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Il direttore


di HarrymetSally
20.12.2018    |    34.004    |    33 9.6
"Avevo scambiato qualche bacio e un paio di frizzanti toccatine con una compagna di Università, tempo addietro, ma non mi ero mai spinta oltre..."

Non era un periodo roseo, per il mio settore. Molte aziende avevano effettuato “tagli” alla formazione, e anche i miei incarichi di consulente esterna erano messi a repentaglio da tumultuosi cambi ai vertici. Perdevo i vecchi contatti e faticavo a farne di nuovi, perché mi ero un po’ adagiata sui miei successi e mi ero illusa di poter fare a meno delle pubbliche relazioni. Quanto a soldi non me la passavo male, ma l’inerzia di quel momento mi faceva sentire impotente e spaesata, come un cespuglio rotolante trascinato dal vento del deserto.
Intrappolata in un matrimonio con un uomo che disprezzavo e in balia di un amante che non si decideva a rapirmi una volta per tutte, trovavo vaghe ed effimere consolazioni in storie di una notte che costruivo nella mia mente per renderle accettabili al mio corpo, di solito esigente e volubile. Volevo darmi via, svendermi per provare un’emozione, ma tutto durava quanto un preservativo acquistato a un distributore.
Fu per questo senso di futilità che accettai un incarico per cui non mi sentivo più portata. Si trattava di una valutazione di stress lavoro correlato per la sede italiana di una nota multinazionale nel campo dell’elettronica. Da quando mi ero specializzata in coaching aziendale, non mi capitava spesso di essere chiamata per questo genere di situazioni, e a essere sincera le trovavo noiose e piuttosto inutili. Tutto consisteva nel dire al direttore di sede ciò che detestava ascoltare, negoziare gli aspetti formali e produrre un rapporto finale il più superficiale possibile, nel gattopardesco equivoco di cambiare tutto affinché ogni cosa restasse uguale. Visto il tipo di società e lo statuto della filiale, mi aspettavo le solite, alienanti situazioni da catena di montaggio, appena mascherate con qualche rituale new age studiato apposta per far dimenticare a tutti che in fondo si trattava sempre di farsi il culo affinché qualcun altro potesse fare soldi.
Concordai il compenso e l’agenda degli appuntamenti, e una settimana dopo ero sul campo. Mi approcciai a quella prima giornata di lavoro con l’entusiasmo travolgente di un elefante obbligato a stare in equilibrio su uno sgabello, mentre i bambini tutti attorno ridono e ingurgitano pop-corn. Eppure, con il passare delle ore, mi resi conto che i miei pregiudizi erano ingiusti.
Quel gruppo funzionava! Si respirava grande coesione, e i talenti individuali erano valorizzati in un clima di rispetto reciproco. Si lavorava sodo e c’era competizione, ma ammantata di un senso di appartenenza che stemperava i conflitti. Cosa ancor più rara, donne e uomini lavoravano fianco a fianco senza tracce di prevaricazione o sessismo. Mi trovavo dentro un capitolo di un saggio sul team-working perfetto, e ogni pagina era una deliziosa sorpresa.
Ancora più rimarchevole, questo forte spirito di squadra non era ottenuto a prezzo di estenuanti corsi di formazione e ritiri. Nessuno di questi impiegati aveva dovuto andare in cima a qualche colle del bresciano a sparare palline colorate addosso al collega né aveva dovuto lanciarsi dalla sedia con le mani conserte e gli occhi chiusi, sperando che qualcuno lo afferrasse.
L’armonia di questo gruppo era il risultato di una disarmante normalità.
“Se abbiamo un problema ne parliamo con il direttore, e il problema è risolto!” mi aveva detto un addetto alla sicurezza durante l’intervista di rito.
“L’anno scorso abbiamo avuto una piccola crisi di transizione, ma il direttore ci ha messo le mani e ci siamo trovati col fatturato quasi raddoppiato” aveva aggiunto una collega del controllo qualità.
“Il direttore ha a cuore la nostra sicurezza. Passa in rassegna le apparecchiature e la strumentazione ogni settimana” era il coro che si levava dagli operai della produzione.
