preso un po’ di vantaggio, divincolandosi meglio tra la gente, e, messo piede a terra, devo girarmi a destra e sinistra più volte prima di scorgerla dall’altra parte della strada, la sagoma ondulata che si staglia nella luce abbacinante che sforma ogni contorno e annichilisce la vista, il passo veloce e sicuro, nonostante il tacco importante dei dècolletè neri, la borsa che le sbatte lungo il fianco destro, l’ancheggiare sinuoso ma non sfacciato. Aspetto che volti l’angolo, poi attraverso veloce, approfittando del traffico intenso nei pressi della scuola elementare, e come un cane affamato fiuto la traccia leggera del suo shampoo alla malva che ancora resiste, galleggiando leggero, prima di stemperarsi nell’aria satura di gas di scarico.
Non conosco bene questa zona, anzi il quartiere nel quale mi sono addentrato non rientra nella mia personale mappa della città. È chiaramente un rione popolare, lo si deduce facilmente dall’architettura delle palazzine tutte uguali, caseggiati di tre piani con l’intonaco marrone scrostato, le tende esterne malridotte e le ringhiere arrugginite – sebbene ciascuna di esse, oltre all’immancabile fioriera, ospita l’antenna satellitare per la pay-tv – accavallati l’uno sull’altro in modo da formare blocchi unici separati da stradine secondarie dall’asfalto crepato, ai cui lati si assiepano bancarelle di nocelle e pistacchi e giuggiole varie, di occhiali da sole e borse e cinture taroccate, cd musicali e dvd di film – rigorosamente pirati entrambi - palloncini gonfiati ad elio e altro ancora. Percorro una di queste stradine, quasi del tutto deserta, vista l’incipiente ora del pranzo – dalle finestre aperte si riversano impudicamente sulla strada il rumore dell’acciottolarsi dei piatti, il profumo di ciò che c’è dentro, la notizia di una strage di migranti mescolata alla puntata in corso di Beautiful, le urla di una madre, gli strepiti dei bambini... -, fatta eccezione di una coppia di anziani che fuma su una panchina e di un gruppo di ragazzi che confabulano sulle scale di un portone, passandosi furtivamente qualcosa da una mano all’altra. Svolto un paio di volte e poi la vedo, in cima ad un vicolo senza uscita, armeggiare con le chiavi vicino al portone dell’ultima palazzina, quella che chiude la strada. E adesso che faccio, mi chiedo, sono venuto fino qui, e allora? Cosa mi credo di poter fare adesso, raggiungerla con una corsa e farmela contro al portone? Il buonsenso mi porta a valutare seriamente l’opzione di ritornare sui miei passi, farmi un panino e cercare la fermata dell’autobus più vicina, ma nei tetri antri dentro di me è un continuo pompare di adrenalina che mi manda su di giri, e la bestia che si sbatte nei calzoni è decisamente più forte del buonsenso, per cui, quando la donna entra, prima che il portone si richiuda alle sue spalle – fortunatamente con molta lentezza – riesco a coprire la distanza e infilare il piede tra lo stipite e il battente.
