Lui & Lei
Lidia

06.07.2025 |
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"Lei si sposta di lato, facendo sporgere dalla scrivania la gamba accavallata, e poi sfila con disinvoltura la scarpa..."
Si chiama Lidia Grassi Cicognini, è stata la mia prof di italiano all'istituto tecnico. A scuola, io e un paio di amici, ci divertivamo a svitare la protezione davanti la cattedra per guardarle le gambe e le scarpe sempre rigorosamente con tacco a spillo, certi che lei sapeva e ci provocava assumendo posizioni improbabili, senza però svelare mai cosa si celava sotto la gonna a tubo.Ci guardava con gli occhi che ridevano di noi, e metteva una stanghetta degli occhiali tra i denti, poi lanciava una domanda su quanto dovevamo studiare, certa di ricevere le solite, desolanti, risposte. Io ero l'eccezione: ero un pessimo studente, sul filo della sufficienza in tutte le materie, escluso italiano. Cosa strana, visto che, i prof prima di lei, mi dicevano che il mio futuro era lontano da libri e penne. Lidia mi guardava, chiamandomi per cognome, subito dopo lanciava la sua domanda e si poneva in attesa della risposta, sorridendomi con i suoi denti ingialliti. Io esitavo qualche istante e poi davo una risposta a caso, che casualmente era sempre corretta. Lei succhiava la stanghetta dell'occhiale e poi annuiva soddisfatta.
Tutti sapevano del suo passato e si vociferava su una relazione clandestina con il prof di educazione fisica. Io non ci credevo, lei era troppo raffinata, troppo femmina per uno scimmione come il prof Pace. Adoravo il suo accento triestino, il trasporto con cui raccontava aneddoti sulla sua città. Si truccava e si vestiva sempre in modo impeccabile, fatta eccezione per la ricrescita di capelli grigi che a volte faceva capolino sul casco castano con riflessi biondi. Quando ero in piedi, al suo fianco, durante le interrogazioni, scendevo spesso lungo lo scollo dei suoi vestiti, indugiando sulle rughe verticali che le segnavano il petto, tra il collo e i seni. Già al tempo era una donna matura, ma a me non importava. Il resto della classe rideva per la mia spudoratezza, tutti meno Luca. Lui aveva capito che, con il mio modo di fare, prima o poi me la sarei portata a letto.
Siamo a inizio luglio del 2009, ho appena superato la maturità, un risultato in cui non credeva nessuno, nemmeno io. Luca ed io stiamo festeggiando in giro per il centro, senza una meta precisa, ed ecco che la vedo. Lidia sta camminando verso di noi, a braccetto di un uomo tozzo, con un sigaro in bocca. Porta dei grandi occhiali da sole, lo sguardo è fisso sui sampietrini, per evitare che i tacchi a spillo si incastrino sulle fessure. Luca mi da una gomitata e poi si mette a sbraitare: "Buongiorno prof!"
Lei si ferma e alza lo sguardo, poi fa in cenno di saluto. Solo quando siamo a poca distanza parla, ignorando completamente il mio amico: "Barra, sei in giro a festeggiare?"
"Sì"
Annuisce e poi mi presenta all'altro.
"Lui è Flavio, un mio ex allievo molto promettente."
Non mi aveva mai chiamato per nome e non riesco a nascondere lo stupore: non pensavo che lo sapesse. Luca fa un passo indietro, senza capire cosa sta succedendo, l'uomo mi stringe la mano.
"Fausto, piacere."
I due si guardano per un istante, poi Lidia toglie gli occhiali e mette una stanghetta tra i denti, guardandomi dalla testa ai piedi, poi propone: "stiamo andando a prendere un caffè, ci fai compagnia?"
Incrocio i suoi occhi nocciola e tutto il resto scompare, in compenso un guizzo di eccitazione mi scorre nelle vene e arriva subito al capolinea.
"V ... volentieri."
Mi giro verso Luca per chiedergli se viene, ma si è già allontanato. Alza un braccio facendo un gesto che condensa rispetto, commiato, invidia, voglia di non essere parte di quella cosa. Tante volte abbiamo parlato di Lidia, e la femminilità che sprigiona, di come l'avemmo scopata, se ne avessimo avuto l'occasione. Fantasie da studenti nei confronti di una prof che, come il vapore, a quanto pare si stanno condensando in qualcosa di reale.
