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Gay & Bisex

Ritorno alle origini nel caveau della banca.


di BelloCaldoCN
07.07.2018    |    6.297    |    6 9.6
"Accostò il suo volto al mio, le nostre bocche si aprirono e sentii per la prima volta, profonda, calda, dolcissima, la lingua di un uomo avvolgere la mia,..."
Un giornata come tante: il lavoro in banca ha la sua routine, specie se sei dietro una scrivania a gestire gli investimenti di questo o quel cliente. Quel giorno, tra gli altri appuntamenti, ne avevo fissato uno particolarmente delicato per la consulenza di due soci di un'azienda immobiliare che cercavano un finanziamento per un grosso affare a cui avevano messo mano. Vista l'importanza dei clienti, il direttore mi aveva suggerito di riceverli al limite dell'orario di chiusura, così da evitare il via vai di gente che spesso ci ritroviamo. Erano le 16,15 e in banca eravamo rimasti solo io ed Alfio; gli altri avevano già staccato alle 16. I nostri clienti dovevano arrivare alle 16,25, cinque minuti prima della chiusura degli uffici; in mezzora poi con loro me la sarei sbrigata. Nell'attesa, visto che non c'erano altre urgenze da affrontare, volli concedermi una pausa: misi sul tavolo il mio portatile e cercai in rete un filmetto leggero e stuzzicante. Alfio dall'altro capo dell'ampia camerata alla sua scrivania non si sarebbe accorto di nulla. Lui è il tipico impiegato bue, fuori dei tre metri quadri della sua postazione il mondo non esiste. Da un po' avevo imparato a ritagliarmi queste piccole pause sul lavoro, o quando ero da solo, o, appunto, quando restavamo soltanto io ed Alfio in ufficio. Del resto era l'unico sfogo che riuscivo a concedere alle mie voglie: a casa troppo rischioso con la mia cara mogliettina che tanto mi ama e altrettanto si impiccia. Dapprima fu solo un turbamento; poi col tempo si trasformò in desiderio. Era nato da adolescente ai bagni di mare: mi piaceva andare a catturare i granchi intorno agli scogli e un giorno in un anfratto un po' isolato scorsi il bagnino della nostra spiaggia che si era calato il costume e se ne stava sdraiato languidamente su uno scoglio con le gambe penzolanti nell'acqua. Giulio, questo il suo nome, era un ragazzo sui venticinque anni, dai capelli corvini e il corpo scolpito dalle nuotate e abbronzato dal sole. Senza farmi notare da lui lo osservai meglio: aveva il membro semiduro che si stava gonfiando a poco a poco sotto l'effetto di una masturbazione lenta e pausata. Rimasi stupefatto e smarrito: nella mia ingenuità pensavo che gli uomini ce l'avessero sempre molliccio e piccolino come il mio o al più come nelle statue dei nudi dell'antichità che avevo visto sui libri e nei musei. Quello invece mi faceva scoprire una potenza ancora sconosciuta, carica di promesse di piacere, almeno al vedere il volto di Giulio ora contrarsi ora rilassarsi nello spasimo e al sentire il suo gemito rintuzzato dal frangersi delle onde. Quando fu per venire, il suo volto, se possibile, si scurì ancora di più; vidi il movimento della mano farsi frenetico e la sua asta debordare in dimensioni per me impensabili fino ad esplodere in uno schizzo biancastro, potente nella parabola che disegnò in aria per poi mescolarsi con la schiuma dei flutti, mentre Giulio proruppe in un gemito diverso dagli ansimi di prima, più fondo e primordiale, che dava l'idea, pur soffocato, di quanta energia covasse in quel corpo emerso da chissà quale dimensione, forse dai primordi della terra, quando la mascolinità era quasi un tutt'uno con la furia degli elementi. Lo vidi ancora per un attimo tirarsi su il costume e sparire con ampie bracciate al di là del molo. Allora mi avvicinai al punto dove quel fiotto incredibile era caduto, camminai sul fondo roccioso con l'acqua che mi arrivava alle spalle