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Il Bicchiere


di HarrymetSally
29.12.2018    |    16.638    |    24 9.5
"“Cosa stai facendo?” domandò il mio ospite, con una punta acida nella voce..."
C’era un bicchiere di ceramica lavorata a mano, nell’attico ultramoderno dove abitavo con mio marito. Era un souvenir di viaggio, uno dei rari regali che mi avesse fatto negli anni del nostro tormentato fidanzamento. Eravamo entrati insieme in quella piccola bottega d’artigianato, e un vecchio, con la pelle indurita dal sole e indelebili macchie di tabacco sulle dita, ci aveva convinti, parlando in una lingua incomprensibile, che quel bicchiere fosse un’opera d’arte imperdibile. Dopo un breve negoziato fatto di gesti e vocaboli inventati a metà strada tra le due lingue, il mio ex aveva sborsato una piccola fortuna per quell’affare, e uscendo avevamo riso assieme su come ci eravamo fatti fregare, da perfetti turisti. Col tempo, avevo finito per amare quel bicchiere. Adoravo il suo blu intenso e i richiami tribali di mille colori, ma soprattutto la viva imperfezione dei suoi contorni, così diversa dalle linee efficienti ed essenziali del nostro appartamento. Tutto in quella casa era all’ultimo grido, eccetto lui. Se ne stava lì da anni, appoggiato sul lavandino in cristallo del nostro bagno, e ospitava i nostri spazzolini da denti. All’interno di quel contenitore piccolo e irregolare, gli spazzolini giacevano assieme e si toccavano come noi non facevamo più da tempo.
Mi trovavo in fondo al collo di bottiglia che era diventato il mio matrimonio. Antonio cercava di fare sempre più tardi al lavoro per non incrociarmi, oppure ero io ad attardarmi fuori, le sere che lo sapevo a casa. Salvavamo le apparenze per le cene di famiglia, ma nella nostra casa gli spazzolini erano gli unici amanti rimasti.
Nel tentativo di minimizzare gli incroci, mi ero trovata la passione posticcia dei balli latino-americani. Due lezioni serali alla settimana, dalle venti alle ventidue servivano lo scopo strategico di risparmiarmi l’imbarazzo della cena il lunedì e il mercoledì. Il venerdì sera avevo l’appuntamento fisso con i compagni di corso. Sceglievamo un locale a caso, e ballavamo bevendo Mojito fino a notte fonda. La musica era pessima e sempre uguale, e gli avventori si rivelavano fatalmente semi-analfabeti palestrati a caccia di figa facile, ma almeno stavo fuori di casa, mi sbronzavo un pochino e mi lasciavo smanacciare qua e là da maschi eccitati, godendomi la sensazione dei loro membri pulsanti contro di me, prima di rientrare nell’apollineo grigiore della mia casa.
Di ritorno da quelle notti, incontravo lui. Abitava nell’attico di fianco al mio, all’ottavo piano del nostro condominio di lusso. Eravamo soliti scambiarci un saluto silenzioso, appena un cenno del capo, mentre ciascuno infilava la chiave nella propria toppa. Mi aveva sempre incuriosito quella presenza notturna, un bel ragazzo moro e alto, con occhi di un profondo blu. Non riuscivo a immaginare quale fosse il suo lavoro. A volte sfoggiava un completo scuro e una cravatta, una ventiquattr’ore rigida di cuoio nero e scarpe di vernice, come se rientrasse da qualche importante e ingessatissimo meeting aziendale, o come se fosse una spia dei film d’azione.
Certe notti, invece, rientrava abbigliato con abiti sgargianti dal sapore anni 70, pantaloni a zampa d’elefante e cappello da cow-boy. In quelle occasioni, era accompagnato da bellissime ragazze con lineamenti dell’est europeo, una o a volte due. Il saluto era sempre silenzioso, ma sul suo viso si dipingeva allora un sorriso beffardo, come se sapesse senza alcun dubbio chi di noi due si sarebbe divertito.
Non sbagliava.