Siamo seduti intorno a un tavolino poco stabile, sotto l'ombrellone di un bar nel centro di Padova. Rimango in silenzio, imbarazzato per la situazione, mentre respiro il fumo passivo del sigaro del marito di Lidia. Ha appena ordinato un caffè, e la sua comanda riecheggia nella mia mente. Adoro il modo in cui pronuncia quella parola: "caffè", con cadenza triestina, allungando le due lettere gemelle al punto che quasi sento il profumo della miscela arabica che entra dalle narici, coprendo la puzza dell'arma di distruzione che Fausto armeggia con due dita grassocce.
Lei da giovane deve essere stata una figa da urlo, corteggiata da molto, posseduta probabilmente da altrettanti. Suo marito, invece, non trasmette alcun fascino. So che è un professore universitario, una persona famosa nel suo campo. Vista la moglie, l'avevo sempre immaginato come una sorta di Indiana Jones, tanto colto quanto bello e intrepido. Quello che, invece, ho davanti, mi sembra un topo da biblioteca, consumato da lunghe lezioni, noiose forse persino per lui, e convegni nei quali si rimacinano sempre le stesse cose. È proprio lui a rompere il silenzio, mentre Lidia lascia parte del rossetto sul bordo della tazza.
"Dunque tu sei il famoso Flavio Barra. Lidia ha parlato di te."
Lei appoggia la tazzina e si premura di rettificare: "Come parlo di tutti gli altri"
"Certo. In pratica conosco tutti gli allievi di Lidia."
Bevo d'un fiato il mio caffè e dico la prima cosa che mi viene in mente, che, ovviamente, è sbagliata.
"È fortunato ad avere una moglie così intelligente e bella."
I due si guardano e poi ridono di me, e io vorrei sprofondare. Era meglio se me ne andavo con Luca, almeno avrei tenuto nella memoria un bel ricordo della mia prof preferita. Mi sento un ragazzino stupido e ingenuo, è stata una pessima idea prendere il tè, me ne sto tendendo conto solo ora che capisco che, in qualche modo, questo era un test. Devo rimediare al pasticcio che ho combinato, non ci credo che lei parla a suo marito di tutti i suoi allievi, è chiaro che io sono speciale. Decido, quindi, di giocare il tutto per tutto e mi metto a fissarla come se le volessi saltare addosso da un momento all'altro. La mia mossa va a segno: i due diventano improvvisamente seri, si guardano e sembrano dirsi qualcosa in uno strano linguaggio delle espressioni che non so decifrare. Quello che, viceversa, decifro all'istante, è l'erezione imponente che quel gioco mi ha dato indietro come il rinculo di un colpo di fucile. Lei se ne accorge ma non dice niente, lui, per fortuna, non mi vede. Avrei bisogno di qualcosa di fresco da gettare sul sesso in fiamme, mi devo accontentare di mettere in bocca uno dei ghiacci che sono rimasti dentro il mio bicchiere vuoto.
“Fa caldo, non è vero Fausto?”
E prende con due dita uno dei ghiacci rimasti nel mio bicchiere, poi lo porta tra le labbra e lo succhia. Il cuore mi si è fermato, la visione della mia prof di italiano che fa la troia con me nel bel mezzo di una piazza nel centro di Padova è la cosa più erotica che abbia mai visto. Non c'è porno che tenga, non c'è donna che in questo momento scambierei con Lidia. Improvvisamente l'altro getta un mazzo di chiavi sul tavolino di metallo, facendo un casino che mi fa sobbalzare, poi si alza.
“Vi devo lasciare. È stato un piacere conoscerti, Flavio.”
Mi fa un cenno e si allontana prendendo in mano lo smartphone. Anche Lidia si alza.
“Andiamo. Ti voglio far vedere una cosa.”
La cosa si fa interessante. riprendiamo la passeggiata senza parlare. Lei mi prende a braccetto con la massima disinvoltura e cammina a testa bassa, io mi guardo in giro per vedere le reazioni dei passanti, scoprendo che la scena passa del tutto inosservata. Lei sembra leggermi nel pensiero, proprio come faceva quando mi interrogava, facendo domande proprio sugli argomenti che non avevo studiato.
