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Il giusto prezzo


di HarrymetSally
13.12.2018    |    9.158    |    31 9.5
"La disarmonia di forme e colori mi aveva disorientata e ricordo di aver pensato che quella figura sarebbe apparsa altrettanto adeguata nel consiglio direttivo..."
Soggiogata.
Non mi capitava spesso di utilizzare quella parola, specie su me stessa, ma in quel momento, mentre vestita soltanto di un body in tessuto trasparente e un paio di tacchi a spillo, seguivo il mio oscuro anfitrione lungo la ripida scala a chiocciola, diretta verso le viscere dell’edificio, era quello che sentivo. Quello che ero.
L’uomo camminava di fronte a me, con passo sicuro, sfiorando il corrimano in ferro battuto con l’indice della mano destra. Nella sinistra reggeva l’impugnatura del guinzaglio in cuoio color sangue che era serrato attorno al mio collo. Di tanto in tanto, dava un leggero strattone, appena accennato, per ricordarmi qual era il mio ruolo, e perché ero lì. Faticavo a tenere il passo, non potendomi aiutare con le mani. I polsi, immobilizzati dietro la schiena nell’abbraccio d’acciaio delle manette, mi facevano male e così spalle e braccia, costrette in quella innaturale posizione.
Mentre percorrevo quella spirale di cemento e ferro apparentemente interminabile, diretta verso il luogo nel quale si sarebbe tenuta la mia udienza, ebbi modo di ripensare alla catena di eventi, straordinari e terribili, che mi aveva condotta lì.
Come quasi ogni evento rilevante della mia vita, tutto era cominciato all’aeroporto.
Ero in attesa del mio volo, di ritorno da un incarico estenuante per una compagnia scozzese, e mi stavo godendo il tepore del raccolto lounge, dopo che i freddi venti del Nord mi avevano arrossato la pelle e scompigliato i capelli.
Fu in quel momento che lo notai. Un uomo sulla cinquantina, alto e corpulento, nel quale quella massa indistinta trasmetteva un’aura di potenza e stabilità piuttosto che di flaccida pigrizia. Possedeva grasso e muscoli in proporzioni eguali, disposti lungo quel corpo smisurato in una sorta di armoniosa casualità, e il tutto era avviluppato entro un elegante abito di sartoria che ne faceva risaltare la statura. Una lunga e curata barba grigia faceva da contrasto a un cranio completamente rasato con un tatuaggio tribale lungo la base, che gli andava da orecchio a orecchio come una cicatrice di guerra sulla pelle olivastra.
La disarmonia di forme e colori mi aveva disorientata e ricordo di aver pensato che quella figura sarebbe apparsa altrettanto adeguata nel consiglio direttivo di una multinazionale e sulla chiglia di un vascello pirata.
Di fianco a lui sedeva un uomo che sembrava essere la metà esatta della sua stazza, con occhiali tondi in madreperla e un’espressione indaffarata sul viso da furetto. Una rada colonia di capelli rossicci gli colorava le tempie, ai lati di una calvizie appuntita che lo faceva sembrare ancor più minuto. Prendeva appunti su un taccuino, e quello sfacciato anacronismo mi strappò un sorriso.
Fu proprio quel sorriso che l’immenso sconosciuto, forse per caso, intercettò, sorridendo di rimando con una espressione che scoprì una fila di denti dal candore quasi scintillante.
Sollevò il bicchiere, pieno per metà di un liquido chiaro e apparentemente denso, indirizzando un brindisi nella mia direzione.
Senza lasciarmi intimidire, lasciai che il suo sguardo mi lambisse piano, offrendogli dapprima il mio sorriso, poi la vista del mio collo affusolato e del mio busto esile ed elegante, il cui portamento era stato plasmato da anni di danza in una delle più severe scuole d’Europa. Infine, vidi i suoi occhi posarsi sulle mie gambe snelle e al tempo stesso possenti, appena nascoste da un paio di autoreggenti color carne.
Il gigante distolse lo sguardo, tornando a dedicarsi alle proprie attività, imitato dallo scribacchino che si reimmerse nel convulso annotare di prima.
Aprii il mio Mac e cominciai a stilare il rapporto della riunione. Era stata sanguinosa ma proficua, dal momento che eravamo riusciti a riorganizzare alcuni dei processi decisionali più farraginosi della compagnia. Mi ero fatta qualche nuovo nemico tra i dirigenti di livello intermedio, ma mi avrebbero ringraziata da lì a un anno, quindi per quanto mi riguardava potevano anche leccarmi i tacchi delle scarpe.
Avevo appena cominciato a organizzare la prefazione, quando mi sentii disturbare da un sommesso colpo di tosse. Era il furetto. Notai solo allora la sua postura rinsaccata, che mi fece venire in mente i burocrati dei libri di Dostoevskij.
“Il signor Henke vorrebbe invitarla al suo tavolo, se non le dispiace” disse in tono che mi parve al tempo stesso impettito e imbarazzato.
Perché gli uomini sanno essere così prevedibili?
“Dica al signor Henke che lo ringrazio, ma devo dedicarmi al mio lavoro” risposi, secca, e mi tuffai nuovamente sulle lettere e cifre sul monitor.
“Sì – incalzò il furetto – il signor Henke aveva previsto una risposta del genere, e mi ha detto di darle questo”. Mi allungò una busta da lettera, poi si ritirò.
Ignorai ostentatamente la busta per qualche minuto, continuando a scrivere sul Mac. Di tanto in tanto, lanciavo una occhiata si sottecchi in direzione di colui che, a quanto pareva, era noto come il signor Henke. Era impegnato in una conversazione con il barman, apparentemente dimentico della mia presenza. Lo scribacchino, nonché ruffiano part-time, era sparito.
Aprii la busta.
C’erano un biglietto e quello che sembrava un assegno.

Mi permetto rispettosamente di lanciarle una sfida. Il suo orgoglio contro il mio portafogli. Chi vincerà? Le ho accluso un assegno in bianco, già firmato. Scelga lei la cifra che le occorre per dedicarmi cinque minuti del suo tempo, poi mi raggiunga.

Fissai il biglietto, poi Henke, poi ancora il biglietto. Se voleva giocare pesante, aveva scelto la donna giusta. Annotai un uno e diversi zeri sull’assegno, lo misi nella borsa e mi diressi verso il mio massiccio avversario.
“Non vuol sapere che cifra ho scritto?” chiesi, avvicinandomi al basso tavolino da caffè al quale era seduto.