L’atrio è al buio, schiaccio l’interruttore accanto al portone ma non succede niente. C’è un odore nauseante, di roba da mangiare riscaldata, verdura del tipo verza e di fritto, ma anche di gatto, di terriere non pulite e di piscio, sì, c’è puzza di piscio di gatto. Non c’è ascensore. Prendo a salire le scale, guardandomi intorno e tendendo le antenne. Dalle porte – almeno dalle tre che danno sul pianerottolo del primo piano - esce ovattata la voce della televisione, come sottofondo naturale sul quale poi si innervano i rumori propri di chi vi abita. Al secondo piano, do una sbirciata alle targhe sulle porte, che chiaramente non mi dicono niente – cosa posso mai sperare di trovarci scritto?: sono qui, entra e stuprami? – e letteralmente mi si ferma il cuore quando una voce mi coglie da dietro, chiedendomi chi stia cercando. Mi volto, è una ragazza vestita tutta di nero, calzoni larghi e camicione. Bassina, ma con due tette enormi che premono dentro la confezione a lutto che indossa. Non riesco a non fissarle, così come non so cosa risponderle. Lei accende una sigaretta e, con le chiavi in mano, mi dice di spostarmi, che deve entrare. Che figura di merda. Ti è andata bene che non c’è mio padre, m’informa, ché se ti beccava a fare il palo qui fuori ti gonfiava di mazzate. Sta richiudendo la porta, ma si gira a guardami. Ha il viso tondo che sembra tracciato col compasso di una mano invisibile, il puntale sul naso e l’indice che ne disegna il cerchio perfetto; gli occhi grandi e neri, la bocca carnosa; i capelli radi e stopposi, legati in un codino striminzito. Si tratta di un’alopecia da stress, mi dice come leggendomi nel pensiero, dovuta alla depressione. Poi, indicando col mento lo zaino che ho in spalla, aggiunge: “Non ci serve niente, né cerotti né buste per l’immondizia né mollette per i panni né tantomeno kleenex a un velo, che quando ti soffi il naso ti ritrovi le dita impiastricciate di moccio. Difficile che fai un centesimo in questo palazzo di morti di fame”.
Sta per chiudere, ma viene colta dall’esigenza di dire ancora una cosa: “Inutile che vai anche di sopra, due appartamenti sono sfitti e nel terzo non ci viene mai nessuno, da quando è morta l’inquilina. Comunque, fai quel che cazzo ti pare. Ciao”, e mi chiude la porta sul muso. La mando a quel paese mostrando il medio alla porta e imbocco l’ultima rampa di scale.
*
La porta dell’appartamento centrale è socchiusa. Mi avvicino e scosto il battente di quel tanto per infilarci la testa. Il corridoio è nel buio, ma in fondo, dalla porta sulla destra, piove una luce fioca, di penombra, che rischiara una piccola porzione di pavimento. Entro e, senza far rumore, richiudo la porta. C’è silenzio, sento solo il mio cuore martellare forte, in petto e nelle orecchie. La casa ha un odore di chiuso e di muffa, deve essere parecchio che non viene arieggiata. Mi tolgo lo zaino dalle spalle, mi genufletto poggiandolo a terra e ravano al suo interno alla ricerca del passamontagna. Con ‘sto caldo ne farei a meno, ma è necessario. Lo calzo, sistemando per bene le aperture sugli occhi il naso e la bocca, mi tiro su e avanzo a tentoni per il corridoio, dirigendomi verso il ristagno di luce, già tormentato dal prurito che mi provoca la lana. Ma perché non ne fanno una versione estiva, accidenti!
Mi affaccio sull’uscio della stanza in penombra e la vedo. Mi dà le spalle, ha le mani aperte sul tavolo, il culo spinto leggermente all’infuori, in una posizione d’attesa, come se stesse decidendo da dove iniziare per dare un po’ di vita e di luce a questo posto che, così a prima vista, definirei desolato, se non proprio squallido. Oltre al tavolo, individuo la presenza di un divano dal rivestimento antiquato e una credenza, un mobile con lo specchio macchiato e una lampada accanto alla poltrona, ma è l’ambiente in sé a trasudare un’idea di stantio e abbandono. Ma non sono qui in veste di arredatore, quindi mi concentro sul mio obiettivo e con due balzi non esattamente felpati, sono addosso alla donna. L’afferro per i capelli che sanno di malva e le azzanno il collo, mentre l’altra mano è già sotto la gonna.
“Aahh, porco”, grugnisce, “che vuoi da me?”
“Adesso lo vedrai, puttana”, le rantolo all’orecchio col fiato rovente. Le alzo il vestito sopra le reni et voilà, il culo appare in tutta la sua magnificenza, completamente nudo. Stano nel solco il filo del perizoma e lo tendo ad arco su una chiappa carnosa e succulenta.
