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Il miglior regalo di compleanno di sempre


di ElegantiInsieme
29.05.2025    |    1.443    |    5 9.3
"Il suo abbraccio si prolungò, le mani scivolarono lungo la schiena di Matilde, posandosi apertamente sul suo sedere, un tocco audace e possessivo..."
Il sole di fine estate accarezzava la facciata immacolata della nostra nuova villetta a Modena, facendola risplendere come una tela pronta ad accogliere i nostri sogni.
Avevamo aspettato quel momento per mesi, tra pratiche burocratiche e notti insonni piene di progetti. Ora, finalmente, la chiave luccicava tra le mie dita, pesante di promesse.
“Pronta?” chiesi stringendo la mano di mia moglie Matilde.
Annuii, emozionata. La serratura cedette con un clic soddisfatto, e la porta si aprì su un silenzio carico di attesa.
L'aria era tiepida, profumata di legno nuovo e di possibilità. Attraversammo le stanze vuote, i nostri passi echeggiavano come esploratori in un territorio inesplorato. Cinque stanze luminose, un giardino intriso del profumo di lavanda e menta, e una terrazza sopra il garage che lasciava intravedere i colli lontani, come un segreto sussurrato. Quel luogo vibrava di un'intimità viva, quasi tangibile, come se promettesse di custodire il prossimo capitolo della nostra vita.
Matilde si muoveva tra le stanze con la grazia di una danzatrice, i capelli neri raccolti in un nodo morbido e spettinato che lasciava scoperto il collo sottile, invitante. La sua camicetta di lino chiaro, leggera come un respiro, aderiva appena alla pelle, lasciando intravedere le curve delicate del suo corpo sotto i raggi del sole. Gli shorts fasciavano i suoi fianchi con una disinvoltura che sembrava inconsapevole, eppure ogni suo movimento era un invito silenzioso. La luce la sfiorava come un amante, accendendo riflessi dorati sulla sua pelle.
Fuori, le risate dei bambini si mescolavano a quelle dei figli dei vicini, una giovane coppia gentile che si era offerta di tenerli d'occhio nel caos del trasloco. Dentro casa, regnava una confusione vibrante: scatole accatastate, mobili da sistemare, e il ritmo deciso dei traslocatori, tre uomini robusti che si muovevano con un'armonia quasi coreografica. Aldo, il più anziano, guidava la squadra con una voce roca e un sorriso malizioso, mentre Michele e Luigi lo seguivano con un'energia complice, i loro sguardi diretti, quasi sfacciati.
Li osservavo di nascosto, notando come i loro occhi si posassero su Matilde. Lei sembrava non accorgersene, chinandosi a raccogliere una scatola, la camicetta che scivolava appena a rivelare un lembo di pelle, i capelli che le cadevano sul viso in un gesto che aveva un'eleganza involontaria. O forse ero io a vedere tutto questo, contagiato dalla loro brama.
Mi avvicinai al furgone per consegnare la mancia, ma la voce di Aldo mi inchiodò nell'ombra, nascosto dal portellone.
"Porca miseria, che culo," ridacchiò, il tono carico di apprezzamento. "Il migliore dell'anno, te lo giuro. Stasera mia moglie non capirà niente… ma nella mia testa ci sarà solo lei, quella curva perfetta."
Un brivido di rabbia mi attraversò, caldo e tagliente. Parlava di Matilde. La mia Matilde. Ma sotto la collera, qualcosa di più oscuro si insinuò: un desiderio caldo, elettrico, che intrecciava gelosia e fascinazione. Rimasi lì, immobile, a spiare le loro parole.
Le loro voci si fecero più basse, più intime, mentre la tensione nell'aria diventava palpabile. Il sole filtrava attraverso le foglie del giardino profumato di lavanda, ma ora quella stessa luce sembrava caricarsi di una sensualità diversa, più intensa. La casa che doveva custodire i nostri sogni stava già assistendo ai primi giochi pericolosi del desiderio, alle prime crepe di un'intimità che forse non sarebbe rimasta solo nostra.
