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018 CHE STRANO UOMO AVEVO IO


di CUMCONTROL
20.12.2020    |    5.643    |    6 6.1
"Ricordo che avevo il cuore raggelato..."
Se giaci con un uomo russo, di quelli tosti, senza un pelo sul petto, certo, sono d’accordo, forse non è quel che noi sogniamo, ma se quell’uomo indossa nel sonno una maglietta bianca, pulita, profumata, tu che fai?
E se le sue cosce tornite tendono una mutanda bianca, e scorgi nel buio della luna la prominenza di un randello che ti promette un avvenire, non avresti il fiato sospeso?

E poniamo ancora il caso… se quell’uomo dorme e pur nel sonno egli allunga un braccio, e ti solleva il capo con dolcezza per adagiarti con cura sul proprio petto, di notte, in albergo, ove solo la luce della luna osa trapassare le tende immacolate, allora tu puoi credere finalmente che i sogni nella vita si possano realizzare?

Sui nostri corpi, di notte si adagiava il mantello dell’ordine celeste, e nulla poteva profanare quel silenzio.

Ma non mi attarderò nel rendere pubblico un piccolo tormento interiore che prese ad assalirmi molto presto.
Era già il quarto giorno della nostra conoscenza, e tra noi tutto filava liscio, ma non mi spiegavo perché il mio uomo si astenesse dal far sesso, per quanto egli fosse del tutto chiaramente perduto di me.
Ero forse troppo puro ai suoi occhi?
Io lo desideravo ed anche Koba, così si chiamava, mi desiderava.
Teneva a conservarmi come cosa pura?
O forse attendeva la mia proposta come attoreo seduttore nel gioco delle parti?
Occorreva indagare, e non attesi molto.

Tutte le sere andavamo a cena sulle alture poco fuori Trieste, città teatro del nostro sentimento, e fu lì che tentai la scalata:

- Amore senti, ti spiace se ti chiamo così?
- Come
- Amore, no?
- Fa come cazzo di pare

Ehm.
Di primo acchito una risposta del genere avrebbe potuto dissuadere chiunque disposto a fabbricare una piena armonia di coppia, ma ciò che il mio erudito lettore dovrebbe tenere sempre presente è che Koba era russo.
La sua cultura poteva ben dirsi estranea ai sentimentalismi di Shakespeare o troppo discosta dagli echi del Rinascimento.
Di contro, per lui, erano famigliari aspetti più pratici della sua cultura, quali gli impalamenti di massa di un Dracula della situazione, o i bagni nel sangue di servette a servizio Elizabeth Bathory, o ancora le affascinanti cronache dalle carceri cambogiane di Pol Pot.
Occorreva conformarsi ad una dialettica levantina per poter promuovere una franca comunicazione col proprio uomo.
Era del tutto legittimo dunque che rispondesse al quesito con un brutalizzante “Fa come cazzo di pare”.
Ad ogni modo seguitai:

- Amore dimmi, ma io ti piaccio?
- Perché queste domande, mangia, merda, che si fredda.

Be’, anche qui, l’attributo “merda” va traslitterato in una semantica di matrice slava. L’etimo è chiaramente teso a superare i convenevoli tipici tra primi fidanzatini ed instaurare di contro una confidenzialità subitanea, non menzognera dunque, avulsa dall’ipocrisia della forma occidentale e di conseguenza potremmo assurgere l’espressione come momento di franchezza che anzi, sottolinea un incoraggiante proposito di verità, di onestà e di confidenza già coniugale.
Mazza che pappone.

Bisognava superare i convenevoli e lanciare subito la mia OPA.

- Amore ,.. ehm, tra noi due c’è qualcosa di speciale e questo non possiamo negarlo, certo, io sono qui per rispondere ad ogni tipo di domanda perché capisco il tuo imbarazzo cosa credi? Ti chiederai cos’hai tu di così speciale da aver suscitato il mio interesse a tal punto da sceglierti io come compagno di vita? Si, Koba, sceglierti. Perché è questo il punto. Sai, ero così distratto da tanti uomini, eppure non so, quando ti ho visto e tu quando mi hai visto naturalmente, insomma io trovo che la intesa tra noi sia scattata da subito e la consonanza, la sintonia, la compl’...
- Vuoi stare zitto PorcoDDD???
- O_O

Iiiiindignata come nessuna tacqui.
E che potevo fare?
Forse, discreto com’era, non gli garbava affatto che parlassi così, apertamente, e per giunta in un luogo pubblico. Come non capirlo.
Così rimandai la conversazione in seguito, magari nell’intimità ovattata della nostra camera d’albergo.
E così lo lasciai parlare delle sue vicende afgane, argomento a lui molto caro.

