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010 ANCORA SU MIA MADRE


di CUMCONTROL
08.12.2019    |    5.946    |    4 6.4
"Decisi di rispondergli senza mentire..."
“L’afide ha necessità della sua formica
che la sollevi dalla goccia addominale..”

In istituto dove mi sono formato tra le montagne svizzere, c’era una cappella solitaria al primo piano dell’intero complesso che aveva ampie vetrate policrome sul parco.
L’acqua scrosciava e in quella cappella non ci veniva mai nessuno.

Nella solitudine di quel luogo io mi ci appartavo, e divenivo sostanza carnosa convoluta a conca in un dialogo superiore.
Pregavo molto io. Pregavo perché da bestia concessa al sacrificio degli altari, potessi diventare creatura finalmente amata un giorno.
Ero tornata in quel luogo ad essere l’ asina blasfema, condiscesa alle sediziose brame dei prelati, ma in cuor mio speravo nell’eterno amore.
Ero già creatura dissoluta e quasi me ne compiacevo. D’altronde, nelle creature più elevate signoreggiano le matematiche perfette della natura. La natura è bella, ma se osservata da vicino lei svela una crudeltà feroce da cui noi, esseri umani, non ne siamo affatto esenti.

Ed io così…Standomene seduto nelle mie ricercate solitudini in quella cappella, io mi sublimavo al lacrimare delle vetrate contro la pioggia. Io sapevo ardere di luce calda e flebile, e sapevo radiarmi nella calcina montuosa del meriggio oltre i vetri cattedrale. Io ardevo, come astro siderale ardevo, come tremule candele sugli altari consacrati.
O se era bello lo sferzare del vento sulle ombre infelici dei salici e degli abeti là fuori. All’incenso si stringeva il sentore di borraccina venuto dai boschi fin sotto le mie narici, e stando seduto nelle palpitazioni dell’ano, io pregavo.

Era bello.
Era la cosa più bella in tutto l’istituto. Era tre volte confitto nella sua croce di farnia, e la sua pelle pareva così viva che essudava la paura della morte, tanto era perfetta quell’effige di uomo venuto a salvarci.
E i lividi poi, quelle sue ferite ribollenti di un siero giallastro secrete dalla carne in risposta al tumulto del supplizio. Quel siero giallastro, lucido, gridava alla vita.. ma come aveva fatto il pittore a istoriare quella materia con così meticolosa verità carnale …
Quelle ferite erano per me il covolo di carne ove nascondersi e meditare la sorte ignara. Sorte sanguigna, che presaga mi indiziava già di un mutamento incipiente.
Poi mi alzavo, mi dicevo che andava tutto bene, e abbracciavo i piedi della croce, e baciavo i malleoli ancora forti e offesi dai canapi ritorti.
Quella croce era l’abbraccio più magnifico, e più il mio sguardo scivolava su quella carne ancora viva, più io dilavavo le sue e le mie afflizioni.
Lo amavo.. di un amore votato, e nell’ urgenza di essere amato mi disponevo già ad arrendere le mie carni al morso delle bestie.

D’altronde che senso più poteva avere la mia vita. In quel collegio di rieducazione avevo trovato l’amore che mi aveva tolto dai gironi orgiastici di quell'inferno. Era stato l’uomo più dolce e virile l’oggetto mio amato, e se pur mio padre mi aveva iniziato al piacere del sesso, quest’uomo campì il prodigio di unirlo all’amore.
Ma dalla sorte avevo preteso tanto.
Mi ero illuso che quell’amore sarebbe stato eterno. Il mio amore era il mio professore, e si chiama Goran, che nella sua lingua vuole dire “uomo della montagna”.
Mi sottrasse alle orge del refettorio che egli non amava. Mi depose come un fiore sul proprio letto e per mesi ci amammo.
No. Al direttore questo non poteva andar bene. Noi allievi dovevamo essere di tutti, e se pur la regola ammetteva delle temporanee eccezioni per il sollazzo privato con qualcuno dei docenti, noi cagne, così ci chiamavano, dovevano essere reintrodotte in canile al più presto e resi disponibili alla malagrazia di tutti i docenti.
Per questo motivo il nostro amore fu per qualche tempo clandestino. Goran riuscì a coprirmi, a sottrarmi dal nugolo di depravati sedicenti preti, e mi offrì il proprio talamo per concedermi a lui come femmina.
Si, femmina. E non mi vergogno a dirlo, perché l’amore per lui fece di me virile ampolla del suo seme. Mi abbarbicavo a lui nelle notti d’amplesso e incassavo i pesanti colpi dei suoi reni. Ed egli era tutto per me, era nervo in carne viva. Avvolte scoppiavo in singhiozzi per il mio stesso traboccar d’amore ed egli mi abbracciava, mi premeva il viso al suo petto, e spingeva senza mai fermarsi chiamandomi Amore.
Ero femmina. Ero femmina e pregna nelle ore fitte di lezione. Di giorno non potevamo certo concederci effusioni. Nulla e nessuno doveva sapere di noi. Era di notte che la passione deflagrava e con noi si accendeva il lampo primordiale della prima luce del mondo.
Ti amo mi disse. Me lo disse tra i teli sudati di lino bianco in una notte di pioggia.
Teli di lino. Sudari d’ amore.