Un brivido di rabbia mi attraversò, caldo e tagliente. Parlava di Matilde. La mia Matilde. Ma sotto la collera, qualcosa di più oscuro si insinuò: un desiderio caldo, elettrico, che intrecciava gelosia e fascinazione. Rimasi lì, immobile, a spiare le loro parole.
“Una vera bomba,” continuò Aldo, abbassando la voce come per custodire un segreto prezioso. “Del Sud, ci scommetto. Quegli occhi neri, profondi, che ti spogliano senza chiedere permesso. E quel corpo… fatto per peccare. Mi ricorda Monica Bellucci”
Michele intervenne, la voce giovane ma carica di audacia. “Me la immagino schiacciata contro il muro, le gambe avvinghiate a me, la sua bocca che ansima nel mio orecchio mentre la prendo, senza sosta.”
Le sue parole mi colpirono come una scossa. Avrei dovuto uscire, affrontarli. Ma non lo feci. Le loro fantasie crude accendevano in me qualcosa di proibito, un piacere oscuro nel sapere che Matilde, mia moglie, era capace di scatenare un desiderio così viscerale in estranei. Era come se, attraverso i loro occhi, vedessi una versione di lei che non avevo mai osato immaginare.
Aldo rise ancora, un suono basso e complice. “No, io la voglio in ginocchio, con quelle tette perfette tra le mani. O piegata in avanti, mentre le stringo i fianchi e la faccio gridare in modi che suo marito non ha mai sognato. Meglio di quella di Parma, te lo dico io.”
“Parma?” chiese Luigi, la voce incerta, come se temesse di perdersi un dettaglio.
Aldo abbassò ancora il tono, quasi stesse condividendo un tesoro. “Oh, tu non c’eri, ragazzo. Una cliente, sui trentacinque, bionda, curve da capogiro. Elegante, ma… pronta. Dopo il trasloco, è salita sul furgone. Michele le ha chiesto un bacio, e lei non si è tirata indietro. Da lì, tutto è esploso: mani ovunque, la gonna strappata, il suo corpo nudo sul telone. Ci ha presi tutti, uno dopo l’altro. E alla fine, ci ha pagati. Cinquanta euro a testa, con un sorriso che non dimenticherò mai.”
Luigi emise un fischio sommesso. “E questa… pensi che…?”
“No,” tagliò corto Aldo, ma con un pizzico di rimpianto. “Questa è diversa. Non sa nemmeno quanto è sexy. Una di quelle mogli fedeli, tutta casa e famiglia, che si concede solo il sabato sera, a luci spente. Ma se qualcuno le mostrasse cosa si perde… potrebbe svegliarsi.”
Le loro risate si persero nel rumore delle scatole. Mi ritirai in silenzio, il cuore che martellava. Uscii sul vialetto, spinto dal bisogno di vedere ciò che loro avevano già visto. Matilde era lì, che rideva con Marco, il lavandaio, un giovane moro con le maniche arrotolate e uno sguardo che la divorava. La sua mano gli sfiorava il braccio, un gesto apparentemente innocente ma carico di sottintesi. La camicetta si tendeva appena sul suo seno, lasciando intravedere la pelle nuda sotto il tessuto leggero.
Marco la seguì con gli occhi mentre si allontanava, i fianchi di lei che ondeggiavano con una grazia ipnotica, gli shorts che ne esaltavano ogni curva. Per la prima volta, la vidi davvero: non solo mia moglie, ma una donna capace di accendere desideri sconosciuti.