“Non ha alcuna importanza – rispose Henke, in un perfetto italiano nel quale vi era appena una traccia di asprezza tedesca – però vorrei godermi ciò per cui ho pagato. Mi scuso, ma ero impegnato in una conversazione con il nostro capace barman e non l’ho vista avvicinarsi. Potrebbe cortesemente tornare indietro, e poi camminare fino a qui?”
“Come, prego?” lo apostrofai con un tono disorientato, virante all’offeso.
“Adoro le ballerine di danza classica. Nessuno si muove come loro. Potrebbe concedermi il piacere di una sua camminata?”
“Come fa a…”
“Non difficile. Lei ha una struttura fisica leggera, ma le gambe sono muscolose, specie i polpacci. È tipico di chi ha trascorso molto tempo in equilibrio sulle punte. La postura del tronco, la schiena leggermente inarcata al livello dei lombi e il modo in cui la testa è perfettamente in linea con l’asse orizzontale sono altri segnali inequivocabili. Infine, il tono della sua carnagione è quasi impossibile da trovare, se non al prezzo di una ferrea disciplina alimentare. Ho notato che spesso chi si è dedicato con passione alla danza per molto tempo tende poi a mantenere certe abitudini anche in seguito. Quanti anni sono stati, dieci?”
“Dodici” risposi, attonita e vagamente lusingata.
“Vede, non sbagliavo! Allora, mi sono guadagnato l’onore di ammirarla camminare?”
“Direi di sì.”
Percorsi a ritroso la distanza che mi separava dal mio tavolo poi, lentamente, tornai da lui, fissandolo negli occhi con un sorriso tenue che dovette sembrargli incantevole, perché spalancò gli occhi in un’espressione di aperta ammirazione.
Avrei potuto sentirmi stupida, non fosse stato per il peso di tutti quegli zeri nella borsa e il sorriso estasiato del mio interlocutore.
“Soddisfatto?” chiesi in un tono che avrebbe voluto essere sbrigativo, ma risultò civettuolo contro la mia stessa volontà.
Il furetto, nel frattempo, era tornato a sedersi, ma aveva smesso di scrivere e sembrava aver deciso di godersi anch’egli lo spettacolo che stavo offrendo.
“Di più – rispose Henke – direi emozionato.”
“Lo sarà un po’ di meno domani, quando vedrà quanto le è costato questo spettacolino” gli sorrisi, sarcastica.
“Non c’è prezzo per quello che mi ha donato” rispose con una espressione di intensa sincerità sul viso largo. Solo in quel momento notai gli occhi stretti e azzurri, simili a quelli di un gatto. Lo avrei forse considerato un gesto di piaggeria, se non avessi avuto la prova tangibile di quella gratitudine.
“Cosa posso fare per lei, signor Henke?” domandai.
“Volevo solo conoscerla. Non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno con la sua classe innata. Ora posso prendere il mio volo con serenità.”
Fui spiazzata e quasi infastidita da quella totale assenza di pretese. Quale uomo paga quella cifra per una camminata e un saluto?
“Sicuro che non ci sia altro che posso fare per lei?”
“Non mi permetterei mai di offendere una donna della sua statura con ulteriori richieste. I patti erano chiari, i miei soldi per vederla camminare fin qui. Lei ha ottemperato alla sua parte dell’accordo, io alla mia. Questo fa di noi due perfetti soci in affari.”
“Allora non mi resta che ringraziarla” chiosai, sempre più confusa.
“Tuttavia – disse Henke, stringendo la mia piccola mano nel suo palmo sterminato – se volesse essere così gentile da contattarmi in un secondo tempo, potrei avere un’altra proposta di affari per lei.”
La forza soverchiante della sua stretta, unita alla gentilezza quasi melliflua della sua voce, mi diede un senso di vertigine. Avvertivo la presenza di una terribile forza predatoria, contenuta e nascosta da un sottile quanto ammaliante strato di civiltà, come una tigre con addosso un abito di Armani.
“Non mancherò” risposi mio malgrado. Presi il biglietto da visita che il furetto mi stava agitando davanti, e mi allontanai.
Durante tutto il viaggio di ritorno, in aereo prima, e successivamente al riparo nella mia auto con Giorgio alla guida, non feci che ripensare a quell’incontro.
“Che cosa c’è?” chiese lui, mentre la Audi nera si incuneava nel traffico della sera.
“Ho fatto uno strano incontro” riposi.
“Strano nel senso che ti sei bagnata?” incalzò con un sorriso. Come sempre andava dritto al punto, e non aveva mai paura di svoltare in uno dei miei vicoli oscuri.
“No. Non lo so.”
“Intendi raccontarmi qualcosa?”
“Non ora. Quando ci avrò capito un po’ di più.”
Fu la fine della conversazione. Giorgio sapeva che non gli avrei mai mentito, e tanto gli bastava.
Quando fossi stata pronta, gli avrei raccontato tutto, e sarebbe diventato parte della nostra storia, di quello che eravamo e stavamo diventando. Io, per parte mia, ero molto più possessiva, ma questa disparità non lo disturbava affatto. Nonostante fosse un uomo che le donne trovavano terribilmente affascinante, non sembrava interessato a testare i confini della mia gelosia. “Tu sei tutte le avventure che desidero”, era solito dirmi quando entravamo in argomento.
La mattina seguente versai i centomila euro sul mio conto, realizzando quella che era probabilmente la passeggiata più costosa della storia. Tornai a casa e sedetti davanti al computer, ma non conclusi granché. La testa tornava incessantemente a quella conversazione e al biglietto da visita nella mia borsa. Che cosa mi aspettava, se avessi deciso di chiamare? Avevo scoperto che Julian Henke era a capo di una holding sotto la cui influenza si trovavano diversi gruppi con i quali avevo lavorato in passato, ed era a tutti gli effetti uno degli uomini più ricchi del pianeta. La sua biografia era una sorta di puzzle di difficile composizione. Nato a Ginevra da padre tedesco e madre originaria della Martinica francese, aveva un dottorato in finanza comportamentale alla Berkeley, conseguito in età da ragazzo prodigio, e aveva fatto i primi soldi veri controllando movimenti di denaro non completamente limpidi nel Sud-Est asiatico. Esattamente come la sua figura, la vita di quell’uomo era un indecifrabile miscuglio di tratti raffinati e rozze appendici, che appariva elegante come i suoi sottili occhi chiari o rozzamente minacciosa come il suo tatuaggio, a seconda dell’angolazione da cui la si osservava.