Sembrava che tutto quanto di buono esistesse in quella filiale, fosse effetto dell’opera, diretta o indiretta, del direttore. Di rado avevo visto un modello di leadership centralizzata funzionare in modo tanto armonioso, eppure quella struttura quasi medievale, con un unico Re del Castello a prendersi cura di tutti gli abitanti, sembrava rendere tutti felici.
Ci misi meno di due settimane a fare tutte le valutazioni del caso, alternando le interviste e i questionari con osservazioni dirette. Quando ebbi compilato il mio rapporto finale, telefonai all’assistente del direttore, informandola di essere pronta a discutere i risultati.
“Il direttore gradirebbe molto averla ospite per cena, in modo da poter discutere il suo rapporto senza eccessive pressioni o vincoli di tempo, se non le spiace.”
Avvertii un senso di vertigine di fronte a quell’esplicito messaggio di seduzione. Tutto il sessismo che sembrava assente in azienda piombava ora su di me racchiuso in quel messaggio, pronunciato con voce piatta dalla sua segretaria.
“Il direttore ha aggiunto che, qualora per lei fosse un problema, è disponibile a incontrarla a colazione, in ufficio.”
Era difficile stabilire se si trattasse di una reale alternativa o piuttosto di una marcia indietro, una comoda via di uscita che il direttore si era preparato per parare l’eventuale contraccolpo di un mio rifiuto.
A quel punto ero decisa a smascherare l’inganno di quel filantropo fasullo, e far emergere la sua vera natura. Detestavo essere presa in giro, e mentre l’illusione del mondo perfetto che avevo visto in quelle settimane si sgretolava sotto il peso dell’invito sessuale, maturavo in me una cupa determinazione a mandare tutto a puttane.
“No, dica pure al direttore che ci sarò. Mi faccia avere ora e indirizzo. Il direttore desidera che indossi qualcosa di particolare?” chiesi. A quel punto volevo che sapesse, che avvertisse il morso della mia provocazione. Desideravo che giocasse a carte scoperte e rivelasse il sudiciume nascosto sotto la facciata cristallina.
“Un momento, prego” rispose, prima di inserire una musichetta di attesa.
“Il direttore confida nel suo buon gusto.” Avvertii il click del ricevitore, e rimasi sola con i miei dubbi e le mie schegge di rabbia.
Il giorno seguente, ero decisa a trasformarmi in una affilatissima arma di seduzione. Trascorsi la mattina dal parrucchiere, e il pomeriggio dall’estetista. Feci un massaggio rilassante verso le sei, poi mi preparai per l’incontro.
Scelsi un abito corto color rosa pallido la cui parte inferiore era uno svolazzare di petali. Era trasparente al punto che, sotto la luce giusta, sarei apparsa del tutto nuda. Decisi di non indossare reggiseno, lasciando che i miei capezzoli ammiccassero da dietro il sottile velo dell’abito, e scelsi un perizoma composto da un filo di perle sul di dietro e un microscopico strato di pizzo chiaro sul davanti.
Il pizzo era sottilissimo, e lasciava intravedere la soffice, sottile striscia di peli scuri, in un gioco di trasparenze concentriche.
Apposi una sapiente dose di rouge Chanel sulle labbra, e disegnai con cura il contorno degli occhi.
Mi contemplai allo specchio. I capelli rossi, resi morbidi dalla piega, ondeggiavano attorno alle sottili spalline dell’abito, accarezzandomi languidamente schiena e spalle. I miei seni alti, piccoli e sodi davano alla mia figura quel tocco adolescenziale per il quale molti uomini impazzivano e le mie gambe svettavano sui tacchi, conferendo alla mia postura, modellata da anni di danza classica, un tocco di sensuale civetteria.
Ero pronta.
Il taxi mi lasciò all’ingresso dell’Hotel Savoia. Mi registrai e mi feci annunciare al mio ospite.
“Mi dicono che è attesa nella suite all’ultimo piano – disse il concierge, indicandomi con un cenno del braccio uno degli ascensori – permetta a uno dei nostri fattorini di accompagnarla.”
Cena in camera, dunque! A quanto pare il direttore era ansioso di ascoltare il mio resoconto…
Sorrisi al concierge e mi avviai verso l’ascensore. Avvertivo una crescente tensione, mista a rabbia, mentre osservavo i piani illuminarsi sul quadro. Il ragazzo che mi accompagnava azzardò un paio di timidi convenevoli, ma si ritrasse quando comprese che non ero in vena di conversazioni. Si limitò a farmi strada con aria impettita, precedendomi lungo il corridoio costellato di specchi.