Rientrai in casa, il sangue che pulsava nelle vene. Matilde era in cucina, intenta a sistemare stoviglie, la pelle arrossata dal calore. Mi avvicinai, scivolando dietro di lei, le mani che sfioravano la sua vita, poi più giù, seguendo la curva dei suoi fianchi. Il suo profumo, leggero, sensuale, misto al sudore, mi travolse. Le baciai la guancia, lasciando che le mie labbra indugiassero sulla sua pelle.
“Ciao, amore,” sussurrò, voltandosi per sfiorarmi le labbra con un bacio rapido, gli occhi brillanti di vita. “Hai dato la mancia ai ragazzi?”
“Non ancora,” risposi, le mani ancora su di lei, i pensieri altrove. “Andiamo a salutarli.”
Mi prese per mano, il suo tocco caldo e sicuro. Mentre ci avvicinavamo al furgone, Aldo ci accolse con un sorriso largo, i suoi occhi che scivolavano su Matilde con una sfrontatezza che mi fece accelerare il battito.
“Tutto fatto?” chiesi, porgendo le banconote.
“Perfetto, signore,” rispose Aldo, stringendomi la mano con una presa ferma. Il suo sguardo passò da me a Matilde, troppo diretto, troppo audace. “Buona fortuna nella nuova casa.”
“Grazie, Aldo,” disse lei con calore, posandogli una mano sulla spalla. Poi, in un gesto che mi colse alla sprovvista, lui si chinò e le sue labbra sfiorarono la guancia di lei, un contatto rapido ma sfacciato. I loro corpi si sfiorarono, il petto di lui contro il seno di lei, e io rimasi fermo, travolto da un misto di confusione e desiderio.
Michele fu il prossimo, la sua stretta di mano accompagnata da un sorrisetto ambiguo. Ma fu Luigi, il più giovane, a spingersi oltre. Il suo abbraccio si prolungò, le mani scivolarono lungo la schiena di Matilde, posandosi apertamente sul suo sedere, un tocco audace e possessivo. Lei non si ritrasse. Arrossì, il respiro che le si spezzava in gola.
Tornammo in casa in silenzio, l’aria densa di tensione. La guardai, un sorriso malizioso sulle labbra. “Scommetto che vorrebbero fosse di nuovo Parma.”
Tre mesi dopo, l’autunno aveva addolcito i contorni di Modena, ma la scintilla accesa quel giorno di trasloco non si era mai spenta. Le parole crude dei traslocatori, i loro sguardi bramosi su Matilde, si erano sedimentate nella mia mente, intrecciandosi ai miei sogni e infiammando le nostre notti. Il nostro fare l’amore era diventato più intenso, più urgente, un dialogo muto di sguardi e fantasie non dette. Nei gemiti di Matilde c’era una nuova sfumatura, come se anche lei sentisse il richiamo di qualcosa di più selvaggio.
Marco, il lavandaio, rimaneva un’ombra nei nostri discorsi. Non lo nominava mai, ma il suo silenzio lo rendeva ancora più presente.
Un sabato pomeriggio, ci avventurammo in un centro commerciale affollato, l’aria satura di profumi di caffè e dolci. Matilde indossava un vestito verde bottiglia che le scivolava addosso come una carezza, aderendo alla vita e accendendo riflessi sul suo seno a ogni movimento. Il tessuto si muoveva come acqua, seguendo le sue curve. Camminava con una sensualità naturale, quasi inconsapevole, che attirava gli sguardi come una calamita.
Ci fermammo per un gelato. Io sedevo a un tavolino, mentre lei si avvicinava al bancone, i fianchi che ondeggiavano con una grazia ipnotica. Fu allora che lo vidi: Marco, seduto a pochi tavoli di distanza, gli occhi inchiodati su di lei. Il suo sguardo non si limitava a sfiorarla: la divorava, scivolando lungo le sue curve con una lentezza oscena, come se stesse già immaginando cosa celava il tessuto. Il mento poggiato sul pugno, le labbra serrate, era un predatore in attesa.