Trascorsi l’intera giornata preda di una inconcludente irrequietezza, dibattendomi tra le alternative, i timori e le fantasie.
Come sempre mi accadeva, cedetti infine alla curiosità. Composi il numero sul cellulare. Il prefisso era italiano, e la cosa per qualche motivo mi sorprese.
“Pronto?” rispose la voce all’altro capo del filo. Era lui. Nessun segretario, nessun intermediario. Quel contatto così immediato e diretto mi lasciò indifesa. Avevo calcolato di poter prendermi un paio di minuti per organizzare le idee, mentre la mia chiamata veniva smistata, invece mi trovavo già con la mano nella bocca del leone.
“Buongiorno, io…”
“Ah, la nostra adorabile ballerina! – esclamò, come se non avesse mai nutrito alcun dubbio sulla mia chiamata – Si è fatta attendere. Mi aspettavo di sentirla già in mattinata.”
“Dovevo riflettere” dissi, sinceramente.
“Capisco. Bene, il mio autista dovrebbe essere da lei a minuti.”
“Come…”
“Mi sono permesso di allertare uno dei miei collaboratori e farlo gravitare in zona, qualora avesse deciso di telefonare.”
“Vorrei precisare che non intendo impegnarmi in alcun modo fino a quando i termini della proposta non saranno chiari.”
“Mi sembra giusto – rispose Henke senza perdere il suo tono sfrontato – ho dato chiare istruzioni al mio incaricato di mettersi a sua completa disposizione, ma troverà che la natura della mia offerta è di una singolare limpidezza.”
Pochi minuti dopo, mi trovavo adagiata sul sedile posteriore di una Mercedes blu notte, guidata da un impeccabile quanto silenzioso autista. La vettura aveva quell’inconfondibile odore di pelle delle vetture nuove e costose, che a me aveva sempre dato un senso di nausea.
Senza distrarsi dalla guida, il conducente allungò un braccio dietro di sé e mi passò un biglietto.
Erano le istruzioni per accendere il monitor che si trovava di fronte a me, e le eseguii con crescente curiosità.
Appena ebbi inserito la password e avviato il sistema, il faccione di Henke comparve sorridente, salutandomi come se fossimo amici di vecchia data.
“Allora, posso sapere di che si tratta?” domandai in tono brusco. Quella sciarada cominciava a innervosirmi.
“Con piacere. Vede, la mia è una semplice e diretta proposta di affari. Io sono disposto a pagare una cifra di sua scelta, in cambio della sua totale disponibilità sessuale fino alle ore sei di domattina.”
“Non sono una escort” dissi, senza scompormi più di tanto. Non era la prima volta che qualcuno mi offriva denaro in cambio di sesso, ma benché non avessi alcun giudizio morale sulle professioniste del settore, non ero una di esse.
“Lo so bene, e non è quella la mia richiesta. Io non le chiedo soltanto sesso. Io esigo la sua totale sottomissione. Il suo orgoglio, la sua emancipazione femminile, la sua innata alterigia… tutto apparterrà a me fino a domattina. Io la userò, poi la presterò ai miei amici, poi la userò ancora.”
Mio malgrado, mi sorpresi a deglutire. La saliva mi si era fatta densa e pesante in bocca.
“Cosa le fa credere che accetterei un accordo simile?”
“Accetterà, ne sono certo. Ieri, lei ha attribuito un prezzo alla sua camminata, e io l’ho pagato. Ora io le chiedo di attribuire un prezzo al suo corpo e alla sua dignità, e io pagherò anche quello.”
“Perché?” chiesi.
“Perché io ho un debole per le donne come lei. Ho riconosciuto i sintomi, quando l’ho incrociata all’aeroporto. La noncuranza dello sguardo, quella sensualità sfacciata eppure sfuggente, il sorriso intrepido di chi sente di poter prevalere, sempre. Eppure, quando io le ho offerto soldi, lei li ha presi, e ha obbedito.”
“Quindi sono una puttana?”
“No, non ancora, ma mi sono ripromesso di aiutarla a diventarlo. Ho fatto ricerche su di lei. Ha già offerto sesso in cambio di una cospicua contropartita economica, ma fino a oggi ha sempre potuto rivestire le sue decisioni di qualcosa d’altro. Un valore morale, una motivazione umanitaria, oppure un modo bizzarro ed eccentrico di intendere la sua professione. Io invece voglio che qui, adesso, lei prenda i miei soldi per farsi fare tutto quello che desidero. Voglio che ammetta con se stessa di essere una sgualdrina come tante.”
“Mi spiace deluderla, ma non succederà” dissi, avviluppandomi nel mio orgoglio.
“Si sbaglia. Ora le spiegherò tutto, e alla fine lei cederà, perché è nella sua natura. Se lei decidesse di accettare, diverrebbe di mia proprietà fino alle sei di domani mattina. Tale passaggio di proprietà sarà sancito da un regolare contratto, che il mio collaboratore tiene al momento custodito nel vano porta-oggetti. Ovviamente, tale accordo è soggetto a restrizioni. Io mi impegno a non portare avanti alcun comportamento lesivo nei confronti della sua incolumità, al netto di quell’indolenzimento, che sono certo le sarà familiare, dovuto all’essersi concessa alla prepotenza del desiderio maschile per molte ore. Lei si impegna a obbedire a qualunque richiesta provenga da me o dai miei invitati, purché tali richieste non mettano a repentaglio la sua integrità fisica. Dovrà accettare qualunque mezzo di costrizione noi decideremo di usare su di lei, siano esse corde, manette, bavagli o altro, sempre nel rispetto della sua incolumità. Io e i miei commensali potremo usarla sessualmente in qualunque modo lo riterremo opportuno per il nostro piacere, e lei dovrà collaborare senza opporre resistenza. Ha capito?”
La gola mi si era seccata e le labbra erano come incollate assieme. Annuii.
“Ora, veniamo al prezzo. Le chiedo di attribuire un valore economico alla sua sottomissione.”
“Non credo di riuscire…” balbettai.
“Certo che ci riesce! – rise Henke – Io le sto offrendo di passare dal mondo dei benestanti a quello dei magnati. Non esiste limite a quello che io sono disposto a pagare per averla al mio comando. Sta a lei fare il prezzo della sua dignità. Quando avrà deciso, digiti la cifra sulla tastiera, e io trasferirò immediatamente la somma sul suo conto presso la Royal Bank of Scotland.”