In quelle notti me ne stavo sveglia al buio, sdraiata sul divano, e ascoltavo il mio vicino scopare. Udivo i gemiti delle ragazze, le loro grida e i grugniti del maschio che se le chiavava. Attendevo con uno strano miscuglio di malinconia e curiosità il momento in cui udivo lo scatto della serratura, le risate sul pianerottolo e lo scampanellio dell’ascensore che raggiungeva il piano. Solo a quel punto, mi abbandonavo al sonno, soddisfatta quasi come se fossi stata io a essere scopata.
Non che fossi morta e sepolta. Avevo un amante, Giorgio, un uomo col quale sognavo un giorno di poter fuggire insieme. Ogni qual volta i nostri impegni e gli orari di mio marito lo rendevano possibile, gli aprivo la porta e le gambe, e mi sorprendevo sempre più spesso a pensare, non senza una certa soddisfazione, che forse le mie urla stavano disturbando il sonno del mio vicino, reduce da qualche estenuante nottata. La nostra fu per molto tempo una conoscenza interstiziale, vite per il resto parallele che collidevano in quei microscopici intervalli tra uno scatto di serratura e un altro. Lui turbava le mie notti e io, forse, i suoi pomeriggi, ma per molto tempo non vi fu altro, nemmeno un “buongiorno” mormorato a labbra chiuse nella zona neutra della portineria.
Le cose cambiarono una mattina d’inverno. Il cielo fuori dalla finestra assumeva a poco poco i colori della neve, e io sedevo di fronte al mio inseparabile Mac, protetta da quelle stesse mura che avevo imparato a odiare.
Sentii suonare il campanello e per un istante coltivai l’illusione che si trattasse di Giorgio, di una delle sue visite a sorpresa che si concludevano attorcigliati sul divano o sul pavimento, ma mi risvegliai da quel sogno a occhi aperti. Sapevo esattamente dove si trovava in quel momento, e non era certo qui.
Premetti il comando di stampa e andai ad aprire la porta, mentre la speranza lasciava spazio a una pigra curiosità.
Me lo ritrovai davanti, il mio vicino di casa. Il suo metro e novanta occupava tutta la luce dell’ingresso. Era vestito con un paio di jeans molto attillati e una camicia nera aperta di un paio di bottoni sul davanti, a esibire il petto glabro e asciutto. Era una veste diversa da quella con la quale di solito lo incrociavo. Non era la sua uniforme da samurai aziendale, ma nemmeno il travestimento da “re della notte” con il quale rimorchiava le sue troiette.
“Ciao” disse con disinvoltura, come se avessimo un qualche appuntamento.
“Ciao” risposi, senza spostarmi dalla soglia. Non avevo un particolare motivo per essere scortese, ma nemmeno per farlo entrare. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo.
“Scusa se ti disturbo. Tuo marito è in casa?”
Avvertii la mia sospettosità placarsi all’istante. Sapevo che mio marito offriva consulenze ai danarosi e influenti abitanti del nostro lussuoso condominio, nella speranza di uscire dall’anonimato professionale in cui era.
“Non c’è – risposi – non credo sarà a casa prima delle otto.”
“Bene. In realtà avevo bisogno di parlare con te, ma si tratta di una faccenda un po’ delicata.” Mosse il suo corpo con una certa, aggraziata furbizia e, prima che potessi decidere se lasciarlo entrare o meno, mi aggirò intrufolandosi nel salotto.
“Per caso stavi per mettere su un caffè?” chiese, mentre prendeva posto sul mio divano.
Lo guardai come se fosse atterrato da un altro pianeta. Un pianeta ostile.
“Scusa – rispose, intercettando il mio sguardo irritato e confuso – sono appena uscito da una notte di lavoro interminabile e non vorrei crollare mentre parliamo. Di solito non sono così cafone.”
“Lavoro?” domandai, in tono allusivo.
“Sì, perché?” rispose con aria che voleva sembrare offesa, ma il sorrisetto che gli affiorava sul volto raccontava ben altro.