Poi i loro occhi si incrociarono. Matilde sorrise, non un sorriso casuale, ma uno complice, intimo. Un “Ciao” muto che mi colpì come uno schiaffo.
Quando tornò al tavolo, le sue guance erano leggermente arrossate, gli occhi accesi da una scintilla trattenuta. Fingemmo normalità, ma l’aria tra noi era carica, densa di possibilità.
Quella sera, a cena, eravamo soli. I bambini dormivano dai vicini, e la casa sembrava respirare al nostro ritmo. Stappai una bottiglia di rosso, la luce calda delle lampade che accarezzava la pelle di Matilde. Indossava una camicetta bianca, così leggera da essere quasi trasparente, senza reggiseno, e una gonna che fluttuava a ogni movimento, rivelando appena le sue cosce. Era bellissima, di una bellezza che faceva quasi male.
“Chi era quel tipo alla gelateria?” chiesi, fingendo noncuranza mentre giocherellavo col bicchiere.
Matilde si fermò, il cucchiaio a mezz’aria. “Oh, solo Marco… il lavandaio.”
Il suo nome mi colpì come una scossa. Marco. L’uomo che l’aveva guardata con fame, il nome che avevo sentito scivolare dalle sue labbra nei momenti più intimi.
“Non sapevo usassimo una lavanderia,” dissi, la voce più tesa di quanto volessi.
Matilde si strinse nelle spalle, un sorriso giocoso sulle labbra. “È iniziato col trasloco, per comodità. Fa un buon lavoro, non costa molto. E… si è creato un rapporto di fiducia.”
“Fiducia,” ripetei, lasciando che la parola aleggiasse. “Quanto spesso viene?”
“Lunedì ritira, giovedì consegna,” rispose, il sorriso che si faceva più malizioso. “Non così spesso come immagini.”
Mi avvicinai, sfiorandole la coscia con il dorso della mano. “Alla gelateria, ho visto come ti guardava. Come se ti volesse divorare. E tu… lo sapevi.”
Le sue guance si tinsero di rosa, ma il suo sguardo incontrò il mio, audace. “L’ho notato,” ammise, la voce un sussurro. “Gli tremavano le mani. E… ho visto tutto.”
L’aria si fece densa. Le mie dita si strinsero sulla sua coscia, il respiro irregolare. “Dimmi di più.”
Matilde si ritrasse appena, ma lasciò la mano sulla mia gamba, un segnale muto. Fece un respiro profondo, come se stesse per confessare un peccato.
“La prima volta che è tornato con il bucato,” iniziò, “gli ho offerto un caffè. Un gesto spontaneo. Gli ho chiesto di portare i panni in camera, stavo sistemando gli armadi. Lui ha accettato, muovendosi con una lentezza che non era solo cortesia. Più tardi, ho trovato le mie mutandine rosa sul bordo del lavandino. Non dovevano essere lì. E sotto… una traccia di lui.”
Il mio cuore martellava. “Cosa hai fatto?”
“Le ho indossate,” confessò, la voce tremante di sfida. “E mi sono toccata, immaginando che fosse ancora lì, a guardarmi, a desiderarmi.”
Mi alzai, l’afferrai per i fianchi e la trascinai sul divano. La sua pelle era incandescente, gli occhi liquidi di desiderio. Sollevai la sua gonna, trovandola nuda sotto, già pronta. La penetrai lentamente, assaporando ogni fremito del suo corpo, ogni respiro spezzato.
“Immagina che sia qui,” sussurrai, la voce roca. “Marco. Che ti guarda. Che ti vuole. Che sa come sei.”
Matilde gemette, le sue cosce che si aprivano sotto di me. “Voglio che mi veda,” ansimò. “Voglio che sappia quanto godo con te… e quanto potrei godere con lui.”
Il piacere ci travolse come un incendio. I nostri corpi si fusero, scivolosi di sudore e desiderio, ogni gemito un atto di liberazione. Quando raggiungemmo il culmine, fu come un ritorno, a noi stessi, alla nostra complicità più profonda.