“Pensano che tu sia mio figlio. E, se anche ci guardassero, ricorda quello che ti ho sempre detto: il giudizio degli altri pesa solo nelle persone che non sono sicure di se stesse. Tu lo sei?”
“Sì, e so cosa voglio.”
Si ferma e fa una gran risata.
“Hai 19 anni, tu hai un solo scopo nella vita, così come ti sei fatto un'idea sbagliata su cosa ti voglio far vedere. E le due cose coincidono.”
“Non è vero.”
Prosegue senza rispondere, poco dopo Infila una chiave nella toppa di un portone. È un palazzo molto vecchio, al punto che non c'è l'ascensore e dobbiamo salire usando le scale. Lei fa strada, la seguo affascinato dal suo culo che ancheggia mentre sale le scale con la sua proverbiale classe ed eleganza. Amo ogni cellula di questa donna, e odio il suo compagno di vita che non capisce il privilegio che ha, nello starle vicino.
“Scoparti.”
Sento la mia voce che profana il silenzio di quel posto e mi aspetto che qualche mummia venga risvegliata dal sonno eterno ed esca da una di quelle porte rivendicando la pace che ho turbato con i miei sensi.
Si gira e sussurra, scandalizzata.
“Cosa hai detto?”
“Il mio pensiero fisso, la cosa che mi vuoi far vedere. Ti voglio scopare, e anche tu lo vuoi, lo so.”
Lidia tentenna con la testa, sconsolata, poi apre il portoncino dell'appartamento.
“Entra, stupido ragazzino.”
Appena chiude la porta, riconosco il tanfo del sigaro, impregnato ovunque: sulle tende, sui tappeti, persino sui muri!
“Questo è lo studio di Fausto, il posto dove studia e lavora. Io ci vengo di rado … penso sia passato un anno dall'ultima volta che ci ho messo piede.”
Entriamo in una stanza al centro della quale c'è una ampia scrivania piena di fogli e libri. Lidia Si siede sulla poltrona e mi invita a sedermi sulla sedia degli ospiti, di fronte a lei. Mi sembra di essere tornato a scuola, sento riaffiorare la soggezione di cui mi sono appena liberato.
“Cosa ci facciamo qui, Lidia?”
È la prima volta che la chiamo per nome, che mi rivolgo a lei come un pari, e mi sento bene, maschio, maturo. Lei si sposta di lato, facendo sporgere dalla scrivania la gamba accavallata, e poi sfila con disinvoltura la scarpa.
“Ah, queste scarpe mi fanno morire. Ma sono bellissime, non trovi?” Annuisco, mentre lei massaggia con delicatezza il piede velato dalla calza di nylon, e subito dopo rimette il sandalo, poi prende una cornice appoggiata su un lato della scrivania e me la porge. “Ti ho portato qui perchè volevo che vedessi questo.”
Nella foto c'è una coppia, a giudicare dell'abbigliamento risale agli anni settanta, forse ottanta.
“Siamo io e mio marito quando avevo più o meno la tua età.”
Allunga una mano sotto la scrivania per massaggiare una caviglia.
“E con questo?”
“Il tempo è tiranno, la giovinezza non torna, neanche se ti metti con …”
“Un ragazzino, ho capito. Quindi mi hai portato qui per scoraggiarmi? Ne sono lusingato ma non me ne frega un cazzo”
“Linguaggio Barra, il linguaggio.”
“Scusa prof. Volevo dire che la donna della foto è bellissima e deve aver vissuto quegli anni a pieno. Ma io ho conosciuto quella che ho davanti, è lei che voglio.”
Fa un cenno.
“Ah, ti vuoi solo togliere una voglia … senza sapere cosa c'è sotto alla carta regalo.”
“Se mi permette di scartare il pacco, possiamo scoprirlo insieme, no?”
Smette per un attimo di massaggiarsi i piedi, appoggia gli occhiali sulla scrivania e mi fissa, apparentemente interessata.
“Sentiamo: come lo scarteresti, questo pacco? Sono certa che ne hai parlato spesso in classe con i tuoi amici.”
Alzo le spalle e sfoggio il mio sorriso malandrino.