Credo che alcune donne, al mio posto, avrebbero rifiutato, sdegnate. Non tante, anche se sono certo che a molte piacerebbe pensare il contrario. Altre, probabilmente, si sarebbero prese qualche minuto per pensare, valutare i pro e i contro e fare elaborati quanto inutili calcoli numerici. L’infinito è incalcolabile, ed era esattamente quello che mi veniva offerto. Denaro illimitato in cambio di illimitata sottomissione.
Io, dal canto mio, reagii di impulso. Digitai una cifra che avrebbe per sempre cambiato l’esistenza mia e di Giorgio, che ci avrebbe proiettati entro un altrove del quale avremmo dovuto, in seguito, riscrivere le regole.
Henke rivolse lo sguardo in basso a sinistra, ove immaginai la mia richiesta stesse lampeggiando, in attesa, poi premette alcuni tasti sulla propria tastiera.
“Può in qualsiasi momento verificare che la somma richiesta le è stata accreditata. Effettuati i controlli del caso, le chiederei di siglare l’accordo e mettersi a nostra disposizione.”
Diceva la verità, ovviamente. La cifra era già stata trasferita sul mio conto. Notai che il mittente aveva allegato una completa visura del fondo finanziario da cui proveniva il denaro, oltre a una lettera di motivazione che spiegava la natura della donazione, in osservanza delle severe norme antiriciclaggio britanniche. Oltre a denotare grande conoscenza dei sistemi finanziari, quel gesto era anche la conferma che Henke sapeva, fin dal primo istante all’aeroporto, che avrei accettato, e aveva redatto in anticipo la documentazione necessaria.
L’autista mi porse il contratto e una penna. Lessi attentamente, clausola dopo clausola. Tutto era identico a come era stato presentato a voce. Mentre firmavo la sentenza che faceva di me una puttana, mi sentii intimorita ed eccitata dalla vastità di quella decisione, e delle sue conseguenze.
Nel frattempo, l’auto abbandonava le vie cittadine per imboccare strade il cui paesaggio si faceva via via più verde e misterioso. Un tramonto tagliente mi feriva gli occhi, costringendomi a distogliere lo sguardo, come se anche il sole avesse deciso di esprimere il suo giudizio morale sulla vicenda.
Mi afflosciai sul sedile e chiusi gli occhi, cercando di perdere la cognizione del tempo e dello spazio mentre la Mercedes accarezzava il suolo con la grazia di un falco in planata.
Era ormai buio quando finalmente il motore si arrestò e l’autista mi aprì la portiera, invitandomi a uscire. L’aria era pungente, più fredda di quella che avevo lasciato a Milano, con una intensa nota boschiva che mi fece immaginare di essere in qualche collina dell’area intorno a Lecco.
Mi guardai intorno. Se nella mia fantasia avevo materializzato una villa in stille liberty con marmo di Carrara e vetrate istoriate, dovetti rapidamente azzerare quelle aspettative. Non sarebbe stato Eyes Wide Shut, ed era oggettivamente difficile capire cosa sarebbe stato. Quello che avevo davanti era un cottage di campagna a due piani, dall’aria innocua e perbene, una di quelle casette dove uno si immaginerebbe che una anziana coppia di pensionati venga a godere il fresco della collina, non certo il teatro di indicibili riti sessuali. La casa aveva un tetto in paglia sul modello inglese, e le pareti erano di un pregiato mattonato color caffelatte lavorato a mano. Dalle ampie vetrate riuscivo a intravedere una graziosa cucina in stile coloniale al pianterreno.
L’autista mi guidò oltre la robusta porta di legno verniciato in rosso, e mi indicò silenziosamente le scale che conducevano al piano superiore. Cominciai a salire gli stretti gradini, e mi accorsi del passo felpato dell’autista, che saliva subito dietro di me.
La mia guida mi indicò una stanza alla mia sinistra, una spaziosa camera da letto arredata quasi completamente in bianco, con un soffitto basso e una piccola finestra sulla parete di fronte all’ingresso.
Entrai. Gran parte della camera era occupata da un grande letto a due piazze e mezza, la cui testiera era appoggiata contro la parete sotto la finestra. Al centro del letto era deposta una valigetta, mentre c’era un piccolo ma elegante bagno en suite piastrellato in grigio chiaro sulla mia destra. La parete opposta era quasi completamente spoglia, a eccezione di un monitor a cristalli liquidi di circa una trentina di pollici. L’autista prese il telecomando dal comodino di fianco al letto e accese il monitor.
Henke sorrideva ancora, come se fosse passato meno di un secondo dalla nostra precedente conversazione.
“Benvenuta cara” disse.
“Dove mi trovo?”
“Considerato che nulla di male le accadrà finchè si trova in questa casa, e che dopo oggi non avrà mai più occasione di mettervi piede, penso che sia una informazione non rilevante. Assai più importante è che lei sappia cosa deve fare. È pronta?”
“Sì” risposi, con una nota di esitazione nella voce che non mi piacque affatto.
“Bene. Per prima cosa, approfitti pure del bagno per rinfrescarsi dopo il viaggio. Faccia un bagno caldo, e si serva pure delle creme e lozioni che abbiamo messo a sua disposizione. Io la aspetterò qui.”
Il mio acquirente, a quanto pareva, desiderava servirsi di una merce pulita e profumata.
Decisi di accontentarlo. Non che avessi scelta, ovviamente.
Sfilai sotto lo sguardo neutro dell’autista e mi infilai nel bagno. Versai una miscela di sali del Mar Morto nella vasca e feci scorrere l’acqua calda. Contemplai allo specchio il mio volto teso e gli occhi spaventati, in fondo ai quali brillava tuttavia quella luce di attesa che avevo imparato a riconoscere. Mi ero venduta, e un qualche corrotto distretto della mia anima trovava la cosa inebriante.
Mi immersi nell’acqua, facendo attenzione a non bagnare i capelli, e mi rilassai. Una goccia cadeva dal rubinetto ogni manciata di secondi, scandendo il tempo di quel torbido preludio. Mi stavo preparando per essere posseduta, e Henke era stato chiaro su questo, non sarebbe stata una cosa per pochi intimi. Rendermi bella per essere scannata da un branco faceva di me… cosa? Un agnello sacrificale? La più infima delle troie? Una donna coraggiosa? Forse un po’ di tutto questo.
