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Lezione di geometria


di HarrymetSally
15.04.2021    |    19.493    |    22 9.7
"” Lo schiocco come di frusta della sua mano sul culo di lei fu come una scudisciata di puro piacere nella mia testa, e mi portò vicina a un orgasmo che non..."

Ormai avevo deciso, l’indomani avrei comprato una bambola vodoo, l’avrei chiamata Fede e le avrei puntato una decina di spilli sulle tette.
Federica era mia amica fin dai tempi delle superiori e la adoravo, ma lei continuava a ripetere lo stesso errore, e io a cascarci tutte le volte.
Dunque, andava così. Lei si prendeva una sbandata per qualche studente di economia della Bocconi, un lampadato col macchinone e il portafogli gonfio. Ci usciva un paio di volte, e verso il terzo appuntamento gliela dava. A quel punto si convinceva che doveva essere amore, perché lei mica era una ragazza facile che la regalava in giro! Siccome era vero amore, doveva assolutamente farlo conoscere alla sua migliore amica. La migliore amica della Fede si chiamava Annalisa, ed era una studentessa di Lettere al terzo anno, figa ma un po’ secchiona e dal carattere acidello. Una che si era fatta una cerchia di amici molto ristretta e se non eri tra loro non ti salutava nemmeno. Il motivo per cui Annalisa era tanto preziosa è che possedeva un vero e proprio radar anti-stronzi, una manna per chi come la Fede perdeva la zucca facilmente. Una serata con un tizio, e Annalisa era in grado di dirti quando, come e per quale motivo vi sareste lasciati. Una maga.
Avete indovinato ovviamente. Annalisa, la figa di legno col radar, sono io, e come circa ogni trimestre mi toccava uscire con il nuovo fidanzato della Fede. Ad accrescere lo spaccamento di palle, la Fede, nella sua infinita magnanimità, aveva deciso che la sua migliore amica non doveva essere declassata al rango di reggi-moccolo, per cui aveva chiesto al suo fidanzato con la faccia da Justin Bieber dei poveri di portare un amico.
Ed ecco come mi ritrovavo seduta al tavolo di uno dei locali più cool dei navigli, con la faccia più floscia della foglia di menta che galleggiava nel mio bicchiere di Mojito. Gettai uno sguardo al di sopra del bicchiere. La Fede si era avvinghiata a Marco, questo era il nome del fidanzato del mese, manco fosse un koala, e continuavano a scambiarsi le lingue e mormorarsi battute a cui ridevano soltanto loro.
Volevo bene a Federica e, anche se nessuno guardandola quella sera lo avrebbe sospettato, la trovavo una ragazza intelligente. Il suo unico problema è che ogni volta che incontrava un ragazzo dava in beneficienza metà del cervello.
Di fianco a me, il mio appuntamento al buio, un tizio di nome Leonardo che a quanto pare tutti, nella sua compagnia chiamavano Schizzo, per motivi che preferivo non sapere. Schizzo era uno di quei tizi che ritenevano che fare i brillanti fosse una specie di missione. Meno attraente di Marco e, a giudicare dalla macchina, meno ricco, si era probabilmente convinto di poter compensare con la personalità, con il deprimente risultato che non stava mai zitto. In quel momento, aveva appena finito di raccontare l’ennesima barzelletta sugli studenti di filosofia.
Feci finta di ridere, spostai la sua mano che si era “casualmente” posata sul mio ginocchio e mi voltai dall’altra parte.
Al tavolo di fianco al nostro c’era un terzetto, due uomini e una donna.
Lei era molto bella, sui quaranta. Una di quelle che metteresti la firma per diventare, tra una quindicina d’anni. Indossava un corto abito nero con una scia di piccole borchie color oro lungo il fianco, e degli stivali scamosciati scuri con tacco alto. Nel sedersi, il vestito si era leggermente sollevato e aveva rivelato l’orlo di un’autoreggente e un lembo di pelle candida.
I capelli erano di un rosso scuro e le labbra accese color cremisi. Emanava un profumo che mi parve familiare, anche se non fui in grado di riconoscerlo.