Ma i sudari non sono lenzuoli.
Ma i sudari velano i corpi inanimati delle salme.
Forse fui io stesso ad uccidere quell’amore.

Giunse da noi in istituto un insegnante di nuoto verso il quale da subito provai una irresistibile attrazione sessuale. Era un uomo dalla complessione taurina e nonostante il mio Goran fosse di buon attrezzo, lo era parimenti anche questo mio nuovo insegnante. Ciò che mi attraeva in lui era la sua corporatura robusta, così grave nel suo muoversi terrestre, così veloce sotto l’acqua. Esercitava su di me un’attrazione fatale quello sguardo torvo che hanno gli uomini che hanno visto la guerra. Io cercai di lottare contro quella mia strana attrazione ma a quel tempo non avevo i mezzi per farlo. Ero poco più che un ragazzino, amavo il mio Goran e per nulla al mondo avrei commesso adulterio.
Ma evidentemente ciò non bastava. La mia timidezza esercitava all’ istruttore delle ambizioni dionisiache. Sapeva della tresca che intrattenevo col mio Goran e sapeva che fino a quando fossi stato un suo protetto, non avrebbe potuto avvicinarmi.
Era questa mia condizione di oggetto dei desideri più impuri che mi portò nei cunicoli sotterranei di una seduzione discreta quanto irreale. Era l’orco, nei miei sogni più inquieti quella bestia affiorava dal limo della mia coscienza per rubarmi ai mortali e affondarmi negli con sé negli abissi di fango ove corrompermi dal di dentro col suo gigantesco fallo.
Le nostre frequenze radio erano schizzavano all’unisono quando ero alla sua lezione.
Un giorno mi disse… “Ti libererò scrofa”.
Trovò di fatto il modo per liberare la scrofa, e insegnarle che la dimora innata non era un’alcova tra lenzuola di lino, ma un porcile di fango cui rivoltarsi felice nello sterco dei consimili.