“Lasciami... lasciamiii”, urla la stronza.
Le tappo la bocca con la destra e le intimo il silenzio. “Provaci un’altra volta e ti ammazzo”, mi sento dire, con lo sbocco di serotonina che ha infestato ogni collegamento sinaptico del mio cervello in pappa, oramai. “Adesso ti do una bella ripassata, troia”, ansimo arrapato mentre traffico con la lampo e lo tiro fuori, duro e palpitante. “Guarda che voglia che hai, zoccola”, commento (esaurendo già gli epiteti a disposizione con la quale appellarla) passandole il medio fra le chiappe umide, fino alla fica bagnata dalle labbra già aperte. La schiaccio sul tavolo e la tengo giù per il collo, mentre le entro dentro in un colpo, liscio liscio fino alle palle.
“Aaaaaahhh”, starnazza, mentre le infliggo una serie di colpi rapidi e violenti. La chiavo selvaggiamente, cingendole la vita col braccio libero e stropicciandole il clitoride fra le dita. Ha un boschetto morbido e folto laggiù, tutto umidiccio, come il pelo di un gattino che ha preso pioggia. Urla e dimena il culo, la vacca, andando incontro ad ogni mio affondo. Il suo “godo, lurido maiale”, raspa l’aria calda del soggiorno, come una graffiata sulla lavagna, e a quel punto, come se mi stessero sgozzando, rantolo e le schizzo dentro tutto ciò che ho.
Stremato, crollo su una sedia, ansimante, il petto che va su e giù spasmodicamente, le brache alle caviglie, il cazzo che vibra ancora una volta prima di abbattersi anche lui su un lato, la lana che si accanisce sulla mia faccia sudata e sul cuoio capelluto. Lei si tira su, si acconcia il vestito stirandoselo addosso con le mani. Si gira, ciocche di ricci sono sfuggiti al controllo della fascia e le pendono sul viso, l’espressione ancora un pelo stravolta. Mi guarda, riacquistando un minimo di contegno e di coraggiosa arroganza.
“Hai ottenuto quello che vuoi, adesso puoi andartene. Fallo subito e non chiamerò la polizia, te lo prometto”, dice cercando il mio sguardo negli ovali del passamontagna.
“E chi ti dice che abbia ottenuto già quello che voglio?”, ribatto con un tono che nelle intenzioni vuole essere seducente e aggressivo al tempo stesso, sulla falsariga di Clint Eastwood nei film di Leone, per intenderci. Ci manca solo che sputi sul pavimento, adesso, dopo aver finto di masticare l’ultimo residuo di tabacco.
“Che altro vuoi da me?”, fa con voce allarmata, stringendo le mani sul bordo del tavolo, fino a sbiancarsi le nocche.
“Io in realtà niente, ma, vedi, lui ha preso proprio una fissa per te, da quando ti ha vista sull’autobus. Capisci?” spiego con calma, nelle vesti del socio buono, mentre dal taschino della camicia tiro fuori il pacchetto e accendo una sigaretta. “Fumi?”, chiedo porgendole il pacchetto aperto, “Dai, prendine una, rilassati... e passami il posacenere che è dietro di te”.
Lei accoglie mansueta entrambe le sollecitazioni, tirando avidamente dalla cicca che tiene tra due dita visibilmente tremanti. Ogni tanto fa un passo timido verso di me chinandosi in avanti per scrollare la cenere nella noce di cocco che ho in mano - inclinazione che mi dà modo di apprezzare le zizze abbondanti raccolte nel reggiseno di pizzo nero, che fanno capolino dallo scollo della camicetta che, nella furia dell’amplesso, ha perso due bottoni. Ha il viso contrito, non più preoccupato – o almeno è questa l’impressione che mi dà -, ma pensieroso sì, come se stia cercando di capire qualcosa che le sfugge. Alla fine rompe gli indugi e, fissando un punto sopra la mia testa, chiede chi sia questo lui che non vuole lasciarla in pace.