Adagiato sul divano di fianco a lei c’era un uomo alto e dalle spalle larghe, vestito con un jeans e un elegante girocollo nero. Aveva occhi color ghiaccio, il cranio rasato e la mascella squadrata ricoperta da un filo di barba. Un paio di anni fa ero stata in terapia per un piccolo problemino alimentare e durante una seduta era uscito fuori che uomini con quel tipo di mascella sono persone che si incazzano facilmente. In effetti il tizio non sembrava uno con cui scherzare. La sua mano era stretta sulla coscia di lei, in un inequivocabile gesto di possesso. Seduto di fronte alla coppia c’era un uomo leggermente più giovane, con il fisico asciutto e il volto abbronzato che avevo imparato ad associare ai maestri di tennis. Aveva una faccia simpatica e gioviale, quasi l’opposto del tipo duro di fronte a lui. Tutti e tre ridevano di gusto e sembravano godersi la serata assai più di quanto non stessi facendo io. Era strano osservarli. Lei aveva una inconsueta disinvoltura nel mostrarsi, e anche nell’accettare il tocco invadente del suo uomo. Al tempo stesso, i suoi occhi erano maliziosi e suadenti quando li volgeva verso il maestro di tennis.
Provai una invidia istintiva verso quella donna. Invidiavo la sua bellezza matura ed elegante, e le invidavo gli uomini con cui era uscita, assai più originali e interessanti di quell’esemplare made in china che mi ritrovavo tra le mani. Quasi a incrementare quella sgradevole sensazione, il tipo incazzoso aveva afferrato la donna per i capelli e le aveva sfacciatamente infilato la lingua in bocca, apparentemente noncurante sia del terzo invitato, sia di tutti gli altri avventori del locale.
Riassumendo, avevo la Fede che mi limonava davanti e la rossa con il suo tipo duro che mi limonavano di fianco. Un po’ troppo per un giovedì sera.
Mi alzai spazientita e un po’ irritata per quella mancanza di buone maniere, ignorando lo strano languore che avvertivo al basso ventre, e farfugliai una scusa.
Schizzo mi rivolse uno sguardo contrariato. Avevo interrotto a metà una delle sue meravigliose barzellette, ed era apparentemente una cosa imperdonabile.
“Tutto OK?” chiese la Fede, staccandosi per un attimo dal suo boy.
“Sì, tranquilla, vado a chiedere un altro di questi, – risposi, indicando il bicchiere di Mojito sul tavolo, il cui contenuto era ormai una poltiglia di ghiaccio semidisciolto – voi volete qualcosa?”
“No grazie, io sto a posto” disse Marco.
“Guarda che il cameriere passa tra un po’, non c’è bisogno che ti alzi” protestò Federica.
“Non fa niente – replicai – non mi dispiace sgranchirmi un po’ le gambe.”
“Torna presto piccola” disse Schizzo, cercando di cingermi la vita con un braccio che schivai come fosse stato avvelenato.
Mi diressi verso il banco del bar. Fortunatamente c’era coda, e questo mi diede un po’ di tempo.
Sentivo un gran caldo. Il locale era gremito, per cui in un certo senso non era strano, ma io ero vestita soltanto di un paio di leggerissimi leggins attillati e una maglia a maniche lunghe in cotone, e mi sembrava di sudare come se fossi sotto una coperta termica. Ancor più strano, era come se quel calore arrivasse da dentro, da un punto imprecisato tra il petto e lo stomaco, e risalisse lungo la gola. Avevo letto che gli attacchi di panico cominciano così, e per un attimo mi chiesi se stessi per avere una crisi.
Mi guardai intorno. Era tutto un brulicare di figli di papà vestiti come grandi manager e ragazze agghindate per partecipare una sfilata che fingevano di divertirsi assieme, quando gli uni cercavano la scopata facile e le altre un selfie sul macchinone per far sbavare le amiche.
Ero una di loro, compresi, e la consapevolezza mi colpì come un manrovescio sulla faccia. Sentivo il rossore salirmi fino alle guance. Mi feci largo tra la folla e uscii in strada, respirando l’aria densa e pungente dell’autunno milanese.
Accolsi con gratitudine il soffio freddo sul viso, e cominciai a sentirmi meglio.