Il giovedì successivo mi svegliai presto, annunciando a Matilde che avrei lavorato da casa. Mentii. Dovevo vedere, sapere, essere testimone. Lei mi credette, o forse finse di farlo, sperando che la guardassi.
Mi nascosi nella cabina armadio, lasciando uno spiraglio tra le ante per osservare. Matilde indossava una camicetta color crema, così sottile che i suoi capezzoli si disegnavano netti sotto il tessuto. Niente reggiseno. Niente pudore.
Il rumore del furgone ruppe il silenzio. Marco entrò con il cesto del bucato, posandolo sul bancone della cucina. “Devo uscire,” disse Matilde, prendendo una penna. “Aspetta un attimo che ti do I soldi e firmo la ricevuta”
Mentre scriveva, la camicetta si aprì, rivelando la curva morbida del seno. Marco non riusciva a distogliere lo sguardo, il suo desiderio palpabile. E Matilde lo sapeva.
Porgendogli la ricevuta, finse di inciampare. La sua mano scivolò in avanti, chiudendosi per un istante sull’erezione di lui, tesa sotto il tessuto dei pantaloni. “Oh, scusa!” esclamò, la voce velata di finta sorpresa. Ma le sue dita indugiarono, un tocco che diceva tutto.
Marco balbettò qualcosa e uscì in fretta. Matilde rimase immobile un istante, poi corse in camera. Si gettò sul letto, le gambe aperte, e iniziò a toccarsi con una foga disperata, ansimando.
Uscii dal mio nascondiglio come un predatore. “Ti è piaciuto?” le chiesi, raggiungendola.
“Sì,” ansimò, gli occhi pieni di fuoco. “Volevo sentirlo. Sapere quanto mi desidera.”
“E ora?” sussurrai, il mio corpo sopra il suo.
“Ora voglio te.”
La presi lì, sul bordo del letto, con una foga che parlava di possesso e abbandono. Ogni spinta era una rivendicazione, ogni gemito un sigillo del nostro gioco pericoloso.
La settimana successiva portammo i bambini dai nonni a Bologna, regalandoci un weekend di libertà. Durante il viaggio di ritorno, il desiderio vibrava tra noi come una corrente costante. Matilde indossava un top verde acqua che le accarezzava il seno e shorts di seta nera che lasciavano le cosce nude, lucide sotto il sole.
“Non vedo l’ora di arrivare a casa,” sussurrò, guidando la mia mano tra le sue gambe. Era già bagnata, il calore della sua pelle un invito irresistibile.
Slacciò il top, il reggiseno trasparente che rivelava i capezzoli turgidi. Superai un camion, e un clacson squillò dietro di noi.
Matilde rise, un suono basso e malizioso. “Non era la tua guida a interessarlo… ha visto me.”
Le sue dita scivolarono sotto gli shorts, accarezzandosi con lentezza deliberata mentre io guidavo. Aprì il reggiseno, i seni liberi che ondeggiavano sotto lo sguardo di un altro camionista.
“Mi guardava,” ansimò, sfiorando il clitoride. “Voleva prendermi.”
Accelerai, il cuore che martellava. Matilde raggiunse l’orgasmo in piena corsia di sorpasso, un gemito strozzato, le cosce tese. “Portami a casa,” disse. “E finiscimi.”
Quella notte, lo feci. Più e più volte, come se ogni tocco potesse riscrivere il nostro desiderio.
Il giorno del mio compleanno arrivò con un’aria sospesa, carica di promesse. Matilde mi baciò al mattino, le sue labbra morbide sulla mia guancia. “Ho un regalo per te,” sussurrò. “Fidati. Ma dovrai aspettare.”
Mi condusse nella cabina armadio e chiuse la porta. “Non dire una parola,” ordinò, gli occhi scintillanti. “Guarda. E basta.”