Rido di gusto, una risata grassa e piena, sfacciata anche nell’atteggiamento sprezzante che la produce, con quel reclinare all’indietro la testa e spalancare la bocca, il ventre che sobbalza tracotantemente. Poi, totalmente immerso nella mia parte, torno serio di colpo. La fisso. La donna sfugge il mio sguardo, come se scottasse, si mantiene con una mano i lembi della camicetta e si china un’ultima volta per spegnere il mozzicone. Quindi si riappoggia al tavolo, unica sua certezza in questo momento, e mi guarda con un lampo di paura negli occhi, tormentata dall’attesa di una risposta.
“Lui è lui”, faccio in tono solenne, abbassando gli occhi sul membro a barzotto che comincia a dare i primi segni di risveglio. La donna segue la discesa del mio sguardo e capisce. “So che l’articolo è di tuo interesse, quindi togliti dalla faccia quell’espressione da santarellina scandalizzata, che proprio è un ruolo che non ti si addice”, sentenzio, succhiando l’ultimo tiro e stropicciando il filtro nella noce di cocco.
“Cosa ne sai tu di me”, ribatte lei con un’impennata di orgoglio.
“So che ti piace fare arrapare gli uomini. Che sei sposata, ma è evidente che tuo marito te lo dà col contagocce. E spesso non godi nemmeno – del resto, il consorte ti entra fra le cosce, si agita un pochetto e ti spruzza sulla pancia il suo brodino, così si addormenta leggero e soddisfatto, mentre tu finisci l’appena iniziato pompandoti la fica con due dita, come un’adolescente, immaginando un cazzo che ti fotta per bene, come meriti”, ghigno godendomi i suoi occhi notturni che si dilatano e la bocca che si apre per effetto di un inorridito stupore, mentre inconsciamente medio e pollice destri molestano nervosamente la fede avvitata all’anulare sinistro.
“Mi piace essere guardata, sì, e allora? È forse una colpa? A tutte le donne piace essere apprezzate, non vedo cosa...”
“Io ho detto un’altra cosa, e cioè che ti piace arrapare gli uomini. È un pelino diverso come discorso, riesci a cogliere la differenza?”, le faccio con una smorfia delle labbra sorniona e spudorata.
“Come fai a dirlo. Il mondo non è fatto esclusivamente di maiali come te, che se ne vanno in giro col cazzo duro a strofinarlo sui culi della gente su un autobus. Sei un pervertito, questo sei. E ti permetti anche di farmi la morale. E perché poi? Perché ho la gonna? Ma da quale epoca vieni, troglodita”, ribatte d’un fiato, colma di foga.
“U-uhm... vedo che ci siamo ringalluzziti. Bene bene, ti preferisco così, nervosa, dura da piegare. O forse perché l’argomento ti stuzzica, eh? Sarò il pervertito che dici, ma intanto sull’autobus hai apprezzato, eccome”.
Arrossisce. Per un attimo si guarda la punta delle scarpe, le unghie curatissime e smaltate di viola pallido, come quelle delle mani. Poi torna a guardarmi, ha trovato l’ispirazione per ribattere. “Cosa vuoi che facessi, non potevo muovermi. L’hai visto no, quanta cazzo di gente c’era sul quel bus”. Il suo volto ha riacquistato progressivamente il giusto decoro e l’altezzosità propria di chi ha consapevolezza di sé e delle armi in serbo per ottenere, alla fine, ciò che vuole, facendo sottilmente passare per un atto di potenza e volontà altrui quello che in effetti è il pieno appagamento dei propri desideri. “E comunque”, aggiunge mostrandomi qualche carta sul tavolo per vedere se abbocco, “non pensavo che avresti avuto le palle di venirmi dentro casa. Non sei certo il primo che me lo fa sentire dietro, approfittando della calca. Ma poi alla fine tutti dimostrano puntualmente quello che sono, ovvero dei vigliacchi frustrati cui la vita non offre altro oramai che yuoporn e qualche strusciatina su un autobus affollato”.