e, quando fui giunto, istintivamente, senza sapere perché, abbassai la testa in modo che le labbra restassero a pelo dell'acqua e succhiai: volevo assaporare quel liquido, farlo entrare in me, ma una boccata d'acqua salmastra mi fece starnutire. Quello che ritenevo un balsamo dai poteri divini s'era dissolto ormai nelle spume del mare, ed io, arrampicatomi sullo scoglio, mi domandavo se sarei mai stato un giorno così come Giulio, capace di tanta potenza di corpo, di tanta generosità da regalare al mare e al vento il mio balsamo bianco, di tanto piacere. Da quel giorno iniziai a segarmi. Inutile dire che furono fallimenti i miei tentativi di raggiungere la pienezza di energia che avevo visto prorompere dal mio bagnino. Allora fu la mia inesperienza di imberbe a vanificare gli sforzi, poi fu la vita intorno a me col passare degli anni ad addomesticare il mio istinto, a istradarlo verso la ricerca della donna. E quando ne conquistai una, neppure allora mi riuscì di ripetere il miracolo di quel giorno dietro gli scogli e la cosa proseguì uguale con le donne che vennero dopo, fino a mia moglie inclusa: avvertivo una mancanza, per quanto lei fosse appagata; mi affacciavo ogni volta sul balcone a prendere una boccata d'aria domandandomi il perché di quel piacere goduto ma non soddisfatto. Ed eccomi così giunto ai 35 anni, con un lavoro rispettabile, una buona posizione, la tranquilla sonnolenza del matrimonio. Lo svago che mi prendo come potrebbe incrinare queste sicurezze? E' così breve e segreto: solo un filmatino con un maschio nudo che si masturba guardato nelle pause di solitudine al lavoro. Almeno questo era quello che pensavo fino al giorno dell'appuntamento coi due soci. Avevo scelto nella pausa una produzione dell'Est, con un ragazzone caucasico muscoloso come Giulio, ma non abbronzato come lui. Le cose si stavano facendo interessanti, quando arrivò uno dei due clienti, con un anticipo di cinque minuti. Bloccai subito il video, anche se il portatile rimase aperto con l'immagine del caucasico che aveva già fatto lievitare per bene il suo cannone. Il tipo puntò deciso alla mia scrivania, allungò il braccio e mi strinse la mano con una forza virile che ricambiai senza scompormi. Indossava un gessato grigio, una camicia bianchissima su cui si stendeva una bella cravatta rossa e delle scarpe nere ; con la sinistra reggeva la valigetta dei documenti. Sarà stato sulla quarantina, forse qualcuno in meno; alto più di un metro ottanta e dal fisico decisamente prestante, con i muscoli che si tendevano sotto quegli abiti mentre si muoveva. I suoi capelli neri, rasati alle tempie si congiungevano con una barba rifinita e baffi altrettanto neri che accentuavano la mascolinità del volto regolare in cui però spiccavano due occhi chiari color agata verde che ti guardavano con sensualità incredibile. Io sono leggermente più snello, coi capelli castani ondulati, gli occhi scuri e senza barba o baffi, ma sentivo di non sfigurare accanto al mio interlocutore. Intanto non eravamo lì per un concorso di bellezza. Lui tuttavia era arrivato solo. Gli domandai del suo socio.
- Oh, lui arriva fra un po', aveva l'allenamento; sa, è un patito della palestra-. Si giustificò, ammiccando. Abbozzai un sorriso d'intesa e fra me pensavo: “In palestra mi pare che ci passi tempo anche tu, anche se ora sembri uscito da una riunione del consiglio di amministrazione”.
-Bene-, dissi, - possiamo intanto riguardare le carte-. Avevo seguito quella pratica da tempo, anche se non avevo mai avuto un colloquio personale coi due, che si erano in precedenza rapportati col direttore. In quelle occasioni li avevo scorti di sfuggita. Ma oggi il direttore aveva un altro impegno improrogabile, per cui aveva chiesto a me di chiudere la faccenda, fidandosi della mia professionalità.