Si fermò davanti a una porta in legno istoriato, verniciata in un color crema che mi parve antiquato.
“Prego” disse, facendo scattare la serratura e scostandosi di lato, per lasciarmi entrare. Gli sorrisi e gli allungai una banconota, una sorta di calumet della pace del valore di dieci euro, con il quale mi scusavo di essere stata una stronza.
Il ragazzo sorrise e si allontanò.
Entrai nella grande stanza. Un paio di applique spargevano una luce fioca che illuminava un arredo meno vetusto dell’esterno. Notai un letto a due piazze e mezza sulla sinistra, ancora perfettamente fatto, e una vasca idromassaggio sulla parete opposta. Un divano Kartel con lo scheletro in plexiglass e morbidi cuscini nordic blue era disposto in senso obliquo rispetto alla finestra, mentre vi era uno schermo piatto, quarantadue pollici a occhio e croce, sulla parete opposta.
Il mio ospite sedeva all’ampia scrivania posizionata quasi al centro della stanza, con un sorriso sul volto. Sgranai gli occhi, incredula.
“Sonya?”
“Ciao, Prof.”
Si alzò e mi corse incontro, stringendomi in un caloroso abbraccio e baciandomi le guance.
Sonya era stata mia allieva al Master in Business Coaching che avevo diretto a Roma per conto di un’Università americana, nel biennio tra il 2010 e il 2012. Era una delle studentesse più brillanti che avessi mai incontrata. L’irriverente curiosità delle sue domande e il tagliente acume delle sue risposte ne avevano fatto uno degli elementi trainanti di quel gruppo che, eccezion fatta per lei, si era rivelato piuttosto passivo e difficile da motivare. Gli altri avevano riconosciuto in lei una leader naturale, e anche io, inconsapevolmente, almeno all’inizio, avevo finito per contare su di lei, trasformandola in una sorta di “vice.” Il nostro patto implicito era visibile a tutti, ma nessuno se ne lamentava, anche perché Sonya sapeva condividere con gli altri e preferiva vincere assieme che brillare da sola. Non mi fu difficile riscontrare nello straordinario leader di oggi le tracce della promessa che era allora. Ricambiai l’abbraccio con energia. Sonya mi sovrastava con il suo metro e settantacinque, i capelli corti color sabbia a incorniciare un viso mascolino, ma non privo di un certo fascino, soprattutto per quegli immensi occhi azzurri che sembravano sempre persi in qualche sogno visibile a lei soltanto.
Le spalle ampie e le braccia rese scultoree dal crossfit che praticava con costanza ossessiva già ai tempi del Master, e che a quanto sembrava non aveva abbandonato, le conferivano un’aria di flessuosa potenza, inguainata in un tubino nero attillato che ne faceva risaltare il tono perfetto. Polpacci muscolosi guizzavano da sotto il vestito. Mi scostai per ammirarla.
“Sei bellissima!” esclamai.
“Senti chi parla! Sapessi quanti commenti mi toccava ascoltare, ogni volta che entravi in aula...”
“Mi hai proprio fregata con questa storia dell’invito a cena… mi aspettavo il solito cocainomane bavoso, e invece mi ritrovo te.”
“Un piccolo scherzo, per ripagarti di tutte le volte che, ascoltandoti, mi facevi sentire una cretina.”
“Cretina proprio non lo sei mai stata” mi schermii.
“Beh, venire alle tue lezioni era un bagno di umiltà. Tutto quello che credevo di sapere si sgretolava, e mi sentivo piccola piccola.”
“Direi che sei diventata grande grande” risposi, accennando con lo sguardo alla magnificenza della stanza.
“Ho avuto un paio di botte di culo qua e là” sorrise, e mi abbracciò di nuovo. Aveva un delizioso profumo che sapeva di rosa e mandorle. Fui sorpresa dalla sua calorosità. Non perché non la trovassi autentica, dato che sapevo quanto mi avesse sempre stimata. Tuttavia, negli anni in cui l’avevo conosciuta mi era sempre parsa una ragazza solare e vivace, ma poco incline al contatto fisico e un po’ fredda nel concedere centimetri di prossimità. Non l’avevo mai vista abbracciare o lasciarsi abbracciare, a differenza delle compagne di corso che apparivano assai più disinvolte. Persino durante gli eventi social come aperitivi o cene di gruppo, durante i quali molti allievi si lasciavano andare e anche i più timidi si scoprivano audaci (mi ero ritrovata in più di un’occasione qualche mano vicina al culo durante i balli di gruppo) Sonya amava stare in disparte, sorseggiando un Mojito e godendosi l’atmosfera festosa da una distanza di sicurezza.