Riferì senza troppi scrupoli al mio direttore della relazione clandestina che intrattenevo col mio Goran ed il gioco fu fatto.
In poche settimane non rividi più il mio uomo. Fu trasferito in Baviera ed io rimasi solo, senza più protezione in quello scellerato istituto.
Come gli altri tornai a cenare in refettorio, come gli altri dovetti piegarmi alle orge. Come gli altri la mia bocca passava di culo in culo a leccar deretani di giovani o vecchi professori. Ricordo che piangevo nel fare tutto questo e ricordo l’odore rancido della mia bocca al ritorno in camera, con il salso acre nella gola e un bisogno disperato del mio Goran.
Sulle prime all’Orco pareva che non importassi più. Si limitava a ridere di pancia quando mi toccava in sorte il gioco tremendo della bottiglia.
Come il mio Goran, anche l’Orco preferiva alle orge il buon ritiro della sua cella accompagnandosi con uno di noi, e ricordo che per i primi giorni preferì ritirarsi con ben due ragazzi appena giunti in collegio, uno di 22 l’altro di 23 che ricordo perse la parola 6 giorni per il trauma.
Poi una sera, proprio nel mezzo della baraonda sessuale in refettorio, proprio mentre io in affanno leccavo il viscido solco anale del professore di matematica, egli si avvicinò a quest’Ultimo. Ricordo che all’orecchio e gli disse qualcosa.
Allora il professore annuì, si sollevò dal tavolo su cui giaceva prono, calò la toga e scese, non mi degnò del benché minimo sguardo e raggiunse due ragazzi che se ne stavano chini tra le cosce del direttore a succhiargli i genitali. Acciuffò uno di essi e lo trascinò nei pressi della finestra, quindi si piegò nuovamente reggendosi sulle ginocchia ed il ragazzo evidentemente già istruito sul da farsi riprese il lavoro dal punto esatto cui ero stato sospeso dal mio compito.
Per quanto mi riguarda l’orco mi afferrò per un polso ed uscimmo da tutto quel mestare di corpi per appartarci nel silenzio della sua cella.
Ricordo che in quella stanza v’era un afrore di sudore misto a paura, come quell’odore di cui sono pregne le anticamere della morte dei grandi mattatoi industriali.
Mi pose le sue grosse mani sulle spalle, spinse in basso e ricaddi in ginocchio. Attesi perché levasse via il proprio abito intriso di opalini sborri e ricordo che il cuore mi si spaccava per il forte battito.
Vidi la cappella sanguigna giganteggiarmi davanti, dischiusi le labbra che mi si irrorarono di sangue. Volli estrarre la lingua sicuro che tanta rispetto mi avrebbe risparmiato dai giochi perversi dell’uomo di cui si vociferava in istituto. Chiusi gli occhi ed attesi. Nel buio del mio sipario attesi la grande carne ma ciò che mi sconfisse fu un robusto getto d’urina a centrarmi la gola.
Colmatami la bocca fino al fibrillare delle bollicine egli mi vietò di macchiare i miei abiti o peggio ancora il pavimento.
E siccome la sua robusta minzione parve non avere più fine, dovetti come è logico ingoiare il salmastro paglierino. E così ingoiata dopo ingoiata la vescica della bestia andava vuotandosi a danno del mio stomaco colmo.
Ero afide bisognosa d’essere allevata dal gigantesco insetto, ed io piegai la mia sorte venerando un nuovo dio, già che vacca mi sentii in quel mio primo atto e da quel ruolo non ebbi più di cui pentirmene.
E come se tutta quella urina avesse brutalmente dilavato dal mio cuore le nostalgie del mio Goran. So che queste cose non sono da dirsi, ma è per mia promessa di verità che oso violare ogni reticenza della mia morale. Cercavo un appiglio che mi levasse davvero via ogni sofferenza e così idolatrai la bestia.
Completata la minzione, l’Orco allora mi depose con fare gentile sul letto, ed io lo fissavo mente dall’angolo della mia bocca sgorgava la rugiada di recente pisciata. Mi sorprese molto questo suo gesto poiché costui non era affatto noto per la gentilezza delle proprie azioni verso i ragazzi con cui s’intratteneva.
Fu così che salì sul letto e signoreggiò grandioso sul mio corpo arreso che io osai convolare i palmi sui polpacci di granito. Egli poi scrollò la grande minchia ancora in stallo e si voltò esibendo dal basso le grandi masse delle natiche.
Piegò poi verso il basso e s’accasciò sul mio volto quasi che mi parve un vero gorilla con quella sua nuca primitiva, le spalle e il dorso possenti, ammantati di una fitta peluria già madida.
Non disse nulla ed io mi prodigai a compiere ciò per cui mi sentii generato. Leccai avidamente e dimenticai i dolori di un amore trascorso. Mi concentrai amabilmente alla viscida fessura che sentii essudare in un distillato acre e animale.
Dopo almeno un ora trascorsa negli abissi del suo ano in cui il grande gorilla gemeva in versi primordiali, s’alzava di scatto, ed aspettandomi la minchia favorita io già spalancavo la bocca sanguigna mostrandogli la lingua.
Ma lui balzava dal letto, si portava nell’attiguo bagno e lo vedevo di profilo sedersi sulla tazza per scaricare i turpi esiti della mia devota azione.
Era tremendo. Lui pretendeva che lo guardassi, e se ne aveva voglia, nettato grossolanamente il culo, tornava da me, lasciandosi che lo sbocciassi nelle forme più ignobili.
Aveva questa singolarità questo mio istruttore di nuoto. Voleva che lo ammirassi nell’arte del defecare.
Capitava questo non solo nelle ore serali ma anche nel primo mattino quando spalancava la porta della mia cella e mi afferrava i polsi. Mi conduceva nella sua stanza ed io dovevo semplicemente udire dall’uscio i tonfi pesanti delle cariche sostanze espulse.
Ancora oggi m’è rimasta questa perversione oculare, inoculatami nei trascorsi con quell’uomo in istituto. Ancora oggi se mi capita di guardare uomini forti chini a cacare, provo un piacere che non so enunciare perché possa essere pienamente compreso da chi vorrebbe meglio intendere.
Non si tratta di un piacere di tipo eminentemente sessuale, ho ribrezzo alla sola vista delle masse odorose e la stessa avversione olfattiva mi informa di non essere affetto da quella patologia dilagante che ha preso posto con largo consenso nei siti di pornografia.
Di contro però, è la vista dell’uomo possente accosciato su se stesso nell’atto di cacare che eccita il mio cuore nella stessa misura con cui eccita le primigenie regioni del mio cervello.