“Niente” dissi, con una scrollata di spalle, avviandomi in cucina. Contemplai per un istante la possibilità di usare la moka che mia madre mi aveva regalato quando mi ero trasferita, il cui sapore era stato levigato da centinaia di caffè preparati nel corso degli anni, ma decisi che due cialde nella macchinetta fossero più che all’altezza del mio invadente ospite.
“Per me niente zucchero e un goccio di latte, se possibile” disse.
“Non tirare troppo la corda” risposi, alzando un poco la voce per farmi udire. Mi giunse una risata di risposta che trovai appena più innocente e spontanea di tutto quel giochino da serva e padrone che stava mettendo in piedi. Tornai in salotto con in mano due tazze fumanti, e mi sedetti di fronte a lui. Si avvicinò a me nel prendere la propria tazza, e potei annusare il suo profumo. Una qualche versione di Hugo Boss, maschia e un po’ dozzinale, come il suo proprietario.
“Allora – dissi – qual è questa faccenda delicata di cui devi parlarmi senza mio marito?”
Mentre mi rivolgevo a lui con fare sicuro, mi resi conto di quanto poco attraente fossi quella mattina. Indossavo un paio di scarpe da ginnastica comode color verde lime e una tuta di cotone nera. I pantaloni avevano due semplici lacci sul davanti, mentre la parte superiore si chiudeva con una lampo color argento. Avevo i capelli raccolti in una crocchia efficiente e spartana, e nessun accenno di trucco sul viso. La classica tenuta di chi non aspetta nessuno, o quantomeno nessuno di interessante.
Tuttavia, lo sguardo del ragazzo su di me non era certo uno sguardo lieve, anzi, possedeva quella insistente pressione degli uomini che ti spogliano con gli occhi. Cominciavo a immaginare il tipo di questione che voleva discutere, ma non ero affatto sicura di volergli concedere alcunché. Non si trattava di un senso di lealtà verso il mio amore clandestino, benché fossi pazza di lui. Nella mia testa, finché non mi fai tua, sono di chiunque. Il punto era che non avevo deciso se quel tizio mi piaceva o meno. Certo, si trattava di un uomo attraente, alto e muscoloso con occhi molto intensi e una fossetta sul mento che di solito trovavo irresistibile. Tuttavia, i suoi modi possedevano qualcosa di artificiale e fasullo, come se mettesse su un’impalcatura di se stesso, mentre il vero e proprio edificio non era ancora finito.
“Ecco, so che la cosa può apparire indelicata…”
“Sei stato indelicato dal momento in cui hai suonato alla mia porta e ti sei accomodato come se fossi a casa tua. Che differenza vuoi che faccia ora?”
“Dritta al punto, eh?” disse, abbassando appena lo sguardo e grattandosi la testa, a disagio.
“Fa risparmiare tempo.”
“Non so da dove cominciare, si tratta di una cosa molto…”
“Delicata?” lo schernii. Il mio atteggiamento dovette farlo infuriare, perché i suoi occhi si accesero di una nuova determinazione. Raddrizzò le spalle e si schiarì la voce.
“D’accordo – disse – sarò molto breve, così non ti farò perdere tempo. Ho le prove della tua infedeltà coniugale.”
Infedeltà coniugale. Disse proprio così, come se ci trovassimo in tribunale e lui stesse arringando un’ipotetica giuria. Nessuna sfumatura morale sul fatto che fossi una puttana, e nemmeno un ammiccamento al fatto che ero una che si dava da fare. Ero una moglie infedele come tante. Certificata, a quanto pareva.
“Quindi?” dissi, aggressiva.
“Quindi credo che dovremmo accordarci su come gestire queste informazioni” disse lui, stravaccandosi sul divano, le braccia larghe adagiate lungo lo schienale e le gambe spalancate a mostrare il pacco, in uno strafottente segno di dominanza.
“Un po’ banale come ricatto, non trovi?”
“A volte sono meglio le cose semplici.” Mi si avvicinò, estraendo il cellulare dalla tasca del jeans, non senza una certa fatica dato che gli aderivano quasi come una seconda pelle.
“Ecco, guarda” disse.