Eppure, continuava ad abbracciarmi e accarezzarmi come se fossimo intime.
Il suo tocco produceva strane increspature nelle mie emozioni, una sorta di brivido di conturbante familiarità. Avevo visto quella ragazza incominciare la sua vita professionale, l’avevo plasmata e l’avevo sostenuta, e ora era davanti ai miei occhi, sbocciata. Compiuta.
Contemplare il suo successo era come specchiarsi in una me stessa più giovane e fresca, una parte di me che era maturata altrove, con meravigliosi risultati.
“Sei davvero splendida.”
Lo dissi in un sussurro, più a me stessa che a lei. Ero ammaliata da come la magnificenza di ciò che aveva realizzato non avesse per nulla intaccato quella innocente freschezza che ancora albergava nei suoi occhi e nel suo sorriso. Mi ero presa cura di una preziosa crisalide, ora potevo ammirare la splendida farfalla che ne era scaturita.
Le accarezzai un braccio, e mi accorsi che aveva la pelle d’oca.
“In tutto questo tempo, ogni volta che dovevo prendere una decisione, mi chiedevo cosa avresti fatto tu” rispose con un sorriso adorante.
“Sono così felice che tu ce l’abbia fatta!”
“Non è stato sempre facile, qualche vicolo cieco l’ho imboccato. Avevo tentato di inserirmi in Università, ma ho trovato molte porte chiuse. Forse non ero adatta.”
“Ho letto qualcosa di tuo, era molto buono invece. Sono certa che col tempo ti saresti ritagliata uno spazio importante” aggiunsi. La voce mi usciva roca.
“Mah – disse, andando a sedersi sul divano – ho scritto un paio di articoli, partecipato a qualche convegno… ma non faceva per me. Troppi culi da baciare.”
“Avresti potuto venire da me”
“A baciare il tuo culo? Offerta interessante…” disse, scoppiando in una risata.
“Screanzata!” la ripresi, andando a sedermi accanto a lei e assestandole uno scherzoso schiaffetto sulle labbra.
“Però…” mi guardò, lasciando in sospeso la frase.
“Cosa?”
“Ho sentito la tua mancanza. In tanti momenti avrei desiderato la tua guida.”
“Te la sei cavata alla grande – replicai – sei addirittura diventata il mio capo!”
“Solo fino a domattina” mormorò, come persa in qualche vicolo secondario dei suoi pensieri.
“Beh, non perdiamo tempo, allora – risposi con tono che volle apparire pratico – vuoi il mio rapporto?”
Mi rivolse uno sguardo serio.
“Sì, per favore.”
“D’accordo – cominciai, mentre aprivo la mia ventiquattr’ore, estraendone il plico – ho effettuato una analisi...”
“Non qui – mi interruppe con un tono perentorio – vai alla scrivania, per favore.”
La fissai per un istante, senza capire.
“Vai alla scrivania” ripeté, scandendo le parole.
Mi alzai dal divano, frastornata, e cominciai a camminare.
“Muoviti lenta. Voglio guardarti.”
Un interruttore, sepolto in fondo alle mie viscere, si accese. Rallentai il passo, accentuando il movimento delle anche e del culo. Non vistosamente, appena un po’. Raggiunsi la scrivania.
“Ora siediti.”
Obbedii, ruotando la sedia verso di lei per fronteggiarla.
Cominciai a leggere, mantenendo un tono di voce piatto.
Accavallai le gambe, con lentezza come aveva chiesto, offrendole per un istante la vista delle mie cosce nude e della sottile striscia di tessuto tra di esse.
Sentii il suo sguardo azzurro scorrere su di me.
“Non va bene” disse.
“Cosa, il rapporto?” Mi sentivo rallentata e confusa, come ubriaca.