-Ciao, io vado, sono le quattro e mezza-, sentii Alfio che mi salutava. - Chiudi tutto tu?-
- Vai, vai, ci penso io; tanto non ne avrò per molto, spero- Lo “spero” lo pronunciai in tono un po' più basso, ma il mio interlocutore lo colse e sorrise mostrando un po' della sua bella dentatura.
- Stia tranquillo, non la faremo aspettare molto-.
E infatti dopo qualche minuto ecco arrivare il suo compare appena uscito dalla palestra. Non era neppure passato a casa a cambiarsi: aveva il borsone a tracolla, una canottiera da spiaggia aderente sui pettorali incredibilmente pompati, un paio di short e scarpe da ginnastica. Un vero bestione da oltre un metro e novanta, anche lui con la barba, ma meno curata dell'altro e i capelli con taglio militare. Sarà stato intorno ai 45 anni. Quando fu dentro la porta girevole di sicurezza, quella si bloccò e si sentì il messaggio automatico ripetere “Depositare gli oggetti metallici, prego”. Il tipo alzò le mani per mostrarmi che non aveva pistole e neppure orologio al polso, poi iniziò a palparsi, ma i suoi short avevano solo un taschino dove c'erano le chiavi; eppure lo vidi che continuava ad armeggiare intorno al pube finché non si calò un po' gli short ed estrasse direttamente dalle mutande il cellulare: era quello che aveva bloccato la porta. Evidentemente nel taschino dei pantaloncini non ci stava e così lui aveva avuto il buon gusto di metterselo negli slip. Nel recuperarlo si era tirato giù il vestiario tanto da mostrare i peli del pube fino all'attaccatura del cazzo. Guardai esterrefatto il suo socio che allargò le mani come a dire: “Che vuoi farci? Lui è così”. Sbloccai la porta dal comando sotto la mia scrivania e quello avanzò ridendo, arrivò davanti a me e lasciò cadere il borsone a terra da cui sbucava un asciugamano e mi allungò il braccio: gli strinsi la mano, ma la sua non era una stretta, era una presa di possesso; mi sentii come afferrato tutto da quella mano che continuava a scuotere il mio braccio. Finalmente ci sedemmo e cominciai a passare loro gli incartamenti per le firme. Ogni tanto ci interrompevamo per discutere qualche particolare e in quei momenti l'uomo della palestra si dondolava sulla sedia con le mani intrecciate dietro la nuca esibendo lo spettacolo delle sue ascelle con tutti i peli ancora madidi del sudore dell'allenamento. Non aveva avuto nemmeno la decenza di farsi una doccia, o forse non voleva tardare oltre, ed ora dal suo corpo pompato di muscoli emanava un afrore maschio che con mia stessa sorpresa scoprii che mi piaceva. Senza darlo ad intendere respiravo quell'odore forte che mi inebriava di una forza selvaggia. Fu in uno di quei momenti che l'altro socio, quello elegante, si sporse per guardare meglio la riga che stavo sottolineando: s'era sporto dalla sedia verso di me, anzi sopra di me, tanto che alzando in tralice lo sguardo vedevo il suo collo largo con una vena pulsante. Mi investì un profumo diverso da quello del suo compare: era essenza di sandalo, una fragranza decisa e sensuale che ben si adattava al tipo. Probabilmente mi confusi e girai la pagina, così che il suo sguardo si alzò incrociando lo schermo del mio portatile sul quale il ragazzone caucasico era rimasto immobile, fissato nell'ultima immagine in cui avevo interrotto il video, con tutta la sua nudità vogliosa. Credo che avvampai dall'imbarazzo. Il cliente mi guardò con i suoi occhi seducenti e allargò la bocca a un sorriso di assenso. Poi girò il portatile verso il suo socio perché vedesse anche lui. La sua reazione fu impressionante: pensavo che si mettesse a irridermi o che desse in escandescenze, invece si mise una mano alla patta e iniziò a strofinarsi vistosamente il pacco. Io non sapevo cosa dire o fare. Intanto l'elegante si era rimesso seduto e, arretrando un po' con la sedia, aveva allungato la sua gamba sotto la scrivania appoggiando il piede dritto sulla mia patta. Si rivolse all'altro che continuava a palparsi lì in mezzo :
- Che ne dici, Mario, di suggerire al nostro bancario di divertirsi sul serio con uomini veri, invece che guardarsi questi film?-
- Hai ragione, Enrico, dovrebbe proprio imparare da quello che combiniamo con gli operai in cantiere-.