Poco dopo, il rumore del furgone annunciò l’arrivo di Marco. Matilde uscì dal bagno, il corpo fasciato da un reggicalze bianco, calze trasparenti che accarezzavano le cosce, e minuscoli slip che lasciavano poco all’immaginazione. I suoi seni nudi si muovevano con una grazia peccaminosa, i capezzoli turgidi come un invito.
Quando Marco entrò nella camera da letto, Matilde era piegata a raccogliere qualcosa, le natiche perfette incorniciate dal reggicalze come un’opera d’arte. Lui si avvicinò, il respiro corto, gli occhi pieni di fame. Lei si voltò, un sorriso appena accennato sulle labbra, e lui le baciò il collo, poi la bocca, le mani che esploravano ogni curva con una reverenza audace.
Matilde spinse Marco sul letto con un gesto insieme dolce e dominante, le dita che scivolavano lungo la fibbia della sua cintura con la lentezza di un rituale. Ogni click del metallo che cedeva era un promessa, ogni centimetro di pelle scoperta un tributo al desiderio. I suoi pantaloni scivolarono a terra, e lì, tra le ombre dorate della stanza, il suo corpo rispondeva al richiamo di Matilde, turgido, fiero, una curva perfetta di bisogno non detto.

“Tutto questo... è solo mio?” sussurrò, la voce una carezza roca che si confondeva con il fruscio delle lenzuola. Le labbra sfiorarono la tensione del suo addome, un bacio appena accennato che fece tremare Marco sotto di lei.
Poi lo cavalcò, un’ascesa lenta, deliberata, come se volesse assaporare ogni millimetro di quel penetrante connubio. I fianchi di Matilda ondeggiavano contro di lui, una furiosa sinfonia di passione e desiderio. I suoi seni sobbalzavano a ogni spinta, i capezzoli così eretti da poter tagliare il vetro, la sola vista faceva ribollire il sangue di Marco. Lui si allungò, prendendoli a coppa, sentendo il peso del suo piacere tra le mani, facendo roteare i capezzoli tesi tra i pollici e gli indici, stuzzicandola e tormentandola finché lei non gemette.
I muscoli di Marco si irrigidirono, tutto il suo corpo una spirale di desiderio pronta a scattare. Sentì il calore del suo orgasmo crescere, le sue pareti intorno a sé stringersi. E mentre lei raggiungeva quell'apice, con le unghie che gli si conficcavano nel petto, lui abbandonò la propria autocontrollo, immergendosi in lei con una ferocia che rispecchiava la sua.
I loro corpi si muovevano all'unisono, una danza di dominio e sottomissione a cui nessuno dei due poteva resistere. I suoi denti trovarono la sua spalla, mordendola con forza mentre spingeva verso l'alto, il suo gemito di piacere si mescolava al grugnito di lui per lo sforzo. La testiera del letto sbatté contro il muro con un rumore staccato che sottolineava la loro estasi condivisa.
Le sue gambe si strinsero intorno alla sua vita, i suoi talloni gli affondarono nella schiena, spingendolo più a fondo, più velocemente, più forte. La stanza si fece calda, l'aria densa dei loro odori mescolati: un potente profumo di sudore, sesso e soddisfazione. La tensione tra loro era una cosa viva, una bestia che esigeva di essere nutrita.
E mentre raggiungevano il loro crescendo, il mondo esterno cessò di esistere. C'erano solo loro due, intrecciati in una passione così intensa da lasciare lividi nelle loro anime. Si dimenavano e si contorcevano, i loro corpi parlavano un linguaggio che trascendeva le parole, una silenziosa confessione di bisogno e desiderio che li legava in questo momento di pura, sfrenata lussuria.
I loro orgasmi li travolsero come un'onda, lasciandoli senza fiato, con i cuori che battevano come cavalli selvaggi. Crollarono sul letto, le membra aggrovigliate in un groviglio di lenzuola umide e muscoli tremanti.