Non rispose. Si alzò, venendo verso di me con passo lento. Non mi staccava gli occhi di dosso, e io avvertivo un calore denso farsi strada in me, come se qualcuno mi avesse versato del liquore in gola.
Mi tese una mano. La presi, assaporando con i polpastrelli la delicatezza delle sue dita. Mi aiutò ad alzarmi, e con una lieve pressione sui miei fianchi mi fece voltare verso la scrivania. Prese il rapporto dalle mie mani e lo appoggiò sulla superficie di mogano.
“Ora leggi” disse.
Eseguii il suo comando, riprendendo a leggere il rapporto con voce sempre più spezzata. Le gambe mi tremavano, preda di una tensione che quasi mi spaventava.
“Il grado di soddisfazione espresso dai partecipanti al questionario…”
Mi fermai. Avvertii la sua carezza sui capelli, sulle spalle e sulla schiena. Come guidata da una volontà esterna e superiore alla mia, cominciai a dimenarmi nel tentativo di offrire alla sua mano quanta più pelle possibile.
“Per tutto quel tempo – disse – ti osservavo. Ammiravo la tua sicurezza, la tua eleganza, la tua classe sconfinata. Per tutto quel tempo non desideravo altro che essere te.”
“Aaaahh” gemetti, mentre le sue mani scivolavano lungo i fianchi.
“Non smettere di leggere” ordinò, e, per quanto difficile, mi sforzai di obbedire.
“Il punteggio sul primo indice…” Snocciolavo cifre e indicatori, ma la mia mente era altrove, trascinata nel gorgo di quel legame inesplorato eppure, me ne accorgevo solo ora, presente da sempre. La sua carezza possedeva l’affettuosa delicatezza di una sorella minore, ma c’era qualcosa di imperioso nel modo in cui la sua voce mi dominava. Avvertivo il suo potere su di me, esercitato con una grazia e un amore che mi turbavano e al tempo stesso mi impedivano anche la minima ribellione.
“Col tempo, compresi che essere te è impossibile.” Avvertii le sue dita giocare per qualche istante con le spalline del vestito, poi mi ritrovai nuda. Il filo di perle che mi correva tra le natiche era l’unica barriera tra me e lei.
Mi sentii accarezzare le cosce, i fianchi e il culo, con una delicatezza inebriante. Mai nessuno mi aveva toccata con questo misto di venerazione e possesso. Gemetti ancora.
“L’unica cosa che potevo fare, era cercare di renderti orgogliosa di me. Ho vissuto tutti questi anni con il solo desiderio di attrarre il tuo sguardo...”
“Non ho mai smesso di interessarmi a te” sussurrai, piegando la testa all’indietro nella speranza di incontrare i suoi meravigliosi occhi azzurri.
“Leggi, ti ho detto”, e accompagnò quell’ordine con una leggera ma decisa pressione sulla mia schiena, che mi obbligò a piegarmi in avanti. Ripresi a leggere il rapporto.
Afferrò le mie cosce con le sue mani da atleta e mi aprì le gambe. Si inginocchiò dietro di me. Avvertii le sue labbra sfiorarmi le natiche, poi la sua lingua giocare lungo il profilo delle perle. Assaporava ciascuna singola sfera e mi faceva sentire il suo alito caldo e bagnato. Sentivo il piacere sgorgare dalla mia fica lungo le cosce, ma mi sforzai di proseguire la lettura del documento, come mi aveva chiesto.
“Non ti sei mai chiesta perché me ne stavo in disparte alle feste? Perché qualunque sguardo diverso dal tuo mi disgustava. Qualunque tocco non fosse il tuo era destinato a deludermi. Ho trascorso quei due anni sognando un momento come questo.”
Con un gesto delicato, scostò il filo di perle, e cominciò ad accarezzarmi la fica, raccogliendo le labbra nel proprio palmo, come se avesse tra le mani il frutto proibito di Eva. Le schiuse dolcemente con le dita, e cominciò a titillare il mio clitoride.
“Tesoro…” dissi. Mi sentivo così amata, in quel momento, che mi parve di sentire il cuore allargarsi per fare posto a quel sentimento nuovo e inatteso. Cominciai a muovere il bacino per ricevere meglio le sue carezze. Tenendo il filo di perle con il pollice, mi afferrò le natiche con entrambe le mani, allargandole, e infilò la lingua tra di esse. Sentii la carezza rovente della sua bocca nella fica e nel culo, e mi spinsi all’indietro per lasciarmi penetrare. Volevo ogni centimetro di quella lingua dentro di me, non potevo sopportare la minima distanza tra noi.
