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Prime Esperienze

La ragazzina che parlava troppo poco...


di Membro VIP di Annunci69.it RoccoSifredda
03.08.2021    |    1.134    |    3 9.8
"Sarà che c'era appena entrata tutta roba mia, ma in quel momento dalle sue labbra non veniva nessun cattivo odore..."
Erano i primi anni ottanta e, come ognuno di quegli anni, trascorrevo l'estate in quel di Fregene, sul litorale romano. Insieme a mio fratello più grande Enrico e a mia madre Laura, mentre mio padre Giancarlo restava a Roma a lavorare per raggiungerci ogni fine settimana. Enrico era in pieno liceo classico, mentre io avevo finito la seconda media e ancora non avevo idea di ciò che sarebbe stato il mio futuro.

Mentre il fratellone passava il tempo tra le prime sigarette, i motorini e non ultime le ragazze, come capivo dagli urli della mamma quando gli trovava i preservativi nelle tasche dei pantaloni da lavare, io tra gli ombrelloni e le sdraio dello stabilimento Riviera giocavo con i miei amici dei “Rossi”. Sì, perché ci eravamo divisi in due fazioni, i “Rossi” appunto e i “Blu”, anche se in fondo eravamo tutti amici e tutti figli del bagnino – di cui non riesco più a ricordare il nome - padre putativo che sostituiva, a volte amorevolmente, a volte meno, i nostri rimasti nella capitale. La cosa era iniziata quasi per caso, con qualche ragazzo di uno dei due gruppi – chissà chi fu il primo?! - a indossare berretti di quello che fu poi il proprio colore. Tempo qualche giorno e fu subito moda. Manlio, mio vicino di casa a via Nettuno, era il nostro capo, mentre Gianluca era quello dei “Blu”.

Tra gavettoni, gare in bicicletta e a biliardino, pallate di sabbia... a capo delle due fazioni facevano trascorrere la loro estate, la nostra estate. La mia estate.

A quell'età per me le ragazze erano ancora qualcosa di indefinito... cioè, le guardavo, mi piacevano, ma finiva là. La mia voce non era già più quella da “coro dei castrati”, ma molto vicina ai bassi di un uomo e qualche pigiama bagnato al risveglio di un liquido denso e strano confermava una pubertà finalmente arrivata. Quello era stato tutto il mio “sesso”. Fino ad allora.

Nei “Rossi” ce n'erano svariate di ragazzine che mi interessassero, anche se il mio sogno erotico ricorrente, quello che insomma contribuiva alla misteriosa produzione notturna di quel liquido denso e strano, era Noemi, con i suoi capelli biondi, lunghi e lucenti e gli occhi nocciola. Pure nei “Blu” non mancavano fanciulle carine e se avessi dovuto sceglierne una – benché non ricordi pigiami bagnati a lei associati – era di certo Simona, pelle scura che il primo sole anneriva ancor di più ed occhi verdi che si incastonavano come preziosi smeraldi in quel volto quasi perfetto.

Tra tutte queste facce e questi seni appena abbozzati e questi sederini sodi sodi che si affacciavano dai costumi, c'era una ragazzina molto particolare. Avrà avuto la mia età o poco più, un viso né bello né brutto, piccola ma ben proporzionata. La chiamavamo tutti “Colera”, per via dell'alito cattivo, che la teneva lontana da tutti. Aveva però almeno tre particolarità: mi fissava spesso, era protetta in maniera quasi morbosa da Gianluca – viveva a casa sua, poiché era una sua lontana cugina - e, probabilmente per un motivo a caso, parlava poco.

Un pomeriggio di un sabato qualsiasi di quel giugno di quell'estate, durante una gara di gavettoni mi beccai in piena faccia l'unica busta d'acqua che, zuppa fradicia, “Colera” fosse riuscita a lanciare. Per alcuni minuti credo tenni più o meno la stessa espressione di uno che avesse appena saputo di essere il figlio di Amanda Lear, ma al quale non avessero ancora detto chi fosse la madre. L'espressione non cambiò quando lei mi venne vicina e, dicendomi “Scusa” con una vocina dolce, sfiorò le sue labbra contro le vicinanze dell'angolo esterno della mia bocca nella parodia di un bacio.