Mi porse un iPhone dalla cover dorata, con impresso una specie di stemma pirata, un teschio con due pistole ai lati. Lo trovai pacchiano e, a suo modo, delizioso, così in linea con il personaggio e la situazione che quasi mi piacque. In fondo, era un atto di pirateria, no?
C’erano diversi file nella memoria del telefono. Alcuni di essi erano foto scattate durante le mie nottate latino-americane. Qualche pomiciata con i tamarri locali, qualche mano un po’ più audace e un mezzo pompino che avevo abbozzato a un tizio nel bagno delle signore, prima di rendermi conto che avevo voglia di tornare a casa.
Altri erano file audio, registrazioni di intensa attività sessuale casalinga, e a giudicare dalle mie selvagge grida di piacere non si trattava di mio marito. Mi rifiutavo di credere che ci fossero dei microfoni nell’appartamento per cui il bastardo doveva avere un apparecchio panoramico o qualcosa del genere. Credevo comunque di potermela cavare. Le foto erano sfocate e per lo più non mostravano granché, e l’audio poteva appartenere a chiunque.
Il problema fu l’ultimo file, un video preso in una camera di motel, io e il mio amante impegnati in quella che poteva essere definita la scopata del secolo. Non ci eravamo fatti mancare proprio nulla, ed era tutto lì, in quel file dentro il telefonino del Corsaro Nero.
Gli restituii il telefono. Sospirai.
“Vuoi soldi?” chiesi. Non ne voleva, ovvio, ma dovevo pur tentare, no?
“No.”
“Cosa vuoi, allora?”
“Mi prendi in giro?” rise, e mi strizzò l’occhio.
“D’accordo – dissi – ma prima devi cancellare tutti i file.”
Armeggiò qualche minuto col telefono, lanciandomi di tanto in tanto occhiate in tralice. Mi sorrideva come se fossimo due amici che stanno cambiando la suoneria del cellulare, e non sapevo se trovare la cosa umiliante o ilare. Mi porse l’apparecchio, per consentirmi di controllare.
“Hai delle copie?”
“Una copia del video, sul computer. Diciamo che l’ho tenuta per uso personale” disse, lasciandosi andare a un’altra risatina. Aveva denti bianchissimi, e quando rideva la fossetta sul mento si sollevava, creando un’armonia di lineamenti che avrei trovato davvero attraente, se non fossi stata la vittima di un ricatto.
“Deve sparire anche quella.”
“Croce sul cuore.”
“Guarda che non scherzo” dissi, dura.
“Avrei potuto non dir niente, no? Se ti dico che la cancello, puoi fidarti.”
Era ovvio che non potevo fidarmi. Per quanto ne sapessi, poteva avere altre mille copie. Poteva averle già spedite alla sua mailing list, o caricate su Youtube. Non avevo garanzie, eccetto il fatto che era prontissimo a sputtanarmi, se non avessi fatto quanto voleva.
“D’accordo, facciamola finita” sospirai, e cominciai ad abbassare la lampo della tuta.
“Cosa stai facendo?” domandò il mio ospite, con una punta acida nella voce.
Lo guardai, confusa.
“Preparami un caffè vero, non questa sbroda” disse.
“Vaffanculo.”
“Tu invece vai in cucina.”
Feci per obbedire, ma la mano del ragazzo si serrò sul mio polso.
“Vacci nuda” ordinò.
Feci come aveva chiesto. Mi liberai della felpa e mi tolsi le scarpe, scalciandole lontano con un gesto nervoso. Con un unico gesto mi sfilai i pantaloni e gli slip. Rimasi in piedi davanti a lui. La striscia di peli scuri tra le mie gambe e i miei capezzoli rossi e tesi risaltavano sul candore della mia pelle. Lui mi rimirò come se fossi un quadro appena acquistato all’asta, il sapore della conquista che si mescolava al piacere estetico.
“Ora puoi andare” mi apostrofò. Sentivo i suoi occhi fissi sul mio culo, mentre estraevo la moka dalla credenza e vi versavo dentro acqua e caffè.
“Penso io al resto – disse – tu vai a scegliere cosa metterti per farti chiavare.”