Il cambio di registro e di toni della sua voce, mi spiazza. Non so che risponderle. In effetti, nemmeno io avrei mai pensato di vivere una situazione come questa, figuriamoci. Ma tocca a me rispondere, non posso starmene lì imbambolato ad annaspare nell’indecisione, previa lo sprofondare a zero di quell’autorità connessa al ruolo che sto recitando, quindi butto là la prima cosa che mi passa per la testa: “Sembrerebbe che la cosa ti rammarichi”.
“La vigliaccheria del maschio non mi rammarica più. Sono donna fatta e quanto valga un uomo l’ho appreso subito. Ma questo conta relativamente. Il punto è che sì, mi piace essere violentata”, prosegue col tono come se avesse dichiarato la sua preferenza per uno schizzo di latte nel tè, “Ti ho sentito nell’autobus, eccome se ti ho sentito, e ti ho anche visto scendere. Ci ho sperato. Ma quando sono entrata nel portone senza di te, ho concluso che t’era venuto meno il coraggio”.
“In effetti”, finisco con l’ammettere, “ci ho pensato un po’ su. O almeno ho cercato di farlo, ma la tentazione è stata più forte di qualsiasi resistenza. Mi fai ribollire il sangue nelle vene... ancor più perché ne sei consapevole e ti comporti di conseguenza. Ti piace mettere un uomo alla tortura, questa la verità”.
“Certo che me ne rendo conto. Mi eccita vedervi arrapati, con gli occhi da fuori, la bava alla bocca e la patta dei calzoni gonfia. Sento il vostro odore di maschi arrapati, i vostri sguardi bavosi che mi scivolano su ogni punto del corpo. Poteste verificare fra le mie cosce che effetto mi fa...”, conclude mordendosi il labbro inferiore e scoccandomi un’occhiata gravida di lussuria.
“Sei proprio una troia”, dico avvertendo i primi singulti di ripresa del compare, che comincia a scuotersi e stiracchiarsi. “Meriteresti davvero una lezione come si deve”.
“M-mm... vuoi menarmi? Sai che mi eccita? Sì, prendimi a cinghiate sulle cosce, sul culo. Fammi male, poi ficcamelo dentro. Dimmi che mi violenti”.
“Bene. Adesso ti meno”, dico alzandomi, “Adesso ti violento”. Avanzando goffamente, con le caviglie ancora bloccate dai calzoni, l’afferro per i capelli, la bacio selvaggiamente, le mordo la lingua.
“Fottimi”, dice, “fottimi, lurido porco!”, e mi dà una spinta che mi fa ricadere pesantemente sulla sedia. Slaccia i bottoni superstiti della camicetta e la sfila via, poi tira giù anche la gonna. Ha un paio di bocce belle grosse, compresse nel reggiseno nero. Si sfila anche il perizoma e senza perdere altro tempo si genuflette fra le mie cosce. Afferra il barzotto in una mano e comincia a succhiarlo, avidamente, senza tanti preamboli e tecnicismi. Un pompino rude, ma certamente efficace. L’uccello prende immediatamente vigore e si inturgidisce nella sua mano, si gonfia tutto insieme alla testa violacea. Con un verso di volgare risucchio, stacca le labbra e contempla gli effetti della sua arte. “Mmm... che bel cazzo. Bellissimo. Lo voglio tutto nel culo. A mio marito non piace, ha paura di farmi male”.
“Mamma mia”, dico completamente cotto, frastornato dall’improvviso ribaltamento dei ruoli in gioco, “Mamma mia!”