Ma la mia vita non aveva stabilità. Io avevo necessità di essere amato e lui – l’istruttore di nuoto – si accorse della mia particolare mansuetudine nel rendergli servizio e così mi dispensò dalle pratiche blasfeme con cui toglieva la parola ai suoi giocattoli. Anzi, prese a prestarmi qualche attenzione in più che non fosse solo accomodarsi sul mio volto o pisciarmi nella gola.
Io mi sentii nuovamente felice di essere “esclusivo” per qualcuno ed egli una sera m’interrogò dopo la sborra sulle ragioni sottese alla mia ilarità di spirito.
Decisi di rispondergli senza mentire. Gli dissi che sarei stato disposto ad amarlo se solo me lo avesse consentito. Gli sarei stato vicino tutta la vita, che non avrei avuto altro dio all’infuori di lui, che avrei fatto del mio ventre il reliquiario segreto della sua sborra.
Egli mi ascoltò fino in fondo e poi quando ebbi finito s’alzò dal letto, accostò al lavello, e sversò piscio nel lavandino. Poi mi disse che ne avrebbe parlato col direttore.
Io rimasi stupito. Che cosa c’entrava il direttore..
Invece c’entrava.
Da quel giorno il gorilla non mi cercò più, ed il direttore non solo fece di me l’oggetto del ludibrio più spietato nelle orge del refettorio, ma meditando su questa mia propensione al sentimento ritenne che rappresentassi un elemento di turbativa sull’”armonia” dell’istituto. M’ero innamorato di padre Goran, ora dell’orco e poi ? Questo era troppo. Non potevo corrompere nessuno dei docenti con queste mie smancerie. Ero al servizio di tutti e come tale dovevo restare.
Ero “metastasi” nel sano organismo della scuola. E sul mio conto dovettero prendersi provvedimenti più seri.
Fu informata mia madre, e fu inoltrata avviata la procedura di espulsione.
Nel mentre fui dispensato non solo dalle ore della scuola, ma persino da tutte le attività ginniche, nuoto compreso naturalmente.
Fu tremendo per me sopportare le lunghe ore in solitudine nelle grandi ale deserte di quell’istituto. Per questo motivo cercavo conforto andandomene in cappella a pregare o ad impegnare la mia testa organizzandomi per lustrare pavimenti, effigi, e vetri cattedrale.
Forse la mia buona volontà avrebbe addolcito il cuore del mio direttore.


Ma poi venne il grande terribile giorno.
Ed ecco cosa accadde.