Riemersi in una nube di vapore e mi asciugai con cura, frizionando la pelle con un delizioso olio alle mandorle. C’era una trousse di cosmetici appoggiata sul lavabo, e non sapevo se essere più lusingata o turbata nel rendermi conto che conteneva tutti i miei trucchi preferiti, incluso il mio inseparabile rouge Chanel, che distesi con un automatismo dettato dall’abitudine lungo il profilo delle mie labbra sottili.
Afferrai l’accappatoio di morbida spugna rosa appeso alla porta e tornai in camera. Come promesso, Henke era lì.
“Benissimo – esclamò nel vedermi – noto con piacere che ha avuto modo di rilassarsi. Ora le chiederei di osservare gli oggetti disposti per lei sul letto.”
Mi accorsi solo in quel momento che, durante la mia assenza, l’autista aveva aperto la valigetta, il cui contenuto era adesso in mostra per me.
“Posso chiederle di indossare la sua uniforme di questa sera?”
Annuii. Mi spogliai dell’accappatoio, restando completamente nuda. Henke si abbandonò a un sorriso compiaciuto che non celava in alcun modo il desiderio. Se l’autista provò una qualche emozione alla vista delle mie forme, fu bravissimo a nasconderla.
Infilai il body, un intrico di fasce e strisce sottili che sublimava la mia pelle in un reticolo di trasparenze, lasciando la schiena, l’addome e le natiche quasi totalmente esposte. Mio malgrado, mi trovai bella in quella veste che dichiarava così chiaramente la mia disponibilità sessuale.
Calzai gli stivali di latex nero con i tacchi a spillo, alti fino al ginocchio, che l’autista mi porse con fare professionale, privo di qualsivoglia ammiccamento.
Infine, raccolsi la sottile striscia di cuoio color cremisi che ancora giaceva sul letto, senza capire.
L’autista si avvicinò nuovamente, prese una delle estremità e me la fissò attorno al collo. Fece scattare un lucchetto color oro e diede un lieve strattone per verificare che fosse chiuso. Benché non fosse in alcun modo troppo stretto o doloroso, sentii una strana ansia crescere dentro di me. Spesso ero stata definita una cagna, e talvolta lo avevo anche considerato un complimento, ma trovarmi al guinzaglio mi intimorì. Tutto avvenne sotto lo sguardo sornione del padrone di casa, che annuì soddisfatto quando udì lo scatto dell’acciaio sulla mia pelle.
“Adesso è quasi pronta per l’udienza” disse.
“Udienza?” chiesi, confusa.
“Vede, il nostro club ha regole ferree. Ogni anno, uno dei convitati si assume la responsabilità di condurre un negoziato simile a quello tra noi intercorso. Se il negoziato ha successo, il mediatore avvisa gli altri e ci troviamo tutti in questa casa, ad attendere la nostra ospite. Ora, io e lei sappiamo che il nostro è un accordo pienamente consensuale, ma perché il nostro piccolo rito possa aver luogo è essenziale che tutti lo sappiano. Il club è formato da persone perbene, alcuni di noi sono attivi nella lotta per i diritti umani e tutti siamo immacolati da un punto di vista penale e, se mi è permesso, etico. È essenziale che tutti sappiano che lei è qui di sua volontà. Per questo esiste l’udienza. Le è tutto chiaro?”
Avvertivo un vago senso di vertigine, mentre il senso profondo di quelle parole mi investiva con tutte le sue implicazioni.
“Avrei alcune domande” dissi.
“Prego” mi invitò Henke con un sorriso comprensivo.
“Quanti saranno presenti all’udienza?”
“Saremo cinque, più il mio collaboratore che l’ha accompagnata qui.”
“Dovrò fare sesso con tutti i presenti?”
“Nessuno escluso.”
Rivolsi un’occhiata all’autista, che ricambiò il mio sguardo e, per la prima volta, avvertii il desiderio predatorio che strisciava, in agguato dietro quei modi neutri, dentro di lui. Anche lui mi avrebbe avuta. Era un premio annuale? Un bonus aziendale? O solamente un ulteriore gradino lungo la scala dell’umiliazione che era stata edificata per me?
“Un’altra cosa – domandai, rosa dalla curiosità – presumo che ciascuno dei convitati sia un uomo come lei, con molti soldi e molti impegni in diversi angoli del mondo. Quando li ha avvisati di recarsi qui?”
Henke mi rivolse uno sguardo violento e improvviso come lo scattare di una tagliola.
“Una settimana fa” disse.
“Come…”
“Il gruppo per il quale ha lavorato negli ultimi giorni intrattiene ottimi rapporti con la nostra holding. Quando mi hanno informato che era stata reclutata per la ristrutturazione aziendale ho fatto un po’ di ricerche, e ho deciso di incontrarla. L’aeroporto mi è sembrato un luogo migliore di altri.”
“Se avessi rifiutato? Non avrebbe avuto problemi con i suoi invitati?”
“Ha rifiutato?” ribattè Henke, con una luce di sfida negli occhi.
“No” ammisi, abbassando lo sguardo.
“Lei è una sgualdrina, mia cara. Per il giusto prezzo, non c’è parte di lei che io non possa prendermi. Ora devo chiederle cortesemente di tributare estrema obbedienza al mio collaboratore. Lo farà?”
“Sì” risposi.
“Bene. Desidero che lei consegni a Marcello l’impugnatura del guinzaglio. Con questo gesto, lo accetterà come suo padrone, fino al termine dell’udienza, quando apparterrà a tutti noi.”
“Fino alle sei di domattina” replicai, come se dare un confine temporale alla mia obbedienza potesse rassicurarmi.
“Fino alle sei – confermò il mio interlocutore, con un’espressione quasi dolce negli occhi felini – ora la prego di consegnarsi a Marcello.”
Obbedii. Come se udire il proprio nome lo avesse risvegliato da una trance profonda, l’autista afferrò il guinzaglio e mi trasse a sé, palpandomi rudemente le natiche e il seno, come se volesse saggiarne la composizione.
“Marcello, per cortesia – disse Henke rivolgendosi all’autista – assicurati che la signora possa affrontare l’udienza nelle migliori condizioni.”
Marcello armeggiò per qualche istante con la valigetta aperta sul letto, estraendo un paio di manette da una tasca laterale. Si portò alle mie spalle e mi incatenò i polsi, poi mi schiaffeggiò il culo sonoramente.