Ci lavora ancora per qualche minuto, succhiandomelo più lentamente però, gustandoselo, dandomi palpate ai coglioni come ritmo. Quando si accorge che sto per venire, si tira su e monta a cavalcioni, facendo sparire l’erezione fra le cosce. Comincia a cavalcarmi disperata, afferrando ai lati il passamontagna e tenendosi alle mie orecchie. “Aaaah, chiavami bastardo. Oddio, oddio come lo sentooo...” Praticamente fa tutto lei, allora, con le orecchie in fiamme, la lana che prende a grattare ancora di più, mi avvento avido sulle grosse mammelle, succhiando i capezzoli con la voracità di un lupo affamato. Più la mordo e più lei gode e aumenta il ritmo. Il sudore ci rende scivolosi e selvatici, i suoi capelli sono incollati alla fronte, il volto deformato in un ghigno satanico, gli occhi due puntolini di brace, mentre ripete come una cantilena “fottimi, fottimi, fottimi!” Avverto il sangue caldo sgocciolarmi lungo il collo e impregnare le maglie del passamontagna. La troia con quelle unghie deve aver fatto un bel macello. Allora le stacco con forza le mani dalle orecchie, grugnendo di dolore, e le mollo un bel cartone sulla guancia sinistra. Lei barcolla e perde l’equilibrio, rovinando all’indietro. L’afferro per una tetta, evitando che sbatta con la testa e dandole il tempo di poggiare ambo le mani per terra. Continuo a fottermela in quella posizione, tenendola per i fianchi. Poi lo tiro fuori e lo oriento verso il buco di dietro. La cappella dilata lentamente l’anello di carne del suo buco di culo, mentre lei miagola come una gatta in calore. “Ah, bastardo”, sibila con tono arrochito dalla voglia e dalla posizione, “vuoi sbattermi quel grosso affare nel culo”. Glielo spingo dentro con forza e prendo a farmela nel culo, mentre con due dita della destra le pompo la fica e col pollice sinistro le sgrilletto forte e veloce il clitoride. Le sue urla disarticolate riempiono la stanza e mi infoiano ancora di più, provocando un’ulteriore accelerata del ritmo fin quando il suo squirt caldo non mi innaffia la pancia dandomi il via per scaricarle nel condotto tutta la sbroda che mi ribolle nei coglioni.
*
Quando riprendo i sensi sono solo nella stanza. Non ho idea di quanto tempo sia passato, ma ho la testa in fiamme. Mi sfilo il passamontagna e mi tocco delicatamente le orecchie. Il sangue si è già seccato e bruciano un po’ di meno. Mi alzo, mi sfilo i pantaloni dalle caviglie e cerco il bagno. Mi guardo allo specchio e quasi non mi riconosco. Ho l’aria di un reduce, sudato, sfatto, allucinato. Osservo i tagli sulle orecchie e gli ematomi viola. In un cassetto accanto al lavandino trovo dell’acqua ossigenata. La spruzzo sulle ferite. Per un po’ brucia, ma il dolore passa in fretta. Poi ritorno in soggiorno. Mi guardo attorno, ancora rincoglionito, e scorgo un foglio sul tavolo. Leggo.
"Tesoruccio,
sei stato come al solito GRANDE! Sei entrato nel personaggio come desideravo che tu facessi e mi hai fatto godere come una porca. Non ti ho voluto svegliare e mi dispiace andare subito via, ma ho un impegno. Quando ti svegli fai pure una doccia, ti lascio gli asciugamani sul bordo della vasca. In frigo c’è dell’ACE. Chiudi a chiave la porta, quando esci... te le lascio sul tavolino nell’ingresso, poi me le ridai la prossima volta. Mi faccio viva prestissimo!!! Un bacio dove sai tu...
Sonia"
*
Faccio le cose con calma e un’ora e mezzo dopo sono in strada. Seduta su una panchina di fronte al portone c’è la ragazza vestita in nero con l’alopecia da depressione. Fuma e guarda un bimbetto pedalare sul triciclo.
“Deduco che c’era qualcuno nell’appartamento...”, mi fa scoccandomi un sorrisino sarcastico.
“Sei sempre così acida o è solo il mio giorno sfortunato?”, ribatto cercandone di imitare il tono.
“Se lo è, il tuo giorno sfortunato, sarà più per le tue orecchie che per la mia deduzione. Guarda che roba, mi sembrano due lampadine al neon”, e ride.