Calmati, dissi a me stessa, ora tu torni là dentro e finisci di bere quella sbroda che hai nel bicchiere. Ridi a un paio delle cazzate di Schizzo, saluti tutti e te ne torni a casa. Domani è un altro giorno.
Avere un piano fu rassicurante, ma per qualche motivo continuavo a tornare con la mente alla donna dai capelli rossi e ai suoi due accompagnatori. C’era qualcosa in quel trio, una geometria che non riuscivo ad afferrare eppure mi affascinava. Il carisma intimidatorio dell’uomo con la testa rasata e il fascino giocoso dell’altro si incrociavano e collidevano attorno al centro di gravità costituito da lei, da quella donna minuta e incredibilmente elegante, con le sue labbra cremisi e la pelle color del latte. Pensai a Cleopatra, Cesare e Marco Antonio, e per qualche motivo quell’immagine mi fece sorridere. Chissà se i due si sarebbero sfidati a duello prima della fine della serata…
Con rinnovata curiosità, tornai al tavolo.
Schizzo raccontava barzellette mentre la Fede e Marco pomiciavano. Niente di nuovo sul fronte occidentale.
“Non hai preso da bere?” chiese Federica quando si accorse che ero tornata.
“Alla fine ho pensato che domattina devo studiare e che è meglio non esagerare.”
“Dai, allora siediti” disse Schizzo, accompagnando quell’invito con una mano che si era allungata a prendere la mia. Mi divincolai gentilmente, ma con fermezza.
“Vado al bagno, poi mi sa che torno a casa” risposi.
Ignorai lo sbuffo spazientito di Schizzo e l’occhiata interrogativa di Federica.
Notai invece che tipo duro era rimasto da solo al tavolo. Aveva le grosse braccia distese lungo la spalliera del divano in similpelle, e uno sguardo assorto, il volto piegato in un mezzo sorriso.
Tentai di decifrare quell’espressione e l’inattesa situazione, ma non vi riuscii. Presi la mia pochette e mi diressi verso il bagno. Avrei fatto pipì, e poi avrei impiegato tutto il tempo del mondo per rifarmi il trucco e portare verso la conclusione quella serata strana. Continuavo ad avere negli occhi l’immagine di quel carnaio attorno al bancone del bar, e la sensazione di essere una come tante mi era rimasta appiccicata addosso come una ragnatela.
Quando aprii la porta del bagno rimasi quasi pietrificata.
La donna dai capelli rossi era lì, con il culo appoggiato al lavandino dell’antibagno. Il vestito era sollevato fino ai fianchi e scopriva le sue gambe meravigliose. L’ampio specchio sopra il lavabo offriva alla mia vista il riflesso delle sue natiche,perfettamente modellate, e del sottile perizoma nero che correva tra di esse. Era avvinghiata al maestro di tennis, persa in un bacio appassionato mentre le mani di lui la frugavano ovunque.
Lei si accorse di me e si ricompose in fretta, staccandosi da lui, ma invece di abbassare gli occhi in un gesto imbarazzato come avrei fatto io mi sorrise con aria sfrontata e mi strizzò l’occhio.
“Prego – disse – è libero.”
Non capivo. Cosa ci faceva lei qui con il maestro di tennis, e perché tipo duro se ne stava seduto con quell’aria assorta invece di cercare di capire cosa stesse succedendo alla sua donna? Per un attimo, pensai di scusarmi in qualche modo e uscire, ma qualcosa nello sguardo ammiccante di lei mi catturò e mi impedì di declinare il suo invito.
Tenendo la testa bassa, attraversai lo spazio dell’antibagno e mi infilai nella porticina alla mia sinistra, tirandomi dietro la maniglia.
Li sentii ridacchiare e per qualche motivo, invece di farmi sentire imbarazzata o arrabbiata, il tintinnio di quelle risa mi eccitò.
Feci quello che mai pensavo avrei fatto. Invece di sedermi sul water ed espletare i miei bisogni al più presto per togliermi da quella situazione, accostai l’orecchio alla porta.
“Devi fare in fretta – la sentii dire – quando senti lo sciacquone è game over.”