Cari lettori maschi, scusate, avete mai provato a scappellarvi il pisello dopo un po' che non lo fate? Quando la cappella nella sua parte bassa è ricoperta di quella che volgarmente viene chiamata formaggia? Che odore ha? Schifo, eh?... Be', forse per “Colera” avevamo sbagliato soprannome, perché avremmo dovuto chiamarla “Sadica”: non perché fosse una stronza o altro, ma perché il suo alito aveva quella puzza là, il suo alito sapeva proprio di cazzo!

Cercai di tenermene alla larga, anche se i suoi sguardi continui e ripetuti non riuscivano a togliermela dalla mente. Credo, ancora per la giovanissima età, che fossi l'unico ad ignorare la realtà: a “Colera” non ero affatto indifferente.

Una domenica pomeriggio, un amico di mio fratello, Mirko, festeggiava il compleanno nella villetta di famiglia. Aveva invitato tutti i suoi amici e, per via di fratellanze varie, si erano ritrovati un po' di “Rossi” e di “Blu”. Insieme a suo fratello maggiore Giacomo era venuto anche Gianluca e, per non lasciarla sola a casa, visto che i genitori si recavano da amici a giocare la consueta partita a bridge, si erano portati dietro pure “Colera”.

Non era o, meglio, non sarebbe stata una domenica come tutte le altre: era l'11 luglio 1982. E non lo sarebbe stata per diversi motivi.

Noi “Rossi” e “Blu” ci mettemmo a giocare a nascondino ed io, per non farmi trovare, mi infilai in uno dei tanti sgabuzzini della villa. Mentre il mio respiro iniziava a regolarizzarsi dopo la corsa per le scale e cominciavo a sentire le prime grida, “Tana!... Tana!”, la maniglia girò e l'aprirsi della porta rivelò “Colera”. I suoi occhi scuri, quasi supplichevoli fissavano i miei, poi si abbassarono in direzione della patta dei miei pantaloni e poi risalirono ancora per socchiudersi in un battito che per me durò un'eternità. Io non sapevo se essere deliziato o inquietato da quella visita inattesa, ma non ebbi molto altro tempo per pensarci, poiché uno dei “Blu”, che l'aveva vista entrare, spalancò la porta alle sue spalle urlando “Tana!...Anzi, doppia tana!”. “Colera”, restò interdetta, poi si mise a ridere e scappò via, io rimasi lì inebetito ancora qualche minuto cercando di capire che cosa fosse successo, poi uscii anch'io.

La giornata era speciale poiché, come molti ricorderanno, la sera alle nove l'Italia allo stadio “Santiago Bernabeu” di Madrid si sarebbe disputata la finale del Campionato mondiale di Calcio contro la Germania Ovest. Perciò la festa di Mirko aveva un finale scontato: tutti davanti alla televisione, una di quelle nuove a colori, a vedere la partita e a riempirci di pizza, birra e Coca-Cola. Nonostante gli sguardi imbarazzanti di “Colera”, che era riapparsa quasi magicamente davanti al televisore dopo l'incidente pomeridiano, si prefigurava davvero una bella serata, ma quell'infame di mio fratello Enrico aveva dovuto aprirmi una Peroni e me l'aveva fatta bere per forza. Così a venti minuti dalla fine della partita, sul 2-0 della Nazionale, dovetti correre in bagno a fare pipì. Quello del piano terra non si apriva, forse era occupato, perciò salii al piano di sopra. Più che salire, corsi, poiché me la stavo per fare sotto, perciò aprii tutte le porte e nella prima che mi offriva una toilette entrai senza curarmi d'altro.

Mentre m'ero quasi liberato, udii la porta chiudersi alle mie spalle e la chiave girare. Non feci in tempo a voltarmi che avvertii un corpo dietro le mie spalle e subito dopo sentii una mano avvolgersi intorno al mio pisello. Mi girai, credo di scatto, anche se ricordo l'intera sequenza svolgersi al rallentatore, e dietro di me vidi “Colera”. Mi mise l'indice dell'altra mano sulle labbra a suggerirmi di fare silenzio, mi spostò verso il lavandino come fossi un manichino e me lo sciacquò con dell'acqua.

Dopo avermi fatto ruotare per mettermi in posizione, mi guardò ancora una volta con quei suoi occhi neri dritti nei miei, quasi a voler conficcare le sue pupille come chiodi nelle mie iridi, poi ancora un fulmineo battito di ciglia e si inginocchiò davanti a me. Avvicinò la lingua al mio coso e, appena chiusi gli occhi, cominciò a gustarsi la cappella. Lavorava il mio filetto in punta di lingua come una maestra del sesso, come una geisha, come la prima delle mignotte.