E io, spettatore maledetto, bruciavo nell’ombra. Il desiderio mi scolpiva le vene, trasformando ogni loro sussulto in una lama che mi trafiggeva. Quando Matilde gettò indietro la testa, il collo un arco teso nel lampo della luna, e urlò il nome di Marco, il mio corpo esplose in un silenzio vorace, un orgasmo fantasma, violento e solitario, che mi lasciò vuoto eppure più affamato che mai.
Marco si vestì con movimenti misurati, ogni gesto un addio silenzioso. La sua ombra si allungò contro il muro prima di svanire dietro la porta, lasciando nell'aria il profumo del suo sudore e del nostro peccato condiviso.
Matilde giaceva come una divinità sfinita, il corpo modellato dalla luce ambra che filtrava attraverso le tende di seta. Il suo respiro ancora affannoso sollevava appena i seni, dove perle di sudore scintillavano come diamanti su marmo caldo. Le mie dita seguirono il percorso di una goccia che scivolava lungo il suo torace, assaporandone il sapore salato prima che raggiungesse il ventre, ancora palpitante.
"Ti è piaciuto guardare?" La sua voce era un velluto nero che mi avvolgeva. Gli occhi, due pozze d'inchiostro in cui affondavo senza speranza, mi legavano più saldamente di qualsiasi corda.
Mi strisciai lungo il suo corpo come un serpente affamato, sentendo sotto di me il calore che ancora emanava dall'incontro. "Sei stata sublime," mormorai contro la sua clavicola, affondando i denti nella carne morbida abbastanza da lasciare un segno effimero.
Il suo riso fu un suono oscuro e carnale. "Sciocchino," sussurrò, afferrandomi i capelli con mano ferma mentre mi guidava verso il basso. "Non hai ancora visto nulla."
Con un gesto fluido e inesorabile, Matilde mi rovesciò sulla schiena, la sua forza sorprendente per un corpo così sinuoso. Le sue cosce mi imprigionarono i fianchi mentre si librava sopra di me, i capelli sciolti che caddero come una cortina di seta scura, creando un mondo a parte dove esistevamo solo io e lei.
Sentii il calore umido del suo corpo scivolare lungo il mio, una tortura dolce e deliberata. Poi, con una lentezza che mi fece gemere, iniziò ad abbassarsi, prendendomi dentro di sé centimetro dopo centimetro. Ogni frazione di spazio conquistato era un supplizio estatico - la stretta ardente del suo interno che mi avvolgeva come un guanto di velluto, il movimento impercettibile dei suoi muscoli che mi succhiavano la volontà.
“Guarda bene," sussurrò, afferrandomi la mascella con dita ferree mentre finalmente mi accolse completamente. "Questo è il tuo posto."
Il suo ritmo fu una danza crudele, salivamo insieme fino al limite, per poi lasciarmi cadere nell'abisso quando si fermava, lasciandomi agonizzante nella pienezza incompleta. Le sue unghie mi segnavano il petto, i denti mi mordevano il collo, ogni morso un promemoria della mia sottomissione.
E in quell'istante, mentre il mio corpo si contorceva tra le sue grinfie, capii la sublime verità: non ero più spettatore, ma preda, e questa era la più dolce delle condanne.La stanza si riempì del nostro duello silenzioso, un dialogo fatto di morsi soffocati, unghie che scavavano solchi di passione, e il ritmo primitivo di due corpi che cercavano non la liberazione, ma l'eterno incantesimo del desiderio insaziabile. E quando finalmente urlammo i nostri nomi, fu con la disperazione di chi sa che nessun fuoco potrà mai essere abbastanza per consumarci.
In quell’istante, dentro di lei, capii che nulla sarebbe stato più lo stesso. Il nostro gioco aveva aperto una porta che non si sarebbe mai richiusa.
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