Poi non disse più nulla, e cominciai a udire frusciare di tessuto e ansiti accelerati.
Premetti la faccia contro la superficie di legno scuro della porta, assetata di quei suoni così inaspettati e conturbanti. Il languore che avvertivo in fondo alle viscere si fece quasi insopportabile. Guidata da un istinto che non avevo mai conosciuto, portai una mano tra le gambe, afferrando con forza la leggera stoffa dei leggins come nel disperato tentativo di arrestare quella marea.
Lei gemeva sempre più forte, e mi parve di udire un suono liquido e fluido in sottofondo.
Esitante e con uno sferragliare d’ansia nel cervello, presi la decisione che mi avrebbe cambiata per sempre. Scostai leggermente la porta dal battente, appena il necessario per permettermi di intravedere ciò che accadeva nell’antibagno.
La donna si era voltata con il viso rivolto verso lo specchio, le mani strette ai bordi del lavabo. Aveva inarcato la schiena e aperto le gambe. Esile ed elegante com’era, sembrava uno stelo di rosa dai petali rosso acceso.
L’uomo era in ginocchio dietro la donna, le mani strettamente serrate sulle natiche di lei e la faccia che le affondava voluttuosamente nel culo. Leccava avidamente e lei rispondeva con gemiti sempre più intensi.
Il viso della rossa era una maschera di godimento, mentre si abbandonava a lui.
“Sembri fatta di seta e velluto” le sussurrò il maestro di tennis, e nel farlo gettò un’occhiata nella mia direzione. Richiusi immediatamente la porta, nella speranza che non mi avesse notata.
Il cuore mi batteva all’impazzata e quel languore nella fica era diventato un battito incessante, una pulsazione che non riuscivo in alcun modo a calmare.
Sconvolta da ciò che stavo facendo, mi calai i leggins fino a metà coscia e infilai la mano nei miei slip.
Sentii la pelle perfettamente depilata in mezzo alle cosce e, con un interesse che non avevo mai avuto prima, esplorai la morbidezza della mia stessa carne, lasciandomene conquistare. Osservai la mia mano farsi liquida, ricoprirsi progressivamente di umori viscosi. Come guidata da una volontà estranea, me la portai alle labbra e assaggiai. La scoperta del mio stesso sapore mi inebriò e mi rese più audace. Ricominciai a toccarmi, dapprima con leggerezza, poi sempre più insistentemente, stimolando il clitoride. Con l’altra mano aprii nuovamente la porta, e incontrai lo sguardo del maestro di tennis. Stava ancora in ginocchio e depositava delicati baci sulle natiche della donna, mentre con una mano da sotto le accarezzava dolcemente la fica. Mi guardò e sorrise, portandosi l’indice dell’altra mano alle labbra per rivolgermi l’inequivocabile invito a fare silenzio.
Sempre più stupita di me stessa, mi trovai a sorridergli. Aprii la porta ancora un poco, per mostrargli il lavoro che stavo compiendo su me stessa.
Lui mi sorrise di nuovo, senza smettere di dedicarsi al piacere di lei. La maestria con cui le sue dita compivano cerchi concentrici sul clitoride della donna quasi mi abbagliò, e mi trovai ad accelerare con la mano. Il piacere divenne insopportabile. Sentii il desiderio di urlare e dovetti mordermi con forza le nocche dell’altra mano per non rovinare tutto.
Il maestro di tennis notò quel gesto e mi sorrise di nuovo, annuendo la sua approvazione.
Io aprii ancora di più la porta e spalancai le gambe per lui, offrendo alla sua vista la mia fica oscenamente esposta e la mia mano, intenta a darmi piacere. Quanto avrei voluto fosse la sua!
Lui esercitò una lieve pressione sui fianchi di lei, facendola voltare leggermente in modo che il suo culo fosse orientato nella mia direzione, poi riprese a massaggiarla, cambiando il ritmo.
“Cosa fai?” chiese lei tra i gemiti.
“Non preoccuparti, tieni gli occhi chiusi.”
Sospettai che l’avesse fatta voltare affinchè potessi vedere meglio ciò che le stava facendo e, come a voler confermare le mie supposizioni, l’uomo le allargò leggermente le natiche con una mano per offrirmi una più ampia visione della morbida striscia di carne tra le sue gambe.