Deglutii, diviso tra spavento e desiderio. Mi rassicurò il fatto che gli uffici su tre lati erano illuminati da ampie vetrate che davano sulla strada, tanto che dall'esterno si poteva scorgere quel che succedeva dentro, senza contare che c'erano varie videocamere anche agli angoli degli uffici, per cui se i due bestioni si azzardavano a mettermi le mani addosso non potevano farla franca. Eppure quel suo piede che continuava a premere sul mio pacco dava il senso di qualcosa di diverso dal semplice pericolo. Suggeriva una promessa di godimento, reclamava una nudità disinvolta. Il richiamo profondo del mio essere mosse le mie mani su quel piede, afferrai la scarpa con entrambe e la premetti ancora di più sul pacco, poi abbassai la testa e leccai la punta della scarpa ruotandovi la lingua intorno. Anche se la mia testa e la mia voce non avevano dato alcun assenso ai loro piani, era il mio corpo tutto a parlare per me. Il cavernicolo, fottendosene del rischio di dare spettacolo, aveva direttamente estratto la clava dalle mutande e se la menava di brutto. Clava è proprio la parola giusta: il suo arnese aveva delle dimensioni spaventose, sarà stato quasi 30 cm, si drizzava dal pube puntando verso la scrivania con un'asta prima larga come una bottiglietta di birra che poi strabordava in una cappellona dal diametro di una scatoletta di tonno. Allora Enrico, quello elegante, abbassò la gamba e, di nuovo sporgendosi verso di me, disse: - Non vorrai che il mio socio rischi di farsi arrestare dalla buon costume? Non c'è un angolino più raccolto qua dentro, magari un bagno, dove possiamo strofinarci un po' tra uomini? -. Con la fronte grondante di sudore risposi: - Sì, il bagno...- Poi un'idea mi balenò e mi corressi: - No, meglio di là, seguitemi-. Mi avviai verso la porta blindata del caveau, digitai la combinazione e quella scattò socchiudendosi. I due mi seguirono dentro, nel corridoio che separava varie cassette di sicurezza. Appena fummo dentro Enrico mi bloccò contro il lato sinistro del corridoio sollevandomi di peso. - Ora diamo inizio alle danze-, disse. Accostò il suo volto al mio, le nostre bocche si aprirono e sentii per la prima volta, profonda, calda, dolcissima, la lingua di un uomo avvolgere la mia, giocarci, insalivandosi a vicenda. Che vertigine mi colse, che calore irradiò ogni muscolo del mio corpo! Mario se ne stava appoggiato dall'altra parte del corridoio a godersi lo spettacolo: s'era calato gli short e si menava l'uccello con grande maestria. Staccai la bocca da quella di Enrico e iniziai a leccargli il collo; dai suoi ansimi avvertivo che gli piaceva e allora mi misi a fargli il succhiotto sulla vena pulsante. -Ahhh, mmm, sì, così. Ci sai fare.- Fu il suo incoraggiamento. Mi stavo abbandonando a quello che avevo sempre voluto essere, un maschio che gode con altri maschi. Mi lasciai scivolare verso il basso e sbottonai la camicia al mio amante appassionato. La fragranza di sandalo mi investì ancora di più eccitandomi ulteriormente. Vidi i suoi pettorali marmorei e depilati svelarsi in tutta la loro eleganza: due nocciole turgide erano i capezzoli al centro di quelle montagnole lievitate da ore di allenamenti. Non ci pensai due volte e come un poppante mi misi a succhiare avidamente quei frutti. - Ohhh, sìì, vai così, mmm sìì. Dai mordili anche un po'-. Succhiavo e mordevo mandando in visibilio Enrico: la vena sul collo si ingrossava; sentivo il suo respiro accalorarsi, i suoi ansiti diventare più profondi. Ma non era l'effetto solo della mia azione che, con la pratica, diventava man mano più sapiente: Mario s'era messo dietro di lui, gli aveva slacciato i pantaloni e calato gli slip bianchi alle ginocchia e aveva iniziato a sditalinargli il culo