Poi gradì la cappella e la sua bocca divenne un tutt'uno col mio pisello. Tanto succhiava che due fossette le si erano create tra gli angoli della bocca e le guance, per la passione e la pressione che ci metteva. Quello che fino ad allora avevo chiamato pisello era ormai diventato grazie alle magiche cure di “Colera” un bel cazzo in erezione ed io aspettavo solo di svegliarmi da quel sogno. La ragazzina di poche parole, ma di cotanti fatti se lo spinse ancora di più in gola, mentre con la lingua continuava a mulinare intorno all'asta e con le labbra a succhiare. Un colpetto di tosse, una piccola retrazione, un sorriso e andò avanti, ingoiandolo tutto fino a sfiorare i peli. Non so come facesse, se fosse l'ugola o che cosa, ma sembrava avere una seconda lingua in fondo alla prima: sentivo come se qualcosa, da dentro, mi stimolasse la punta del cazzo.

Ad un certo punto “Colera” alzò il suo sguardo verso di me e sembrò annuire. Non so se fu un caso, ma lo fece nell'istante in cui io ebbi una strana sensazione, mai sentita prima: come una specie di valanga che mi saliva dentro ed immediatamente dopo riscendeva. Con i soli occhi risposi esterrefatto, ma fu un attimo, dopodiché per qualche minuto non capii più niente. In mezzo ai pochi ricordi che ho di quei momenti ci sono “Colera” che risale con la bocca fino alla cappella, che chiude gli occhi e che sembra bere ad una fontana o gustarsi un dessert e, ultima, la voce di Nando Martellini che scandisce ossessivo “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”. Quando ripresi i sensi, per così dire, sul sottofondo sonoro dei clacson e delle trombe festanti per la vittoria dell'Italia, vidi il volto felice di “Colera” aprirsi in un sorriso che rivelò nella sua bocca una quantità enorme di quella stessa roba di cui si bagnavano nottetempo i miei pigiami, quella stessa roba che oggi so essere sborra. “Colera” sorrideva e, continuando a guardarmi estasiata, un po' con la lingua e un po' con le dita si ripuliva la bocca ingoiandola tutta.

Allora sorrisi anch'io, mentre finalmente capivo: le puzzava il fiato, sì, le puzzava il fiato di cazzo perché le piaceva troppo bere, ingoiare la sborra; era il suo piccolo segreto, condiviso di volta in volta con ogni fortunato a lei gradito; e questo le dava in realtà il suo grande potere, quello di scegliere, di essere diversa sì, messa in disparte forse, ma di sicuro non una delle tante. Capii anche perché Gianluca la proteggeva in maniera così morbosa: non poche volte il suo cazzo doveva aver visitato quella bocca incredibile.

“Colera” con le due mani mi tirò su mutande e pantaloni alla bell'e meglio e mi guardò, avvicinando la bocca alla mia, ad un millimetro dallo sfiorarla. Sarà che c'era appena entrata tutta roba mia, ma in quel momento dalle sue labbra non veniva nessun cattivo odore. “Mi chiamo Susanna”, disse come una maestrina, “ma tu puoi chiamarmi Susy. Tu, che ora sai, non chiamarmi più “Colera”, quello lascialo agli altri. Loro, poverini, non sanno.” E sigillò la sua frase con un bacio sulla mia bocca stampato come un timbro su un francobollo. Quindi aprì il rubinetto del lavandino, bevve un sorso d'acqua, aprì la porta e corse via a festeggiare con gli altri.

In quella grande, interminabile caciara, mentre cercavo di risistemarmi, in più ricordo solo che davanti la porta spalancata del bagno passò Gianluca, il quale mi fece l'occhiolino. Mitico Gianluca!

Dopo un paio di giorni per storie famigliari Susy dovette lasciare Fregene e da quella sera non la rividi mai più. Tempo qualche anno ed anche Gianluca e la sua famiglia smisero di frequentare la cittadina in favore della vicina Santa Severa, ritenuta da loro più chic.
“Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”, riecheggiava la voce di Nando Martellini da tutte le televisioni quella notte.

Io ero solo uno dei “Rossi” di Fregene e non certo Paolo Rossi, ma, campione del mondo di diritto come ogni italiano vero, anch'io quella sera indimenticabile avevo segnato il mio gol: dritto nella bocca di “Colera”, pardon, dritto nella bocca di Susy.
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