L’altra mano continuava a lavorarle il clitoride, e il maestro di tennis mi rivolse uno sguardo eloquente, invitandomi a fare altrettanto con la mia fica.
Cominciai a modellare i miei movimenti su quelli di lui, imitandone il ritmo e l’ampiezza, e mi trovai a gemere all’unisono con lei, vittima dello stesso piacere, posseduta dallo stesso uomo.
Lui si sollevò, senza smettere di guardarmi, e si slacciò in fretta i pantaloni. Aveva un cazzo duro e pronto che spiccava dall’addome abbronzato. Con una mano sola, estrasse un preservativo dalla tasca e se lo infilò sulla cappella in una armonia di gesti secchi ed efficienti, srotolandolo senza sforzo, mentre con l’altra mano spandeva gli umori di lei lungo la fessura.
“No – la sentii dire – non c’è tempo.”
“La ragazza è ancora dentro. – rispose lui, ammiccando nella mia direzione – Non temere, saremo fuori prima che abbia finito.”
Lei si voltò a guardarlo e gli sorrise, ma fortunatamente non mi notò.
“Dieci colpi. Ti concedo dieci colpi. Non uno di più.”
Lui annuì, accettando quella insolita sfida, e posandole una mano sulla spalla la sospinse in avanti, obbligandola a piegarsi in modo da offrirsi alla sua imminente penetrazione.
Le fece scorrere una mano lungo la schiena fino in fondo, mentre con l’altra posizionava il cazzo sull’apertura tra le sue cosce. Si fermò e mi guardò intensamente. Io compresi cosa voleva da me, e cominciai a saggiare l’entrata della mia fica con l’indice e il medio della mia mano ormai fradicia. Mi aprii bene in modo che l’uomo potesse constatare la mia obbedienza.
Mi sentivo strana. Avevo sempre provato una perversa soddisfazione nel dominare i miei ragazzi, giocando con loro senza mai concedermi fino in fondo. Ero fiera della mia indipendenza, orgogliosa che nessun maschio mi avesse mai piegata. Eppure, in quel momento, scoprii il delizioso tormento della sottomissione, mentre davo a quello sconosciuto tutto ciò che desiderava.
“Uno” disse lui, e diede una spinta decisa col bacino, penetrando interamente dentro di lei.
Lo imitai infilandomi le dita dentro fino alla falange, e dovetti mordermi le labbra per non urlare quando assaporai la mia stessa carne, resa ancora più calda e soffice dal piacere che mi sgorgava da dentro come una colata lavica.
La donna cominciò a gemere più forte sotto i colpi ritmati di lui, e io, soffocando i suoni con la mano, la imitai, mentre il maestro di tennis ci scopava tutte e due. Eravamo sorelle improvvisate, unite dalla totale sottomissione a cui ci eravamo abbandonate.
“Cinque” disse lei, mentre portava una mano alle proprie spalle e arpionava con le unghie laccate di rosso la coscia atletica di lui.
Lui mi guardò ancora. Le assestò una sculacciata con la mano destra e spinse forte, facendole quasi perdere la presa sul lavabo.
“Sei.”
Lo schiocco come di frusta della sua mano sul culo di lei fu come una scudisciata di puro piacere nella mia testa, e mi portò vicina a un orgasmo che non avevo mai sperimentato.
Contai assieme a loro.
Sette. Otto. Nove.
Venni con una tale violenza che la mia testa sbattè contro la parete, producendo un rumore sordo che fece aprire gli occhi alla donna. Richiusi la porta in tutta fretta e ascoltai il maestro di tennis assestare l’ultimo colpo.
“Dieci.”
Come se fosse stato un segnale, feci andare lo sciacquone.
“Appena in tempo” disse lei.
Lasciai trascorrere qualche istante, poi uscii dall’angusto spazio del bagno.
Erano usciti. Il piccolo antibagno sembrava un deserto sconfinato di piastrelle bianche e luci al neon, svuotato della passione degli istanti precedenti.