con mano esperta mentre con l'altra continuava a far lievitare il cazzo. Ragazzi, che trio stavamo diventando. Sentivo la nerchia liberata di Enrico premere contro il mio culo avvolto nei pantaloni non ancora slacciati, un candelotto di dinamite che non aspettava altro che d'essere acceso. Io mi tenevo allacciato a lui con le gambe incrociate dietro la sua schiena. All'improvviso con un movimento brusco Enrico si voltò senza lasciarmi scendere coi piedi per terra: ora era lui appoggiato contro le cassette di sicurezza. Io restavo aggrappato, le braccia al collo e le gambe incrociate dietro di lui. Forse aveva voluto sottrarsi alla mano del socio che diventava sempre più esigente nello scavargli il buco. E forse questo scatenò la reazione rabbiosa di Mario: con un grugnito mi lacerò i pantaloni (Cazzo, cosa avrei detto a lei di quello strappo, una volta tornato a casa?), strappò i boxer e rimasi con le chiappe nude. Mario si fermò un attimo in contemplazione: non per vantarmi, ma un po' le partite di tennis un po' la bici mi hanno modellato un culo che spesso viene guardato con interesse o invidia. Mentre continuavo a slappare il torace di Enrico sempre più arrapato, sento lì sotto una presenza umida e raspante farsi strada tra le cosce.- Ohhhmmmm-, non potei fare a meno di liberare un gemito maestoso di piacere. La lingua di Mario mi stava lavorando il culo e con che perizia. Sentii il mio cazzo inumidirsi all'istante, ma quello che non prevedevo è che anche il mio buchino rilasciasse i suoi umori. - Ehi Enrico, questo buco sbrodola come una fichetta; porca puttana, mi piace. - E vai con una raspata di lingua intensa che quasi mi sverginò tanto era profonda. La lingua di Mario era vorace, prepotente, disinvolta, come lui. Quando ritenne di avermelo preparato per bene si rialzò, afferrò il candelotto di Enrico e me lo piazzò tra le chiappe; poi si mise accanto all'amico, voleva vedere la mia faccia quando lo avrei preso per la prima volta. Preferiva che fosse il socio a sverginarmi, perché prendere la sua clava come prima botta mi avrebbe rovinato il culo, lo avrebbe reso inservibile per il futuro; invece bisognava elasticizzarlo, renderlo duttile a tutte le chiavate. Con un colpo di reni vigoroso Enrico mi spaccò di cappella. -Arghhhh-. Il viso mi si contrasse in una smorfia di dolore. -Amore, vedrai come ti piacerà adesso.- mi diceva Enrico sbaciucchiandomi teneramente la fronte. Non capivo più nulla: come poteva tanta dolcezza conciliarsi con la forza che voleva aprirsi un varco dentro di me? Eppure sentivo che accadeva, che non poteva essere altrimenti che così. Il mio tenero assalitore cominciò a spingere piano: sentivo che l'asta cresceva ancora mentre mi veniva pompata dentro adagio. Arrivato a metà si fermò, poi di botto, con un altro colpo di reni, me lo dinamitò tutto dentro. -Arghhhh ufffff-. Come a cercare un soccorso, abbandonai la testa verso Mario, il quale aveva incrociato le gambe e con un gomito appoggiato alle cassette di sicurezza si reggeva il capo a guardare la scena. La zaffata di sudore della sua ascella emanò un richiamo irresistibile. Affogai la faccia in quella foresta di peli a bere goccia a goccia l'acqua maschia del suo corpo primitivo, a respirare a pieni polmoni l'afrore virile del mio soccorritore, perché entrambi, gocce e fragranza mi ristorassero della mia verginità perduta, mi nutrissero di energia per altre esplorazioni del piacere. Enrico ora stantuffava per bene: anche il mio buco ci metteva del suo lubrificandogli il candelotto con umori autoprodotti che non avrei immaginato. I due soci mugolavano, slinguandosi di tanto in tanto. Io no; i miei guaiti non potevano sentirsi, soffocati com'erano nell'ascella di Mario.