Come in trance, andai in camera da letto e aprii il cassetto della madia. Contemplai vari accessori, poi, guidata da un perverso istinto di obbedienza, scelsi un perizoma bianco con una fessura sul davanti e un fiocco sul di dietro. L’aveva comprato Antonio un paio di anni fa, nella vana speranza di ravvivare la nostra intesa sessuale. Oggi lo avrei indossato per uno sconosciuto, giusto il tempo di farmi sbattere.
Mi infilai l’indumento, sistemando la fessura per lasciare scoperte le labbra, poi calzai un paio di scarpe nere con il tacco dodici.
Tornai nel soggiorno.
Il vicino sedeva a gambe larghe sul divano, sorseggiando il caffè che avevo preparato per lui, nuda.
“Vado bene?” chiesi, docile.
“Quasi. Ora voglio che metti quel rossetto. Quello che hai addosso quando ci incontriamo la notte.”
Obbedii. Mi alzai, presi il beauty case dalla borsa e ne estrassi il mio rouge Chanel. Lo applicai con cura sulle labbra, prendendomi tutto il tempo, e passai un po’ di matita sugli occhi. Mi contemplai nel piccolo specchio portatile finché non fui soddisfatta del risultato, poi, mio malgrado, gli sorrisi.
“Altre richieste?” domandai.
“Sciogli i capelli” ordinò.
Con lentezza studiata, eseguii quell’ordine, arrendendomi del tutto a quel torbido rituale di sottomissione.
“Vieni qui” mi intimò.
Mi mossi verso di lui ancheggiando sui tacchi alti. Mi sorpresi ancora una volta nel riconoscere dentro di me quell’innata tendenza a compiacere gli uomini, quel desiderio di obbedire che mi coglieva ogni volta che incontravo il maschio alfa del branco.
Mi strinse al suo petto e cominciò a baciare le mie labbra, con delicatezza inattesa. C’era un qualcosa di romantico nel modo in cui la sua bocca mi esplorava, e le sue mani mi cercavano, come se stesse provando a farmi dimenticare il motivo per cui eravamo giunti a quel punto. Desiderava cancellare la lavagna e regalare a entrambi un istante di piacere incontaminato, ma non ero certa di volerglielo permettere.
Schiusi le labbra e lasciai entrare la sua lingua. Avvertii il calore profumato del suo alito, e mi avvinghiai alle sue spalle ampie e muscolose, si abbassò a baciarmi un seno. Prese molto tempo per assaporare quel contatto, lasciando che la mia piccola appendice di carne delicata sostasse tra le sue labbra semi-dischiuse, per poi inghiottirla e tormentarla con la lingua, avvolgendola in spirali concentriche che mi strapparono gemiti deliziati. Gli afferrai la testa con entrambe le mani, insinuando le mie dita tra i folti capelli neri e spingendolo verso l’altro capezzolo assetato di attenzioni.
Con una mano scese ad accarezzarmi la fica, giocando con la fessura del perizoma, percorrendo il bordo di pizzo per poi raggiungere le labbra e infine stuzzicare il clitoride.
Mi sfuggì un grido, e quello fu per lui il segnale che avevo smesso di lottare.
Mi strinse al petto e mi afferrò per le natiche, saggiandole tra i polpastrelli come se dovesse verificarne la consistenza.
Portai una mano sul suo pacco, e lo sentii duro e pieno attraverso il jeans. Mi diedi da fare con la sua cintura e gli slacciai i pantaloni, infilando la mano sotto il suo slip. Gli feci sentire il morso delle mie unghie sull’addome teso, una sorta di vaga protesta prima di scendere ad afferrargli il cazzo. Mugolò di piacere quando avvertì la mia stretta sulla radice, e accentuò i suoi sforzi. Si abbassò a sfilarmi le scarpe, e depositò decine di baci adoranti sui miei piedi. Quel misto di dominazione e romanticismo cominciava a farsi strada come un veleno, paralizzando la mia volontà e sedando ogni desiderio di ribellione. Riprese a massaggiarmi il clitoride attraverso la fessura del perizoma, compiendo cerchi concentrici con le dita che aprirono il rubinetto dei miei umori.