Erano credo passate da poco le nove del mattino e le lezioni erano incominciate. C’era per i corridoi e le gallerie del monastero il placido silenzio delle ore di scuola.
Avevo issato un’alta scala a pioli sulla parete nord della "Galleria Aulica" perché mi ero proposto di raggiungere il fregio e lustrare i busti di papi, di re, uomini illustri e benefattori del nostro istituto.
Si che da lassù avevo una visuale completa di tutta la magnificenza di quella galleria monumentale fatta di marmi, affreschi ed effigi e su cui affacciavano gli uffici, l'aula magna, la biblioteca e lo studio del direttore.
D'un tratto udii un ticchettio echeggiare, e mi voltai guardando in basso scorgendo la figura lieve e ancheggiante di mia madre dirigersi dritta dritta verso la porta del direttore.
Indossava un tailleur color cremisi e un ampio cappello verde pisello con scarpe di vernice dello stesso colore così come pure la borsa.
Quella figura così asciutta si senti al sicuro nella solennità di quella galleria solitaria, tanto da menar di scorreggia per poi bussare alla porta del direttore. Si infilò senza attendere il permesso. Mi precipitai dalla scala e accostai l'orecchio alla porta.
- Buongiorno direttore. Ma che bell’ufficetto che abbiamo, cos'è questo dipinto, la strega cattiva dei sette nani?
- E' mia madre
- Oh, ma tu guarda... avrà preso tutto da suo papà allora, non è così?
- Allora, madame, com'è andato il suo viaggio fin qua' su?
- Lasciamo stare, undici ore in macchina con alla guida un marito irritato. Sa, cosa vuole, gli secca questa storia di un figlio così. Non fa che ripetermi che meglio se fosse nato morto.
- Come..
- A guardi, fin che se lo chiavava per carità andava tutto liscio, ma sa come sono gli uomini. Usano e gettano.
- Capisco.
- Non ha idea del culo che mi son fatta a trovargli un giovinetto con cui sostituire il buco di mia figlia.
- Suo figlio madame
- Guardi, è un albino, figlio di una domestica che c’ha chiesto di aver cura di lui sul letto di morte. Era già grandicello ... Adoro far beneficienza. Lo stiamo crescendo come un “figlio” reverendo padre. Come un figlio. .
- Sono felice per lui.
- Non per dire ma quel ragazzo ci sa fare, e per mia fortuna mi dispensa dai doveri coniugali ai quali non mi ci sento proprio portata. Certo, una volta ogni tanto con mio marito capisce… ma non amo trombare, mi da noia. Io sono una donna che ama ancora la signorilità, il senso cavalleristico dell'amore coniugale.
- Cavalleristico?
- Si. E’ una tortura direttore. Io credo che il mio Karma sia un altro.
- Ossia?
- Come ossia. Ma realizzare me stessa, no? Darmi alla poesia ad esempio, alla pittura e al teatro, nonché amministrare con cura le forniture belliche di mio marito. Ma cosa le posso dire, mi piace. Mi da agio di realizzarmi come donna a 360 gradi. La vendita del Napalm in Cambogia va che è uno schianto.
- Mi fa piacere, la vedo più distesa infatti
- O, ma cosa sarei potuta diventare io senza quell’orfanello. Sono felicissima, mio marito anche, e il ragazzo è una autentica puttanella. Ma cosa vuole, i pensieri in famiglia ci sono sempre..
- Non li chiami pensieri, sono doveri della responsabilità
- Mio marito…. è fondamentalmente un depresso. Di tanto in tanto gli vien su la paranoia di essere omosessuale. Io sa gli do un po' di fregna ogni tanto …. lei non ha idea di cosa mi combini con la tosatrice in giardino. L’altro giorno mi ha piallato le ortensie del bengala ma lo capisce che disastro??? Io faccio del mio meglio, lo rassicuro, gli dico che fin che scopa culi non potrà mai dirsi omosessuale.
- Crede?
- Pare che la cosa lo conforti alquanto, infatti mi dice che detesta il cazzo. E mecojoni vorrei ben dire! Al mio maritone la vista del genitale lo manda in fissazione.
- Una cosa molto singolare.
- Padre mi guardi negl’occhi, io sono una martire. Tre mesi c'ho messo per convincere il ragazzetto a farsi castrare ma poi s’è deciso. E cosi mio marito si è ripreso il giocattolo nel suo lettino lasciando in pace la mia vagina spaurita.
- Santa pace.
- Sapeste, gli è tornato il sorriso, la pazza gioia, e col tipino senza più palle par che gli sborri nel culo con ritrovato entusiasmo. Alla faccia dei ricchioni.
- La prego di moderare le sue parole contessa