Più per sgranchirci da quella posizione che per il venir meno delle forze ci ritrovammo separati, tutti e tre in piedi, io al centro, Enrico davanti a me e Mario dietro. Eravamo tutti e tre nudi, ma non saprei ricostruire come ci fossimo spogliati in quell'abbraccio muscolare che mi aveva dilatato le cosce. Ad Enrico restavano soltanto i calzini grigio in filo di scozia che gli avvolgevano e esaltavano i polpacci, a Mario le Adidas bianche slacciate, a me nient'altro che l'elastico dei boxer con qualche brandello di stoffa. Gli abiti erano sparsi qua e là nel corridoio, come dispersi da un uragano di vita balorda e primitiva che prendeva il suo riscatto contro il mondo che ci vuole fasciati e mansueti. Le agate degli occhi di Enrico balenarono un cenno a Mario: non feci in tempo a voltarmi che sentii la sua mano premermi sulla testa con tutta la potenza che aveva nel braccio. Crollai in ginocchio davanti al cazzo di Enrico che ora mi guardava aspettando: ingollai la cappella come a sorbire un liquore forte tutto d'un fiato. -Ohhh siiii- fu l'assenso di Enrico che iniziò a pomparmelo in gola con energia. Era già un'esperienza impareggiabile gustarsi quel candelotto venoso e durissimo, bollente e umido per l'infornata che aveva appena fatto, ma non era finita lì. Mario, maneggiandomi il corpo quasi fosse una marionetta, mi dispose a pecorina senza farmi staccare la bocca dal nerchione del socio che, per agevolare l'impresa, s'era inginocchiato ed ora teneva le mani sui fianchi spingendo ritmicamente fino a farmi schiumare. Il cavernicolo divaricò le gambe sopra il mio culo. Aveva valutato che ora ero pronto a ricevere la sua clava. Muggendo me la piazzò dentro a bruciapelo. Credo che per un istante persi i sensi: fu una botta tremenda, mi sentii spaccato e invaso da una forza primigenia senza neppure la possibilità di cacciare un urlo, perché adesso Enrico mi teneva la testa premuta con tutto il candelotto piantato in gola fino all'attaccatura delle palle. Nella scarsa lucidità di quel momento distinsi solo un “Arghhh” di godimento partire all'unisono dalle gole dei miei fottitori: era come un lamento roco e intenso, il segnale cavernoso di una vittoria. Iniziò una danza ritmica e primitiva in cui io ero strumento e suonatore al contempo: sul tamburo delle mie cosce sempre più roventi battevano i colpi poderosi di quei lombi rudi, sentivo le cosce ispide e massicce di Mario, tutte muscoli, aderire al mio corpo dietro e sfiancarlo con una potenza dilatatoria inimmaginabile e la mia bocca, ammaestrata ormai agli spartiti tribali del piacere, zufolava dal flauto di Enrico motivi inauditi, melodie di soffoconi spaesanti. Non so per quanto andò avanti così, ma dovette durare per un po' se a un certo punto mi sembrava di scivolare sul pavimento reso bagnato dal sudore che grondava nella foga martellante di quella brutale sinfonia. Soci negli affari e soci nel sesso, Enrico e Mario rivelavano una capacità di intesa sorprendente. Così quando il verde diamantato degli occhi di Enrico lampeggiò un cenno verso l'altro, sentii Mario che diceva: -Ok, ci siamo-. Intravidi Enrico inarcarsi sulla schiena, lo stesso doveva aver fatto Mario dietro: un colpo dirompente da ambedue le mie estremità sbrindellò le mie ultime resistenze e nello stesso istante ma in direzioni opposte un fiume in piena bollente mi penetrò le viscere, due colate laviche che sembravano corrersi incontro e arroventare ogni mio organo, nutrirlo di un'ambrosia mai gustata e potenziarne a dismisura le capacità. Un ruggito riempì il caveau, ruggito che si stemperò in ululato, infine in sospiro breve. Quali creature erano quelle che mi avevano così stemprato? Uomini, fiere, vulcani? O tutte le tre cose insieme, come all'origine del mondo quando la forza degli elementi ribolliva in un unico vortice che ora la sessualità sprigionata aveva ricreato?