“Ah!” esclamai, sorpresa.
Con una rude pressione della mano sulla schiena, mi obbligò a piegarmi in avanti, e mi schiaffeggiò ancora, più forte.
Non emisi alcun suono. Marcello annuì, come se avessi appena dato la risposta corretta a un esame, e mi accarezzò i capelli.
“Bravo – disse Henke – ora conducila da noi, se non ti dispiace.”
Fu così che, nella morsa del cuoio e dell’acciaio, mi ritrovai a discendere verso il ventre della casa.
Ripercorrendo ora quegli eventi, mi parve di non aver mai realmente avuto scelta. La mia stessa natura mi aveva incatenata a quella decisione con una stretta assai più forte delle manette che avevo ai polsi.
Il sotterraneo era uno spazio dai contorni indefiniti, quasi totalmente immerso nell’ombra. Potevo respirare il freddo pungente e l’olezzo muschiato tipici dei sotterranei, Due file di candele illuminavano uno spazio di forma vagamente circolare. Nel centro dello spazio c’era una poltrona in pelle rossa. Marcello mi tolse le manette e mi invitò a sedermi con una ferma pressione sulla spalla.
“Grazie di essere qui con noi” disse una voce da un punto indistinto della stanza. Le parole rimbalzarono tra le pareti con un’eco che mi apparve alquanto sinistra.
“È un piacere” risposi, cercando di sembrare più disinvolta di quanto mi sentissi in realtà.
“La pregherei d’ora in avanti di parlare soltanto se direttamente interrogata” mi riprese una voce differente, con tono fermo.
“Posso chiederle di confermare che si trova qui di sua spontanea volontà, e senza alcuna coercizione o ricatto?” domandò la prima voce.
“Confermo di essere qui liberamente.”
“È consapevole – continuò la voce – che il solo fatto di trovarsi in questa stanza autorizza i presenti a usare su di lei qualunque forma di attenzioni sessuali desiderino?”
“Ne sono consapevole.”
“È pertanto disposta a offrire il suo corpo, in assoluta sottomissione e obbedienza, a questa congrega, fino all’alba di domani?”
D’improvviso, compresi. A prescindere da quanto spessa fosse la coltre di buone intenzioni che rivestiva quel rituale, l’udienza non era che un'altra parte di quel sottile gioco di dominazione. A ogni mia risposta, avvertivo la tensione sessuale crescere, il respiro dei convitati farsi più pesante e affannoso. Era proprio la mia volontaria decisione di vendermi a loro a eccitarli. La violenza, al confronto, sarebbe stata uno sbiadito palliativo.
“Sono di vostra proprietà, fino a domattina” confermai, decisa. Se dovevo essere il trofeo di questo gioco perverso, avrei fatto la mia parte.
“Bene – intervenne una terza voce, che mi sembrò appartenere a Henke – se non le dispiace, le chiederei di portarsi al centro della stanza, e lasciare che Marcello la prepari.”
In risposta a quelle parole, un forte “clang” risuonò nella stanza, e un riflettore illuminò una stuoia color ocra distesa sul pavimento, a pochi metri da dove ero seduta. Marcello riprese in mano il guinzaglio, e mi condusse al centro esatto della stuoia. Mi spogliò del microscopico indumento che avevo indosso e mi lasciò lì, completamente esposta alla luce rivelatrice di quel singolo faro.
“Si inginocchi, prego. A quattro zampe” intimò Henke da qualche parte nell’oscurità.
Feci come chiedeva. Soltanto in quel momento notai che vi erano cinghie di cuoio fissate ai lati della stuoia, e c’era un anello di metallo saldato al pavimento, qualche centimetro più avanti. Marcello mi tolse gli stivali e mi sistemò le cinghie ai polsi e alle caviglie. Fissò l’estremità del guinzaglio all’anello sul pavimento, poi si allontanò. Ero inchiodata al suolo.
Sentii il mio respiro farsi più spesso e martellante, scandendo come un metronomo il tempo di quell’attesa.
“Per l’ultima volta, conferma di essere disposta a soddisfare le voglie di questo consesso, senza alcuna remora?”
“Niente fruste, pinze o cose del genere” dissi. La voce mi tremava, e quello che voleva essere un comando uscì dalle mie labbra come una supplica.
“Ha la mia parola e quella di tutti i presenti” rispose Henke, con un tono di benevola condiscendenza.
“Va bene, allora” dissi.
In risposta alla mia resa, le ombre si mossero.
Udii il tintinnio di fibbie slacciate, il frusciare di stoffa sulla pelle e lo sbuffo di indumenti abbandonati al suolo, il tutto amplificato dall’eco delle pareti spoglie.
Sentii delle mani sfiorarmi le spalle, la schiena e le natiche, insinuarsi nella fessura tra di esse e saggiare con esperta efficienza entrambi i miei orifizi indifesi.
Vi fu un istante di attesa, poi un’unica spinta potente e il primo maschio fu dentro di me. Gemetti, e fu un gemito di puro e liberatorio piacere. Sentii due mani grandi stringersi sui miei fianchi, obbligandomi ad assecondare quelle spinte rudi e sbrigative. Non c’era traccia della venerazione che solitamente gli uomini mi tributavano. Cercai di voltarmi per vedere in viso l’uomo che mi stava chiavando, ma il guinzaglio fissato al suolo mi inibiva il movimento, e riuscii solamente a scorgere due braccia grassocce e arrossate, come se fossero state bruciate dal sole.
Udii altri passi e mi trovai un’altra erezione davanti al viso. Un membro corto e tozzo, sproporzionatamente largo e dall’aspetto ricurvo, come un uncino. Gambe possenti e un ventre ampio erano tutto ciò che riuscivo a vedere oltre quel cazzo prepotentemente stagliato davanti ai miei occhi.
“Devo chiederle di aprire bene la bocca.” Era Henke.
Obbedii, e immediatamente mi ritrovai la sua carne spinta dentro fino in gola. Tossii, poi lo ripresi in bocca finchè non sentii la saliva addensarsi. La mano di Henke era ferma sulla mia nuca, per impedirmi qualsiasi movimento. Impalata tra quei due cazzi, mi accorgevo a malapena delle mani che mi strizzavano i seni e delle bocche che mi leccavano e mi mordicchiavano. Mentre l’umiliazione si condensava in una colata di piacere, mi sentii saldare a quel pavimento gocciolante di sesso, come se le mie viscere fossero ormai tutt’uno con quelle della casa.