Lasciò che mi bagnassi per bene, poi portò le dita alle labbra.
“La signora è fradicia, nonostante tutto” disse, con una nota di giocosa perfidia.
Non risposi.
Sfilò un preservativo dal taschino della camicia. Era arrivato preparato, consapevole dell’esito scontato di quella rapidissima trattativa. Avrei dovuto sentirmi offesa, invece la cosa mi eccitò.
Scartò la confezione e mi porse il cilindro di lattice.
“Mettimelo tu” disse.
Armeggiai con il preservativo e feci per appoggiarlo sulla punta del suo cazzo teso, ma mi sentii afferrare il polso con ruvida fermezza.
“Con la bocca” ordinò, e l’istante successivo ero in ginocchio di fronte a lui, gli occhi fissi nei suoi.
Accarezzai la sua verga turgida con il viso, passandomelo sulle labbra e sulle guance, e cominciai a leccarlo con lentezza. Scivolai lungo l’asta avanti e indietro un paio di volte, poi mi concentrai sulla cappella. Passai la lingua sulla pelle morbida e glabra, mentre mi riempivo la mano dei suoi coglioni. Non aveva un cazzo monumentale, ma aveva un buon sapore. Titillai il prepuzio con la lingua, appoggiai il preservativo sulla punta, srotolandolo di un paio di centimetri. Lui mi accarezzava i capelli, incoraggiandomi con delicatezza.
“Spingimi giù la testa – dissi – se devi ricattarmi, fallo come si deve.”
Non capiva se scherzassi o dicessi sul serio. Per aiutarlo a decidere, appoggiai le labbra socchiuse sul glande incappucciato, dando dei piccoli colpetti con la lingua.
“Non sono qui in ginocchio perché mi piaci. Sono qui davanti al tuo cazzo perché sono costretta. Se vuoi che te lo succhi mi devi obbligare, hai capito?” dissi. Mi afferrò dietro la nuca e spinse, obbligandomi a ingoiarlo più a fondo. Lo sgradevole sapore del lattice mi provocò un’istantanea repulsione, ma resistetti e lo feci scivolare lungo la pelle. Provai ad appoggiare le mani sulle sue cosce per contrastare la sua pressione della sua stretta, ma lui le schiaffeggiò con forza.
“Ora sì” dissi, un attimo prima che la sua mano mi riportasse giù, e la mia bocca fosse ancora piena di lui. Sferzato dalle mie provocazioni, me lo piantò dentro fin quasi a farmi soffocare.
“Glielo ficchi in gola così, alle tue amiche?” chiesi mentre boccheggiavo per incamerare aria.
“Loro le scopo perché hanno voglia, a te invece ti sto ricattando – rispose, obbligandomi a sollevare la testa per fissarlo – non devo avere con te lo stesso riguardo che ho per loro, giusto?” Fissai quelle iridi blu, ed era come osservare il mare in tempesta, un attimo prima di essere riportata al mio compito. Succhiai fino a sentire le labbra gonfiarsi e arrossarsi. I miei gemiti si mescolavano ai suoi grugniti, dando vita a una melodia selvaggia.
Mi costrinse ad alzarmi e mi baciò ancora, raccogliendo con la lingua la mia saliva, resa viscosa dalla violenta, ripetuta penetrazione. Mi sfilò il perizoma e artigliò le mie natiche con forza. Percepivo l’accrescersi della sua ferocia, e me ne alimentavo. Mi spinse contro la parete e puntò il glande contro le mie piccole labbra. Io mi dimenai nella sua stretta, premendomi contro di lui e graffiandogli le spalle.
“Adesso mi vuoi anche scopare? Non ti sembra troppo per due foto?”
“Ho anche gli audio – disse, ansimando, mentre giocava con la sua cappella all’ingresso della mia fica, facendola scivolare avanti e indietro contro le pareti bagnate – e il video.”