Gli arcobaleni che avevano fatto sorgere dentro di me con i fiotti del loro seme annunciavano la fine della tempesta che si era scatenata e sui loro muscoli prima tesi a mille calò una quiete di appagamento totale. Eppure...eppure io il mio arcobaleno non l'avevo fatto sorgere, non avevo schizzato, come mi confermò anche il pavimento sotto di me. La parabola che Giulio mi aveva mostrato in quella lontana estate sembrava che non fossi capace a crearla. Non si smantellano in breve tempo vent'anni di convenzioni, di imbalsamatura sociale: avevo ancora un blocco psicologico. Probabilmente la mia faccia tradì la delusione perché Enrico mi chiese: - Non ti è piaciuto?- -Tantissimo, ma...-
- Non lo vedi che ne vuole ancora? Non ha sborrato il suo cazzo ritroso- interruppe Mario.
-E' vero che ne vuoi ancora?- Insistette Enrico. Dovette capire il mio imbarazzo perché mi venne vicino e mi accarezzò i capelli dicendo: - Non ti preoccupare. E' tutto a posto-. Poi puntò il socio con quel suo sguardo d'intesa che gli avevo già visto prima. Non volevano farmi uscire di lì senza avermi offerto tutto. Io m'ero accasciato contro un lato del corridoio ed eccoli distendersi al centro, schiena a terra, le gambe di Mario lungo i fianchi di Enrico, impugnare l'uno il cazzo dell'altro e farli strusciare tra loro. Mario, girando la testa verso di me, ordinò: -Dai, ricaricaci le carabine!-. Potevo disobbedire a un tono così imperioso? Mi trascinai verso di loro e mi fermai a guardare non sapendo da quale dei due cominciare. Ma fu ancora una volta la mano di Mario a risolvere i dubbi: calata sulla mia testa mi spinse la faccia su quelle cappellone luccicanti e mi costrinse a ingoiarle insieme. Sulle loro nerchie restava ancora abbondante colaticcio di sborra che succhiai con intensità, insaporendomi le labbra di quel gusto asprigno. I cazzi un po' ammosciati dalla schizzata riuscivano a starmi in bocca, ma presto ricominciarono a gonfiarsi e inturgidirsi. Pazzesco, che capacità di ricarica avevano i miei elargitori di godute! A breve iniziai ad avere conati di vomito sbrodolando saliva a più non posso sulle loro aste, ma Mario continuava a spingere con la mano perché continuassi. Gli occhi mi lacrimavano, tossivo e sentivo i nerchioni riempirmi la gola. Quando la mano del cavernicolo si staccò, caddi riverso indietro, ma Mario si alzò di scatto, mi sollevò di peso e mi posò a cavalcioni sul cazzo di Enrico, dritto come un palo. Sentii di nuovo quel candelotto attraversarmi le chiappe, riconquistare la strada già nota, riaprire il varco e catapultarsi dentro. - Guardami, amore, guardami- mi sussurrava il mio sventratore ed io protendevo il volto verso di lui, ammaliato dal suo sguardo di lussuria mentre mi chiavava con la stessa foga della prima volta. E qui accadde l'impensabile: avvertii l'ombra gigantesca del primitivo oscurare la mia schiena, Enrico cessò un attimo le spinte, le sue mani mi allargarono le chiappe per fare posto alla clava del socio che, grugnendo, me la fece entrare strusciandola sul nerchione dell'altro. Cacciai un urlo che avrebbe varcato la porta blindata del caveau se Enrico non fosse stato lesto a soffocarmelo portandomi una mano sulla bocca. Il primo minuto fu uno spasimo indicibile, poi il piacere si sovrappose al dolore oscurandolo a poco a poco. Il mio buco s'era fatto elastico, come preconizzato dai miei chiavatori. Godevano i due soci, oh se godevano, arroventandosi le due mazze l'una con l'altra nella camera compressa del mio culo. Con la solita intesa alternavano le spinte in modo da dosare le forze e il piacere. Mario