“Ridi, ridi pure. Ciao ciao”, e faccio per andarmene.
“Ehi, aspetta... scherzavo. Io sono Barbara, piacere”, dice e mi tende la mano, alzandosi. La raggiungo, le stringo la destra e mi presento a mia volta.
“Ti va un gelato?”, chiede. Annuisco e ci avviamo tutti e tre verso il bar più vicino, a due passi dalla fermata dell’autobus. Parliamo del più e del meno e non impiego molto ad apprezzare la sua parlantina sciolta e brillante, sebbene sono irrimediabilmente attratto dalla sue tette che, obtorto collo, catturano i miei sguardi come mosche sulla zanzariera. Quando la riaccompagno a casa il cielo comincia ad arrossarsi e il sole è una grossa arancia che ammicca ruffiana da sopra ai tetti. Al portone le porgo il fratellino, Nicola, che mi dorme in braccio, e lei lo accoglie fra le sue braccia materna.
“Ci rivediamo?”, chiedo.
“Mi piacerebbe. Magari si va al cinema, che ne dici?”
Sorrido. Lei ricambia. Ci baciamo sulle guance e aspetto che salga la prima rampa di scale prima di voltarmi e andare via.
*
Al cinema ci andiamo il giorno dopo. Il film è piuttosto datato e rientra in una rassegna che il Massimo propone per soddisfare i gusti di coloro che, almeno potenzialmente, sono un pubblico restio alla frequentazione dei multisala. La pellicola è del ’98, Acid house, tratta da tre storie scritte da uno dei miei scrittori preferiti, Irvine Welsh. La sala è deserta, com’è prevedibile, visto il caldo e lo scarso interesse dei più a chiudersi in un cinema a luglio. Sopra, dove prendiamo posto, ci siamo soltanto io e Barbara. Il film è accattivante, dialoghi sporchi, tanta droga e sesso. Il clou è toccato quando Evelyn scarica Bob e poco dopo si fa una gran chiavata con un tipo l’esatto opposto dell’ex sfigato. È mentre se lo cavalca, zompettando come una cavalletta sul cazzo duro, i seni sodi che vanno su e giù e le urla sparate a tutto volume, che mi viene un’erezione violenta e, quasi nello stesso momento, avverto la piccola mano di Barbara strisciare sulla mia coscia e poggiarsi sul picco tiepido che tira la stoffa dei bermuda. Quando riesce a tirarlo fuori, mi strappa un gemito e mi spinge ad imitarla, senza nemmeno voltarmi a guardarla. Indossa una gonna larga di jeans, così che la mia mano ha gioco facile a intrufolarsi e, spedita, raggiungere il cavallo delle mutandine già bagnato. Il gioco, fatto di saliscendi da un lato e di pompaggio frenetico dall’altro, non può durare a lungo, se l’intenzione è godere in altro modo, e infatti, risoluta, Barbara molla la presa sul cazzo, si alza e mi si siede in braccio, facendo scomparire l’uccello tutto inteccherito nell’anfratto mieloso fra le sue cosce. La chiavata è intensa, lenta, profonda e breve. Gli orgasmi tumultuosi, struggenti, soffocati il suo in un morso prolungato al mio labbro inferiore, il mio nel solco delle sue tette enormi e morbidissime, opportunamente liberate dalla canotta nera e compresse con ambo le mani contro la mia faccia congestionata. Decisamente più comodi sono i successivi amplessi quando, dopo una pizza, ci rintaniamo nell’appartamento della zia di Sonia - del quale ho ancora le chiavi - durante i quali ho modo di apprezzare il succo agrodolce della sua fichetta in piena e la rotondità maestosa del suo culo che si schianta contro il mio ventre, mentre le zizze ballonzolano come batacchi di campane lanciate a festa, e ancora la sua boccuccia a forma di cuore che si acconcia a ventosa sulla mia capocchia, aspirando dal prepuzio ogni goccia di vita che mi circola dentro.
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