“Quegli audio non valgono un cazzo – risposi, mordendogli un orecchio – potrebbe essere chiunque. Potrebbero essere le troiette che ti sbatti la notte, quando torni a casa vestito da cow-boy.” Continuavo a provocarlo, accennando alle sue puttane, un po’ perché sentivo che la cosa lo eccitava, un po’ perché, in una delle inspiegabili contorsioni della mia emotività, mi sorprendevo a essere gelosa di quelle puttanelle più giovani, alte come statue, che lo cavalcavano di notte.
Lui mi afferrò per entrambe le natiche e mi sollevò da terra, portandosi sotto di me. Avvertii la pressione farsi più forte, mentre il suo cazzo bussava alla mia porta, reclamando il permesso di entrare.
“E il video?” mi sussurrò all’orecchio.
“Stronzo.”
Spinse, e io mi aprii. Lo sentii scivolare in me con una dolcezza che era in parte merito della sua esperienza, in parte del lago che mi scorreva tra le cosce, e che annichiliva ogni attrito. Gli cinsi il collo con le braccia, appoggiandomi a lui e lasciandogli l’assoluto controllo della situazione. Cominciò a impalarmi con lentezza, usando le mani strette sul mio culo per controllare la mia discesa. Ebbe inizio una fluida danza, mentre lui cercava di assaporare ogni centimetro del mio abbraccio e il morso della mia carne sul suo membro rilasciava scariche elettriche lungo la sua spina dorsale, e la mia. Camminando a ritroso, fece qualche passo per allontanarmi dalla parete. Io distesi le braccia e mi abbandonai all’indietro, consentendogli di aggredirmi i seni con la bocca. L’angolo della sua penetrazione variò di qualche grado. Invece di impalarmi come stava facendo fino a quel momento, prese a penetrarmi facendomi dondolare come su un’altalena. Sentii il suo cazzo lambire le mie pareti in modo nuovo, inatteso. Mi sfuggì un grido acuto, breve e quasi disperato, mentre l’eccitazione mi lacerava come una punta di lancia, e il mio corpo mi supplicava di arrendermi all’orgasmo.
Proprio un istante prima che ciò accadesse, come guidato dal sesto senso dei predatori, uscì da me e, afferratami ancora per i capelli, mi spinse sul pavimento, obbligandomi a gattonare sotto di lui.
Mi piantò entrambe le mani sul culo, i palmi ben distesi ad assaporare l’intera superficie delle natiche, ed esercitò una pressione, allargando la mia apertura che ora si offriva, oscenamente esposta, alla sua vista.
“Vuoi sapere un segreto? – sussurrò, mentre affondava il viso tra i miei umori e li raccoglieva con la lingua – La notte, quando mi chiavo le mie amiche, dico loro di urlare forte, perché so che tu stai ascoltando.”
“Me ne fotto di quello che fai” mentii, ma la sua lingua mi trivellava a fondo, dura quasi come un cazzo, e io mi dimenavo in preda a spasmi ormai incontrollati.
“Lo sai che non è vero. Quasi ti posso vedere, sdraiata a fianco del tuo maritino addormentato, mentre pensi al mio cazzo e a come le sfonda.”
Come a comprovare la sua teoria, si erse sul torso e mi penetrò di nuovo, con spinte questa volta più decise. Sentivo i suoi coglioni pieni sbattermi contro il culo, mentre i suoi affondi mi squassavano. I miei capelli erano redini nelle sue mani, li tirava per farmi impennare come una cavalla impazzita, oppure li spingeva giù per farmi assaggiare il pavimento e godersi la mia sottomissione.
“Vedi cosa succede a fare la troia? Succede che poi ti tocca farlo anche quando non te lo aspetti!”
“Finisci quello che sei venuto a fare e togliti dalle palle”, risposi, ma in realtà la mia eccitazione era al limite. Implosi in un orgasmo squassante che mi trascinò a terra, e lui con me. Continuò a spingere per qualche istante, poi si sollevò in piedi e mi costrinse in ginocchio sotto di lui. Sapevo cosa volesse e perché.
“Ora mi vuoi marchiare, vero?”
“Sì, ti voglio marchiare come si marchiano i cavalli, per non farli scappare.”