Mi sciacquai il viso una, due, tre volte, sperando che l’acqua fredda cancellasse il caldo rossore degli istanti precedenti, poi uscii dal bagno. Marco e Federica parlottavano con fare cospiratorio e Schizzo se ne stava afflosciato sulla sedia, con un broncio infantile sul volto. Il terzetto del tavolo di fianco si era riunito, e la donna sedeva sul ginocchio del tipo duro, baciandolo con passione.
Avevo appena ricevuto una lezione di geometria che ancora non comprendevo del tutto, ma che mi aveva fatto desiderare di vedere il mondo com’era veramente.
I tre si alzarono, salutandosi.
Tipo duro e il maestro di tennis si strinsero la mano, e la donna diede all’uomo che un istante prima se l’era fatta nel bagno un caloroso abbraccio e un casto bacio sulla guancia.
Nell’uscire, l’uomo alto e dalle spalle possenti aveva stretto la donna al suo fianco e le aveva infilato una mano sotto il vestito, frugandola tra le natiche senza alcun imbarazzo.
“Sei bellissima stasera, rouge” le aveva detto, per poi scoppiare a ridere assieme a lei.
“Visto che troia?” disse Federica quando il terzetto fu scomparso alla nostra vista.
“Una milfona!” esclamò Schizzo con l’aria di chi la sapeva lunga.
“Mi accompagni a casa?” chiesi a Federica.
“Ci penso io” si intromise immediatamente Schizzo, ma Federica colse la mia occhiata e disse che tanto lei era di strada e non le costava nulla.
Mi ritrovai sul sedile posteriore, mentre Marco guidava e la Fede faceva il suo resoconto della serata.
“Leo è un tipo simpatico, ma non sta mai zitto” disse, voltandosi verso di me, come per chiedere conferma.
“Uh?” risposi. Continuavo a pensare a quella donna a novanta gradi nel bagno, al maestro che se la fotteva e alle mie mani dentro la mia stessa fica. Erano come flash che mi esplodevano nella testa senza tregua.
“Leo. Che te ne pare?” insistette.
“Un coglione” dissi, laconica, sperando di chiudere l’argomento e poter tornare ai miei pensieri.
“Però è un tipo forte. L’anno scorso ci ha fatto vincere il torneo di calcetto inter-universitario” intervenne Marco in difesa dell’amico.
“Beh, il fisico ce l’ha, Hai visto che pettorali?” disse la Fede, rincarando la dose.
“Guardi i pettorali degli altri tu?” la pungolò Marco, e andò a finire che cominciarono a battibeccare tra loro, un po’ scherzando e un po’ no, come accade in questi casi.
“Sapete cosa stavo pensando?” intervenni.
“Entrambi si zittirono, e Fede si voltò a guardarmi incuriosita.
“Pensavo… Fede, tu sei la mia migliore amica, e sei una bellissima ragazza. Stiamo assieme dal liceo, ci siamo sempre confidate tutto e abbiamo sempre condiviso tutto. Ti ringrazio per l’uscita ma non mi farei toccare da Schizzo nemmeno se fosse l’ultimo uomo sulla faccia della Terra. Sai invece cosa mi piacerebbe?”
“Cosa?” fece eco lei.
“Io mi farei te. Mi tufferei tra le tue gambe e ti coprirei di baci, e vorrei tanto che tu facessi lo stesso. Marco può guardare, e se fa il bravo magari gli faccio pure un pompino. Sempre col tuo permesso, ovvio.”
Federica mi guardò sconvolta per un istante, e Marco quasi sbandò con la sua BMW nel tentativo di verificare se fossi seria.
“Ma sei fuori?!” esclamò Federica.
“Cazzo c’hanno messo nel tuo bicchiere?!” aggiunse Marco, anche se con meno convinzione di quella che pretendeva di avere.
Li guardai entrambi, poi scoppiai a ridere.
“Ci siete cascati, cazzo!”
Ci ritrovammo a ridere tutti e tre, poi la Fede continuò la sua sintesi e Marco si concentrò sulla strada.
Io rivolsi lo sguardo fuori dal finestrino.
Mentre la scia di luci notturne mi scorreva di fianco, mi trovai a pensare a quella donna, e mi chiesi quanto coraggio occorresse per essere lei.
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