L’uomo dietro di me diede una serie di colpi convulsi che mi avrebbero mandata a faccia in avanti, se non fossi stata legata, e si svuotò dentro di me, poi lo sentii allontanarsi.
“Con permesso” disse Henke, sfilando il cazzo dalla mia bocca solo per spingermelo tra le gambe, qualche istante dopo. Affondò dentro di me con una potenza che mi fece sussultare, artigliando i miei fianchi stretti con le sue mani enormi, e mi possedette con colpi ritmati che mi fecero vibrare fin dentro le viscere. Un concerto di mani suonava intricate melodie sulla mia pelle, stimolando il clitoride e pizzicando i capezzoli mentre mi arrendevo a quell’amplesso coordinato.
Aprii nuovamente la bocca per lasciare entrare un altro cazzo, una splendida erezione lunga e vibrante che apparteneva a un corpo muscoloso e agile. Immaginai che si trattasse di Marcello, il mio silenzioso guardiano, ma le luci erano sistemate in modo tale che solamente piccole porzioni dei corpi maschili che mi possedevano fossero visibili, mentre i visi restavano nell’ombra. Le cinghie e il guinzaglio facevano il resto, impedendomi di muovermi abbastanza da scrutare quell’oscurità.
Henke intensificò il ritmo delle sue spinte e prese a schiaffeggiarmi il culo con forza, una, due, tre volte, poi, come in risposta ai miei gemiti che si facevano via via più selvaggi, appoggiò il suo enorme pollice sul mio ano e spinse con fermezza, penetrandomi fino alla falange.
Ebbi un primo, violento orgasmo che mi avrebbe sicuramente mandata con la faccia sul pavimento, ma le cinghie fecero il loro lavoro e mi inchiodarono lì dov’ero, mentre Henke mi afferrava per i capelli e mi obbligava a inarcarmi per accoglierlo sempre più in fondo dentro di me, e l’autista esigeva la mia bocca con affondi sempre più prepotenti.
Avvertii un fiotto caldo sulla schiena e sulle natiche, quando Henke si abbandonò a un orgasmo che gli sgorgò dalla gola come un ruggito, e subito dopo, da bravo subalterno, Marcello mi versò il suo piacere in bocca, serrandomi le mascelle con mano ferma per obbligarmi a lasciar scivolare quel liquore denso lungo la mia gola. Senza neppure tentare di ribellarmi, leccai docilmente le ultime gocce, fino a quando Marcello fu soddisfatto e la mia bocca fu completamente pregna del suo sapore di acqua marina.
Più il tempo passava, più gli uomini nella stanza si sentivano liberi di usarmi senza restrizioni, e quell’esercizio assoluto di potere era per loro una fonte inesauribile di eccitazione. Uomini che nella vita normale avrebbero faticato a tenere un’erezione anche con l’ausilio del Cialis, passarono all’incasso anche due o tre volte, investendomi il viso e il corpo con fiotti roventi come lava.
Più la prevaricazione e la prepotenza di quella congrega marchiavano il mio corpo, più la mia mente si contorceva, sferzata da un piacere quasi arrogante. Persi la cognizione del tempo mentre, inchiodata a quel pavimento, lasciavo entrare chiunque lo desiderasse e mi abbandonavo a orgasmi ripetuti.
Poi, come in risposta a un comando silenzioso, tutti si allontanarono. Marcello, con il corpo nudo e il cazzo ancora teso, si inginocchiò di fianco a me e cominciò a ripulirmi con una cura che mi parve quasi affettuosa. Mi passò un panno caldo e profumato sul viso, sulla schiena e tra le gambe, mentre con l’altra mano mi accarezzava dolcemente. Mi depositò un bacio fresco sulle labbra, poi si spostò dietro di me, scomparendo alla mia vista.
Mi sforzai di guardare alle mie spalle, ma il guinzaglio mi fece sentire il suo morso imperioso, obbligandomi a desistere.
Avvertii un fluido calore tra le gambe. Tentai nuovamente di voltarmi, tendendo il guinzaglio fino a farmi male. Intravidi la mano di Marcello intenta a spalmare con meticolosa attenzione un gel fluido e trasparente. Lo sentii massaggiare il mio culo, partendo dall’interno delle natiche per poi raggiungere lo sfintere. I cerchi concentrici delle sue dita rivestite di gel mi diedero brividi intensi di piacere, poi avvertii il suo indice penetrarmi delicatamente, compiendo delle piccole rotazioni per lubrificare l’apertura. Appose altro gel sulla mano e mi penetrò nuovamente, questa volta più a fondo e con due dita.
Gemetti e mi abbandonai a quella dolce aggressione.
Mi chiesi chi sarebbe stato a incularmi. Mi sarebbe piaciuto fosse Marcello, con la sua virilità silenziosa, ma immaginai che Henke, in qualità di acquirente, avrebbe preteso quella primizia per sé. Mi rilassai, distendendo i muscoli per offrirmi all’imminente penetrazione.
Quando ebbe finito, Marcello si allontanò. A quanto pare, non sarebbe stato lui.
Avvertii l’eco di tacchi sulla pietra, un incedere lento e leggero. Vidi una figura esile e ricurva, ancora completamente vestita in un completo grigio che appariva troppo grande. L’uomo fece un passo avanti e si inginocchiò di fronte al mio viso, per permettermi di guardarlo.
Era il furetto. Lo scribacchino dall’aria grigia dell’aeroporto. Mi guardò con una luce beffarda negli occhi, e in quel momento compresi che sapeva tutto. Sapeva della noncuranza con cui le donne lo guardavano, considerandolo null’altro che l’innocua appendice del suo poderoso padrone. Sapeva del benevolo disprezzo con cui lo avevo squadrato, la prima volta, considerandolo niente di più che un rumore di fondo nella mia sfida con Henke. Perfettamente conscio del proprio grigiore, sapeva della sua assoluta mancanza di attrattive, e di come per una donna del mio calibro la sua presenza fosse equiparabile a quella di un asessuato cicisbeo. Sapeva, e ora si sarebbe preso la sua rivincita.
Si liberò con esasperante lentezza dei vestiti, rivelando a poco a poco una verga incredibilmente grossa e dura. Un reticolo di vene pulsanti pompava sangue in quell’appendice enorme e perfetta, specie se comparata con la figura minuta e floscia del suo proprietario. Alla vista di quel cazzo stupendo, aprii istintivamente la bocca per invitarlo a entrare, ma il furetto mi negò quel contatto, scomparendo alla mia vista e portandosi con passo leggero alle mie spalle.