“Aaaaahh, continua...”
“Tu leggi” disse, riportandomi al compito che mi aveva assegnato, prima di rituffarsi nei miei orifizi, lavorandoli con spietata lentezza. Vittima impotente dell’assalto di quella bocca meravigliosa e crudele, venni una prima volta, riversandole sul viso i miei umori densi e caldi. Sonya si sollevò, facendomi voltare. Era bellissima. Gocce del mio piacere le imperlavano il viso e le labbra erano gonfie e arrossate per l’eccitazione e lo sfregamento. Mi baciò con foga. Mi dischiusi senza esitazione al contatto con la sua bocca, fradicia dei miei effluvi, assaporando me stessa sulla sua lingua, avvinghiandomi a lei e lasciandomi frugare ovunque dalle sue mani. Mi sfilò il perizoma scagliandolo sul pavimento con un gesto quasi rabbioso.
“Questo via” disse.
Mi afferrò per i capelli, trascinandomi fino al muro. Rabbrividii al freddo contatto della parete contro la mia schiena nuda, poi mi sentii sollevare come un fuscello. Sonya mi aveva afferrata per le natiche e, usando la forza impressionante che si era guadagnata sudando in palestra ogni giorno, mi aveva alzata fino a che la mia fica era stata all’altezza delle sue labbra. Me ne stavo lì, sollevata da terra, con le mie gambe spalancate e la fica premuta contro il suo viso, e mi lasciavo leccare ancora e ancora. Sembrava possedere una sete inesauribile di me. Le afferrai i corti capelli biondi con entrambe le mani, invitandola a penetrarmi sempre più a fondo. Cominciò a scoparmi con la lingua, facendo avanti e indietro dentro di me con spinte ritmate e profonde. Ogni volta che la estraeva, avvertivo un lacerante senso di perdita, come se la parte più viva e preziosa di me mi venisse strappata via. Allora stringevo e spingevo, tendando di riaverla, mugolando di piacere e supplicandola di darmene ancora.
I suoi occhi si inchiodarono ai miei mentre mi leccava con furia sempre maggiore, e la combinazione della sua bocca affamata e delle sue iridi azzurre su di me mi fece arrendere di nuovo. Venni ancora, più forte e più a lungo di prima. Urlai il mio piacere alle mura vuote e mi afflosciai contro di lei.
Mi fece scendere con lentezza, mi prese tra le sue braccia e si diresse verso il letto.
Sopportava il mio peso senza alcuno sforzo, ma la sua potenza non aveva nulla di virile. Era femmina, bellissima e dolce, e mi amava con una forza che pochi uomini avevano dimostrato. Mi proteggeva e al tempo stesso mi dominava, e io non desideravo altro che essere sua. Mi appoggiò sul letto con la delicatezza che avrebbe usato se fossi stata un vaso di porcellana. Mi distesi sotto di lei e cominciai a baciarla, cercandola con le labbra e con la lingua. Il suo sapore mi inebriava, mentre le sue mani mi afferravano i seni, facendo passare i miei capezzoli tra le dita. Li sentivo indurirsi sotto i suoi polpastrelli, rispondendo a quelle sollecitazioni come se non avessero atteso altro. Cominciai a cercarla con le mani, scivolando su di lei, infilandomi sotto il corto tubino per catturare scampoli della sua pelle.
Si sfilò il vestito con un unico gesto deciso. Sotto non indossava nulla. Potei ammirare il suo corpo muscoloso eppure aggraziato, gli addominali scolpiti e i seni piccoli e tonici. I capezzoli erano di un rosa chiaro che si sposava bene con il candore latteo della sua pelle. Le accarezzai il collo, i seni e l’addome. Sfiorai le areole con le dita, poi mi sollevai sui gomiti per baciarle i capezzoli. Era strano sentire quelle morbide appendici tra le mie labbra, trovarmi per una volta all’altra estremità di quel gesto che conoscevo così bene.
Sonya mi spinse con delicatezza all’indietro e montò a cavalcioni sopra di me, portando la fica all’altezza delle mie labbra.
“Leccami” disse, mentre mi teneva ferma la testa con una mano.