“Arrivi tardi – lo sferzai – sono già stata marchiata da un altro maschio. Quello che nelle foto mi usa, quello che nei tuoi audio mi fa urlare, quello che nel tuo video mi spacca in due.” Estrassi la lingua, lasciando che me la schiaffeggiasse col glande teso.
“Però intanto ti prendi anche questo, di cazzo.” Mi afferrò la testa, tenendomi ferma ai suoi piedi mentre il cazzo, libero dalla sua prigione di lattice, gli si gonfiava come una pompa.
“Ho i miei motivi”, gli dissi sorridendo, e un istante dopo fui inondata da lui. Il suo sperma mi investì il viso, il seno e i capelli. Schizzi finirono sul pavimento alle mie spalle, e altri scomparvero nell’aria, nascosti da traiettorie troppo lunghe e imprevedibili.
Il vicino di casa raccolse le gocce sparse sul mio viso e sul mio petto col dorso dell’indice. Me le portò alla bocca e mi costrinse a ingoiare quel seme così estraneo.
“Ecco, bevi, così” disse con una nota imperiosa nella voce che mi eccitò ancora. Obbedii alacremente, leccando le dita man mano che me le portava alla bocca e passandogli la lingua sul cazzo per ripulirlo.
Quell’estrema obbedienza lo addolcì, e le mani presero ad accarezzarmi.
“Brava cagnolina” disse.
Risposi sollevando il dito medio davanti ai suoi occhi, ma continuai a bere e a leccare finché il suo cazzo non fu lucido della mia saliva.
Raccolse gli indumenti sparsi sul pavimento e cominciò a rivestirsi in silenzio.
Senza accennare a coprirmi a mia volta, lo fissai intensamente.
“Dovresti farmi un favore, quando sei vestito.”
“Dimmi”, rispose con voce a un tratto gentile.
“Dall’altro lato del corridoio c’è una stampante, dovresti prelevare il foglio dal cassetto, se puoi.”
Con lentezza, disorientato, fece come gli avevo chiesto. Quando tornò aveva uno sguardo incredulo. Gli occhi saettavano da me, al foglio, a me. Cominciava a capire.
“Ma…”
“Ti dispiace appoggiarlo sul tavolo?”
Obbedì.
“Devo abusare della tua gentilezza – dissi, seduta sul divano di fronte a lui, con i seni ancora turgidi e arrossati per la lunga cavalcata – hai presente quel video? Quello grazie al quale mi hai scopata?”
“Io…sì” rispose in preda a un assoluto disorientamento.
“Dovresti comprimerlo e inviarne una copia via email a mio marito.”
“Non capisco.”
“Sì che capisci, invece. Ora fila.”
Frastornato, aprì la porta e sparì nel corridoio.
Andai in bagno e feci una doccia, ripulendomi dallo sperma dello sconosciuto. Mi lavai con cura i denti, e per un attimo contemplai quel bicchiere, ricordo di un’epoca lontana.
Tornai in soggiorno, presi una penna e firmai il foglio appoggiato sul tavolo. Sapevo che la raccomandata del mio avvocato era già in portineria, ma avevo deciso di scrivere qualcosa di più personale. Qualcosa che spiegasse il dolore, la frustrazione e l’odio di quegli anni.
Mi rivestii con calma. Andai in camera da letto e presi la valigia che avevo preparato con cura quella mattina, appena svegliata. Controllai ancora una volta che non mancasse nulla, poi la richiusi e la trascinai dietro di me sulle rotelle cigolanti. Andai in cucina e presi la moka di mia madre ancora calda. La lavai e asciugai con cura, poi la infilai nella borsa.
Diedi un’ultima occhiata alle pareti della mia gabbia dorata. Sì, sapevo senza alcuna incertezza dove fosse il mio uomo, in quel momento. Avevamo visitato insieme quel piccolo appartamento in centro, poche settimane fa, firmando un accordo preliminare che lui oggi aveva finalizzato.
Per giorni avevo avvertito quel segreto scottarmi sulle labbra. Ora potevo lasciarlo andare.
“Addio” mormorai alla casa vuota, e uscii.
Il bicchiere rimase là.
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