Mi appoggiò una mano sul culo, saggiando la soda consistenza delle mie natiche, poi cominciò a strofinare l’asta lungo la fessura. Il gel che Marcello mi aveva così accuratamente spalmato facilitò quella frizione, avvolgendoci assieme in un contatto liquido che mi inebriò. La stretta della mano sul culo si fece più ferma, e avvertii la pressione della sua cappella contro il mio sfintere.
“Posso?” lo sentii dire. Per un attimo credetti si rivolgesse a me, e feci per rispondere, ma la voce di Henke mi precedette.
“Mio caro Sebastian, la tua efficienza e lealtà sono per tutti noi il bene più prezioso. Accetta questo regalo come piccolo pegno della nostra gratitudine. Sono certo che la signora non le rifiuterà questo piacere, non è vero?”
“Aaah… potete farmi… tutto” sospirai, mentre la pressione sulla mia apertura si faceva via via più insistente.
“Fatti il culo della nostra deliziosa ospite, Sebastian” disse Henke.
Sentii le mani di Sebastian divaricarmi le natiche, poi la sua enorme cappella cominciò a scivolarmi dentro. Senza il lubrificante, mi avrebbe probabilmente spaccata in due, ma anche così fu uno sforzo quasi superiore alle mie possibilità.
Urlai, non saprei dire se di dolore o di piacere. Sebastian rallentò la sua corsa, senza frenare, dosando il proprio affondo con maestria insospettabile. Fu una discesa lenta che mi fece assaporare ogni centimetro di quella maestosa erezione. Sebastian aveva il corpo di uno schiavo, ma possedeva il cazzo di un imperatore.
Henke si inginocchiò di fronte a me, prendendomi il viso tra le mani e inchiodando i suoi occhi ipnotici nei miei.
“Concediti a Sebastian, mia signora. Merita il tuo culo più di tutti noi.”
Annuii, e baciai le sue labbra in preda a un trasporto che mi sorprese. Lasciai che la sua lingua si avvinghiasse alla mia mentre Sebastian si prendeva il mio culo. Il trofeo che avevo spesso negato ad amanti ben più attraenti, era suo e, mentre lentamente i miei muscoli si distendevano e si abituavano alla mostruosa presenza del suo membro d’acciaio, il piacere di donarmi a quell’uomo insignificante mi intossicava le viscere e mi faceva desiderare di accoglierlo sempre più in profondità.
Con gesti quasi teneri, Henke mi liberò dalle cinghie e sganciò il guinzaglio dall’anello sul pavimento. Istintivamente, mi avvinghiai a lui, mentre le nostre lingue si intrecciavano ancora. Sebastian mi pompava da dietro e per un istante mi parve che fosse un uomo solo a possedermi. Henke appoggiò la gigantesca mano sulla mia gola e mi spinse all’indietro. Sebastian mi cinse le spalle, passandomi le braccia sotto le ascelle e, senza interrompere la sua feroce penetrazione, si sdraiò sotto di me, obbligandomi a inarcarmi e a rovesciarmi su di lui. Da quella posizione, Sebastian mi impalava fino alla radice, e mi sentii aprire come mai prima.
“Ora ci accoglierai entrambi, mia signora” disse Henke, mentre mi afferrava per le caviglie per spalancare le mie gambe di fronte alla sua erezione.
Ebbi un moto di paura.
“Io non ho mai…”
“Non temere, saremo delicati” mi rassicurò Henke, sussurrandomi in un orecchio.
Sebastian mi aveva afferrato saldamente per i fianchi e spingeva verso l’alto con una forza e una decisione che non avrei immaginato. Squassata da quel piacere e dalla lusinga degli occhi da gatto di Henke, mi arresi.
“Va bene” dissi, e anche lui fu dentro di me.
Cominciammo una danza complessa fatta di spinte e di pause, i due cazzi separati soltanto da una sottile membrana di carne che sentivo comprimersi e dilatarsi dentro di me a ritmo con i battiti del mio cuore impazzito. Il mio corpo oscillava e ondeggiava come un vascello nella tempesta, stretto nella morsa dell’uomo smilzo sotto di me e del gigante che mi sovrastava.
Non mi ero mai sentita così inerme, piena e usata come mi sentivo in quel momento.
L’adrenalina mi scorreva dentro come un fiume, esaltando il piacere e, al tempo stesso, ottundendo ogni altro senso. Gridai e mi dimenai, mordendo e artigliando con le mie unghie tutto ciò che riuscivo ad afferrare.
Sebastian e Henke si scambiarono un’occhiata, e mi fecero voltare.
Il padrone si prese il culo, il fedele servitore assaggiò la fica.
Danzammo ancora sotto la luce del riflettore, mentre percepivo vagamente i suoni convulsi degli altri maschi che si masturbavano di fronte a quell’estremo rito di possesso.
Venni ancora, e i miei spasmi diedero il colpo di grazia ai due maschi che mi riempirono all’unisono, crollando assieme a me in un intrico di carne sulla stuoia madida di liquidi.
Il riflettore si spense, e udii i convitati raccogliere i vestiti, allontanandosi sommessamente.
Fu un commiato silenzioso e discreto, così diverso dal fragoroso baccanale che si era appena consumato.
Nel silenzio che seguì, Henke mi si avvicinò, ancora paonazzo per lo sforzo.
“Mi toglierebbe una curiosità?” chiese.
“Mi dica pure” lo incoraggiai con un sorriso che, nonostante fossi nuda e spalancata, mi restituì un contegno quasi altero.
“Perché ventitré milioni? Perché non venti, o trenta, o cinquanta?”
“Ventitré è il numero delle mie punizioni” risposi.
Henke mi fissò senza capire.
“Nel collegio di suore al quale mi aveva iscritta mio padre quando avevo sedici anni, ogni volta che facevi un pensiero impuro venivi punita. Mi punirono ventitré volte. Papà si arrese e mi cambiò scuola prima della fine del trimestre.”
L’uomo scoppiò a ridere e mi fece una carezza sul viso, poi raccolse i pantaloni dal pavimento e se ne andò.
Rimasi lì per qualche istante, con gli occhi chiusi, domandandomi cosa sarebbe stato più difficile spiegare all’uomo che amavo, se la mia infedeltà o la mia nuova, smisurata ricchezza.
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