Non avevo mai accolto il sesso di un’altra donna nella mia bocca. Avevo scambiato qualche bacio e un paio di frizzanti toccatine con una compagna di Università, tempo addietro, ma non mi ero mai spinta oltre.
Eppure, in quel momento, immobilizzata sotto di lei, con la sua mano poderosa infilata tra i miei capelli, aprire la bocca per lei mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Lasciai entrare la sua morbida carne, per nulla infastidita dal soffice strato di peluria bionda che la circondava, e cominciai a leccare, languida. Sentirmi invadere dai suoi umori mi strappò rantoli di piacere. Succhiai il suo clitoride, imprigionandolo tra le labbra ed esplorandolo con la lingua, sottomessa alla sua presa, incoraggiata dai gemiti crescenti che uscivano dalla sua bocca.
“Oooh sì… così… brava…” disse mentre mi accarezzava i capelli, sincronizzandosi con il ritmo delle mie leccate, che nel frattempo si facevano più avide e impazienti. Mi trattava come la sua brava cagnolina, e in quell’istante non desideravo essere null’altro.
La sentii venire nella mia bocca, con un ruggito fragoroso che le scaturì dalle viscere e ci fece vibrare entrambe. Mi sentivo felice e orgogliosa, nel regalarle quel piacere.
Si afflosciò su di me. La strinsi tra le braccia, baciandole il viso e le labbra, ridendo assieme a lei, condividendo quell’intimo istante di gioia con vorace avidità, come se potesse dissiparsi da un momento all’altro.
“Ti adoro” le sussurrai all’orecchio, e lei mi rispose con una carezza sulla guancia che mi fece sospirare.
“Resta qui” disse poi, alzandosi a fatica.
La osservai dirigersi alla scrivania. Fece il giro attorno al tavolo, e aprì un cassetto. Ne estrasse un lungo strap-on con le fibbie di cuoio nero. Osservai come ipnotizzata quel fallo di lattice, che mi apparve esageratamente grosso e nodoso. Con l’enorme cazzo artificiale tra le mani, tornò a distendersi al mio fianco, accarezzandomi il viso.
“Sonya…” cominciai a dire, con un’espressione combattuta sul viso.
“Cosa?”
“Io non credo che… non ho mai…”
“Non preoccuparti” disse, baciandomi con dolcezza sulle labbra.
“No, è che io non sono…” Mi fermai. Non sapevo come esprimere quello che volevo senza ferirla.
“Lesbica? Nemmeno io. Ho sempre avuto solo uomini, ma sono innamorata di te dal primo giorno che ti ho vista, e in questi anni non ho fatto che cercare di rendere possibile questo momento. Questo – disse, mostrandomi lo strap-on – l’ho comprato due anni fa, e non l’ho mai usato. Ho aspettato te. Solo te.”
Mi morsi il labbro, rosa dall’indecisione. Non avevo mai provato alcuna attrazione per quel genere di pratiche, anzi, avvertivo da sempre una vaga repulsione quando osservavo scene che coinvolgevano quegli oggetti. Mi sembrava una goffa replica di qualcosa che aveva tutt’altro significato. Tuttavia, mi trovavo distesa con Sonya che mi blandiva e mi accarezzava, e quel brivido perverso che mi si era insinuato sotto la pelle fin dal primo istante mi spingeva a darle tutto quello che desiderava.
“Io…”
“Ti prego” disse, e mi catturò con i suoi occhi. Fissarli era come guardare il cielo terso di una mattina d’inverno, fredda, pungente eppure sconfinata nella sua bellezza.
Mi arresi. La baciai ancora, mentre mi accarezzava la fica, spargendo i miei umori lungo tutta l’apertura. Si erse sopra di me, cominciando a fissare le fibbie lungo i fianchi senza mai smettere di guardarmi.
“Voltati” ordinò.
Esitante, obbedii. Mi distesi sotto di lei, in attesa. Sentivo una strana ansia anticipatoria crescere dentro di me, e in quel momento fui vergine, intatta e inviolata. Fu una sensazione terribile e meravigliosa.
Mi sentii afferrare di nuovo per i capelli, e mi lasciai sollevare. Sonya mi baciò il collo da dietro, palpando i mei seni e la mia fica con una tale passione che quasi venni un’altra volta.