- Pardon. Il ragazzo non ha mica sofferto troppo sa. Cosa vuole che le dica, due inutili testicoli non varranno l'ingente patrimonio che gli abbiamo promesso come testamento. Mica scemo, non trova? EssSticcaazzi.
- Dio mio.
- E siccome diciamo sono una donna che ha un flipper nel cervelletto diciamo - e lei sa quanto le donne ne sappiano una più del diavolo - alla fine ho convinto il ragazzo a tagliarsi pure il cazzo!
- Cosa?
- L’ho spedito a Londra
- O mio dio, ma avrà un genitale femminile allora?!
- Direttore sta scherzando? Di fica in famiglia ci sta solo la mia. No, il ragazzo tornerà liscio come il culetto di un bebè, senza niente, e solo un buchino piccolo piccolo che gli servirà per pisciare! Ma ci vorranno ancora giorni e direttore mi creda, scopare con mio marito tutti i giorni mi debilita. Ora è in albergo e cosa crede che farà al mio rientro??.. Da quando l’albino è a Londra io non ho più pace.. Guardi direttore, guardi sono tutta infiammata.
- Ma cosa faaaa
- Uff.. Direttore lei ha ragione, ho i nervi a pezzi. Ha un clinex per favore? non mi piace farmi vedere in lacrime e mi cala tutto guardi che cera che c’ho, no dico, guardi!
- Certo.
- Grazie. Gentil. .. Scusi.. Sigh.. Scusi tanto.. Cazz c’ho questo coso al piede che..
- Cosa
- Vede? Scusi se metto il piede sulla sua scrivania ma è per farle guardare bene. Ma lei sa come si levano via gli occhi di pernice da sotto all’alluce? Porcodd...
- La prego non bestemmi contessa! Le ricordo che qui siamo in instituito religioso
- Uè bella, calmino eh… Ma d’altronde cosa mai le importerà dei calli al piede di una signora, non è così? Veniamo al Quid. Sono venuta qui perché la sua telefonata non m’è piaciuta affatto. Espellere il ragazzo per avere un cuore gentile, ma le pare possibile?
- Il ragazzo è un elemento di turbativa nell’armonia dell’istituto. Queste cose qui dentro non sono mai accadute.
- Ah si? E da quando negli istituti i precettori lo buttano in culo agli allievi?! E guardi che non mi fa mica fessa con questa storia che in Grecia tutti inculavano tutti!. Siete dei pederasti. Mio figlio non torna a casa. Quello è capace di turbare la mia di famiglia e voi caro direttore siete pagati per evitarci questo.
- Contessa… noi … noi non possiamo tenerlo. Spiacente.
- Spiacente?! … Spiacente???… Direttore, se quello un giorno sarà libero scorrazzare racconterà al mondo di un padre invertito e di un istituto di correzione dove docenti senza titolo buttano cazzi a go go nel culo di tutti. Vuole lo scandalo?
- Contessa cerchi di capire
- Capire un corno. Cosa crede che farò io, eh? Io non ce lo voglio. Punto. Lei insite? Vedrà il Vaticano, oh si si, vedrà che bella storia da prima pagina verrà fuori.
- Noi non dipendiamo dal Vaticano. Contessa ascolti..
- No direttore ascolti me. Faccia qualcosa o finirà a raccogliere saponette a Regina Coeli!
- Contessa..
- Ancora co’ sta contessa...Ohhhh hai rotto il cazzo. Faccia qualcosa, qualunque cosa, io non rivoglio mio figlio a casa mia, ha capito?
- Io non so come disfarmene.
- Ma bella va’, non sa come disfarsene. Ma chi t’ha fatto direttore eh, topolino?
- E cosa potrei fare!
- Fatelo fuori piuttosto.
- Cosa?
- Ohi andiamo, d’altronde di incidenti nei collegi ne sono piene le cronache. Si farà due settimane di gendarmi in istituto e poi la cosa verrà archiviata come incidente.



Balzai in piedi e fui pervaso da un brivido freddo di terrore.
In quell’istante dal fondo del grande corridoio echeggiò la il portone spalancarsi. Corsi a nascondermi nel vicino ripostiglio delle scope. Era l’orco che avanzava a passo deciso con al seguito un allievo che recava sulle braccia importanti ferite da percosse. Il ragazzo aveva gli occhi lucidi ed il viso distorto dal dolore.
Poi, davanti alla porta del direttore disse al ragazzo di sciacquarsi la bocca e ritornare in aula. Lo congedò, ed entrò.
Corsi nuovamente dietro alla porta. Sentii discutere animatamente da non udire con esattezza poiché mia madre non faceva che interrompere gli interlocutori con sta storia dell’occhio di pernice all’alluce del piede.
Ma una cosa udii nitidamente.. l’Orco pronunciò con voce ferma queste parole:

“Ce l’ho io la soluzione,
….. e sarà quella finale”…




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.


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