inizialmente era a gambe divaricate dietro di me, poi finì con l'avere una gamba piegata e protesa in avanti verso la mia testa. Aveva ancora le adisas slacciate: afferrai quella che avevo più a portata; avevo bisogno di una droga per sopportare quell'estremo affronto di godimento maschio. Gli tolsi la scarpa, la appoggiai sul petto di Enrico e vi affondai la faccia, come a respirare da una maschera d'ossigeno, poi la offersi a Enrico perché respirasse anche lui quell'afrore rigenerante. Enrico non rifiutò, anzi sembrò apprezzare il bel gesto, perché un colpo più intenso si scatenò dalle sue reni che mi diede una gioia bruciante. Mario ora mi stava avvicinando il piede enorme alla faccia ed io non mi trattenni, feci quello che andava fatto: iniziai a pompare avidamente l'alluce nocchiuto che mi si protendeva davanti. Doveva essere un punto debole del bestione quello, perché lo sentii bramire e intensificare i colpi dentro il mio povero ano. Intanto Enrico allungò la sua mano, voleva che succhiassi anche il suo indice insieme con l'alluce del socio. Lo accontentai e fu la vertigine. Avevo due nerchioni in culo e due dita in bocca o il contrario? Che importa? Eravamo fusi in un unico ammasso di carne viva, palpitante, un crogiuolo di energia che vibrava in ogni nervo, in ogni muscolo, un ribollire magmatico di gemiti ora sordi ora acuti. Di nuovo persi il senso del tempo, ma non la capacità di godere. A un momento imprecisato ci ritrovammo cambiati di posizione: i due s'erano rimessi come quando mi avevano offerto le mazze da lubrificare insieme. Mi piazzai a smorza-candela sui nerchioni e mi lasciai calare adagio. -Uhhhhh- fu il gemito fondo degli stalloni,-Arghhhh- la mia smorfia di lamento. A quattro mani, Enrico di fronte e Mario dietro, mi facevano andare su e giù sulle aste durissime, un'idrovora che mi scavava dentro a cercare la fonte segreta da far scaturire. Ed io gioivo, esaltato, teso allo spasimo. Le sentivo gonfiarsi dentro di me, sempre più prepotenti, sempre più determinate. Enrico mi guardò e mi disse con tono imperioso: - Dai, Luca, rompi la diga con noi- E a quel comando un doppio fiotto lavico fu sparato nelle mie viscere dai loro cazzoni e questa volta agì da detonatore che fece crollare per sempre la diga della mia inibizione. Iniziai a schizzare, prima a piccoli getti, come singhiozzanti per la pressione, poi sempre più continui. E le mani sagaci dei miei liberatori con un colpo energico mi fecero ruotare due volte su me stesso, il culo impalato saldamente sulle nerchie spruzzanti, così che il mio fiotto si allargò ad abbracciare tutta l'ampiezza del corridoio, disegnò un cerchio di felicità biancastro per poi frantumarsi in tante stille che caddero ovunque, cassette di sicurezza, pavimento e soprattutto sulle lingue protese dei miei compagni che di quel nettare vollero ubriacarsi fino in fondo. Un muglio sordo di pienezza potente accompagnò dalle nostre gole all'unisono l'istante della schizzata ribollente. Che ironia! In quel luogo dove si accumulano patrimoni con un'astuzia meschina e un'avarizia ingorda, eccomi libero e fatto capace della vera abbondanza: quella primigenia degli elementi della terra, che si sfogano senza uno scopo e si placano appagati dello scialo delle loro energie più profonde.
Un attimo dopo, quando mi affacciai timidamente dalla porta blindata del caveau, scorsi al di là della vetrata degli uffici passare la macchina di Alfio: era andato a riprendere il marmocchio all'asilo. Erano le sei passate, era mercoledì, una giornata come tante.
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