“Il suo culo andava per la maggiore. A novanta sulla cattedra.”
Un velo di rossore le attraversa il viso, quasi come una nuvola nel cielo in una giornata ventosa.
“Un poco me lo immaginavo. In tanti anni di insegnamento, tu sei il primo che scavalca la trincea dell’omertà. Sei molto audace, Barra. O molto stupido.”
Annuisco sorridendo. “Dovrebbe conoscermi, prof, quando mi metto in testa una cosa …” subito dopo mi alzo e mi sposto su un lato della scrivania. “Posso? Dicono che sono molto bravo a massaggiare i piedi.”
Lidia fa scorrere ancora la poltrona da ufficio a rotelle e rimane immobile, con le gambe incrociate. Io prendo il sandalo a mezz'aria e lo appoggio sul tappeto come se fosse di cristallo, quindi inizio un massaggio leggero sul piede nudo. Anche i piedi, come tutto il resto, è bello e proporzionato. Prima le ho mentito, in effetti la bellezza che lei esprime è solo un'idea di quello che era da giovane, ma sono convinto che la ragazza della foto non possedeva il fascino che si acquisisce solo con l'esperienza.
È la prima volta che la tocco, tolta la stretta di mano dopo l'orale disastroso della maturità. Sento le sue dita sciogliersi a mano a mano che i miei movimenti si fanno più incisivi e profondi. Non mi vergogno degli shorts che si sono gonfiati, evidenziando una lunga linea che punta verso l'ombelico. Lei sposta il piede, liberandolo dalla mia presa e lo sfiora con l'alluce prima di appoggiarlo a terra, per pretendere lo stesso trattamento all'altro piede. Ripeto lo stesso rituale di poco prima, ancora scosso dal brivido che il suo tocco mi ha provocato. Il piede nudo poggia a terra rimanendo in punta di piedi, quasi ci fosse un tacco invisibile a forzare quella posizione innaturale. Mi ricorda i piedi della barbie della mia cugina più piccola, ma molto più sensuali. Lei rimane in silenzio e mi guarda, scorrendo una mano su e giù sul petto nudo, lungo le rughe che lo segnano. Vedo i capezzoli che bucano il vestito, non è la prima volta che li vedo segnare i vestiti che indossa. Io e i miei compagni di classe abbiamo costruito storie intere su quei due bottoncini turgidi, ipotizzando delle sveltine in sala professori, o con qualche ripetente ormai ventenne delle altre sezioni. La sento mormorare: “Un uomo non mi tocca così da troppo tempo.” Poi sospira e chiude gli occhi.
Infilo un dito nella fessura dell’alluce, lei lo piega ad artiglio e piega la caviglia per allungare il piede all’estremo, subito dopo divarica le dita. Lo smalto rosso delle unghie è invitante, faccio scorrere lentamente la mano libera lungo la caviglia, mentre le bacio la pianta del dito.
“Ti piace?”
La mia voce la risveglia dallo stato di estasi, subito abbassa il piede e per un breve istante vedo le sue mutande. Quante volte, io e miei amici, abbiamo cercato quel momento, smontando il pannello anteriore della cattedra, consci che se ci avessero scoperto ci saremmo beccati una sospensione. Ne sarebbe valsa la pena, ma non accadde. adesso , finalmente, ho raggiunto l’obiettivo, un premio tutto mio che non devo spartire con nessuno.
La professoressa si ricompone, rimette i sandali e poi decreta: “Adesso è meglio che tu vada.”
Mi alzo, esibendo l’erezione che sta per far scoppiare i bottoni della patta, e mi avvicino, ma lei indietreggia con la sedia e poi si alza.
“Prima hai detto che da molto tempo un uomo non ti toccava così ...”
“Non ho detto questo, e, comunque, non sei un uomo, non ancora.”
Ricordo una sua battuta di qualche anno prima, quando spiegò alla classe un episodio de “I Promessi sposi”.
“Un vero uomo, con i peli nello stomaco, come i bravi.”
“I peli sullo stomaco, Barra. Comunque sì: un uomo vero, virile, forte, deciso.”
Prende un foglietto e scrive un numero, poi me lo porge.
“Sono convinta che lo diventerai. È per quel giorno, se non avrai cambiato idea.”
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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