Mi spinse in avanti, sistemandomi a novanta gradi di fronte a sé. Ero esposta, indifesa, pronta per lei.
Sentii una mano appoggiarsi sul mio culo, poi avvertii il calore della penetrazione. Mi sentii aprire e riempire, mentre le sue spinte delicate si intensificavano e crescevano di ritmo.
Era diversa da un maschio. Gli uomini mi fottevano guidati dagli impulsi che il cazzo, stretto tra le pareti della mia vagina, trasmetteva loro. Seguivano qualche istinto radicato nel loro cromosoma Y, in ascolto del proprio piacere sessuale. Anche i più sensibili e attenti non potevano sottrarsi al richiamo della propria biologia, che dettava ritmi, tempi e modi di quella danza. Sonya mi stava scopando in preda ai sogni e alle fantasie che aveva coltivato in quegli anni. Si impossessava di me assecondando le mie sollecitazioni, immergendosi in quel legame che ci univa. Sapeva essere rude, possente, ma anche dolce, mi faceva sentire quel cazzo dentro come se appartenesse a entrambe.
Il senso di fastidio che provavo a contatto con il lattice era soffocato, sommerso dalle ondate di piacere che quel momento di telepatia sessuale mi regalava.
“Aaaah… prendimi amore, così…”
I miei gemiti e i miei inviti la accendevano, incendiando il suo desiderio e spingendola a penetrarmi più a fondo e con maggiore intensità.
“Dio, per quanto tempo ho sognato questo culo!” disse, e cominciò a schiaffeggiarmi le natiche.
“Aaah!”
“Ti piace, troia? Ti piace farti sculacciare dalla tua allieva?”
“Sì, mi piace farmi fottere dalla mia allieva migliore!” urlai, accettando la sua punizione. La mia resa la eccitava, rendendola sempre più sporca e audace. Mi sentii afferrare per i capelli e inarcai la schiena, offrendole tutto quello che desiderava. Sentii il suo pollice appoggiarsi sul mio sfintere. Lo saggiò per qualche istante, spalmandovi gli umori che colavano dalla mia fica aperta, poi lo penetrò a fondo e con fermezza. Gridai ancora.
“E questo? Anche questo ti piace?”
“Tu mi puoi fare il cazzo che vuoi.”
Spinse il suo pollice nodoso ancora più dentro di me, strappandomi un selvaggio grugnito di piacere. Allungai un braccio all’indietro e le piantai le unghie nella coscia, affondando in quei muscoli di marmo con tutta la forza che avevo. Avevo un disperato bisogno di allacciare il mio piacere al suo.
Senza interrompere la penetrazione, mi sollevò appena, sdraiandosi sotto di me per permettermi di cavalcarla da sopra. Sempre dandole la schiena, mi impalai a fondo su di lei, offrendole il mio culo da schiaffeggiare ancora, come ero certa desiderasse. Non si fece pregare, colpendomi forte mentre mi portava al culmine. Diede dei potenti colpi di bacino, dettando il ritmo di quelle ultime spinte, anch’ella preda di un piacere quasi insostenibile. La sentivo gemere, urlare e sussurrarmi parole sporche, mentre mi dava gli ultimi affondi.
Gridai quando l’ultimo, sconquassante orgasmo mi colpì, scatenando umori che avvolsero il palo di lattice e bagnarono l’addome teso di Sonya. Venne anche lei, quasi all’unisono, intensificando la stretta sulle mie natiche per poi abbandonarla di colpo, esausta.
Mi sdraiai su di lei, lasciandomi andare nel suo abbraccio.
Sentivo i suoi baci dappertutto, caldi e dolci.
“Grazie” mi mormorò all’orecchio, e in quell’istante di intensa felicità sentii di amarla in un modo che non avevo mai provato. Sapevo che l’indomani ci saremmo rintanate ciascuna nella propria vita, custodendo il segreto di quel momento irripetibile, ma stanotte decisi di cedere all’adorazione che provavo per quel frammento di cuore ritrovato, rispondendo a quei baci con entusiasmo e passione.
Mi staccai da lei per imprimere nella mia memoria il ricordo di quelle iridi meravigliose, poi le sorrisi.
“Io non ho ancora mangiato, direttore, e lei?”
La sua risata echeggiò nella stanza come la più dolce delle melodie.


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