Il mio uomo era uno tosto. Un ex combattente della guerra in Afghanistan, uno stupratore di massa, uno con una lunga carriera nella tratta degli esseri umani.
Mi raccontò dell’esercito, della polvere, dei villaggi incendiati, del gran da fare con cui lui e i suoi commilitoni stupravano i prigionieri incuranti del loro strazio.
Disse, che non vi fosse uomo nella valle del Panjshir che non fosse passato per le armi o per la minchia dei suoi commilitoni.
Poi mi raccontò di quelle povere donne, e degli anziani beati loro, stuprati senza riserbo, e tuttavia tutto evocava una nobiltà intrinseca nella brutalità sovietica perchè i poveri orfanelli non venivano toccati.
Eroi.
Questi sono eroi. Il rispetto per la vita prima di tutto.
Fu questo aspetto che mi fece sbrodolar di culo.
Lui, il mio Eroe, amava certamente rompere culi. Era uno svangapassere d’eccezione. Era uno che amava sentire il proprio poderoso Ottobre Rosso spappolare le cicce altrui.

Quando uscimmo dal locale per dirigerci alla macchina, io mi sentii prolassare dal mio stesso rapimento direi, e m’attendevo a mia personale delizia, che lui mi riservasse da lì a poco una prigionia deliziosa, fatta di impalamenti subitanei e tante, tante bastonate di cazzo da perdere il senno.

Nulla di tutto questo accadde mio malgrado.
Durante il rientro in albergo egli non proferì parola, e neanche io per la verità, tenendo a bada la mia ammorbante verbosità che forse un po’ lo indisponeva.
Tuttavia quel silenzio mi offrì l’occasione di una personale riflessione, e cioè che in fondo sbagliavo io a propormi coi miei soliti schemi di un comportamento che ripetevo abitualmente nel meditare l’approccio coniugale.
Ma la verità e che lo volevo in culo. Sempre. Ma mostrarmi troia a lui non piaceva.

Bastava tacere per comperare il suo affetto e ingabbiare la suina dentro di me, e non darle spazio.
La purezza, se mai ne avessi avuta una, sarebbe emersa da sola come gnocco già cotto.
Chiusi la suina nelle segrete della mia anima.
D’altronde, egli di me stava vedendo proprio questo, la mia purezza intendo dire, e sarebbe stato un fatale errore “politico” mostrare la sfrenatezza sessuale di una scrofa, se avessi avuto a cuore il suo amore per me.
Ci voleva tattica.
Presi subito a farmi più taciturno, a mostrarmi più con le spalle scese, ad ingobbire la schiena a mostrarmi puro, indifeso, e dunque degno di godere dei suoi abbracci.

Infatti, cogitai giusto.
Quella sera stessa, nella nostra camera d’albergo, feci la mia prima pompa al mio fidanzato.
Era fatta.
Lui stava sbracato sul sofà, con la tv accesa a guardare la partita Juve Sampdoria, ed io mi cimentai con grazia e abnegazione, che neppure a mio padre resi un così tanto sentito servizio.
Forse le sue vicende afgane avevano suscitato in me una sorta di epica, ed io mi sentii, scusate il paragone così poco calzante, mi sentii come povera donna del campo costretta a rende un bocchino all’assassino del proprio marito, e che scopre nel farlo di esser tanto mai maiala.
Io pompavo e lui non diceva nulla, ma era troppo impegnato a guardare i supplementari di rigore, ed io stavo chino così, a ginocchia richiuse, col culetto sui talloni, a raccogliere saliva dalle palle traboccanti dalla patta.

E’ opportuno segnalare al mio erudito lettore, che all’approssimarsi del suo orgasmo - che percepii come imminente dal respiro - egli si protese in avanti così da afferrarmi il capo a pie mani, e sbattermi a melone contro le proprie cosce, e quando fu l’attimo di schizzare, tra noi insorse una piccola baruffa, poiché io desideravo ingoiarne la faticata secrezione testicolare, ma Koba me lo impedì, forse per tutelarmi in un atto da lui ritenuto impuro.

Così lo sperma finì sulla la moquette, ma la fortuna mi favorì poiché la terza balistica del getto intercettò la ciocca della mia fronte, che appesantita dallo sperma, mi ricadde pietosamente sul visino.
Fu in quel momento dopo il sospiro profondo esalato per rilassar le membra, Koba si voltò su di me, e con le dita mi ripulì con cura con gestualità gentile.
Come fu dolce quel momento, e come è dolce quella reminiscenza nonostante tutto questo tempo trascorso.
Poi… Poi mi prese per le guance e reclinò appena il mio viso ebbro d’amore.
L’ultima immagine di lui fu questa nel ricordo di quella sera: fu il suo viso avvicinarsi al mio, ed io, per istinto, chiusi gli occhi, per lasciarmi ...
… per lasciarmi baciare.

Fui la prima volta in vita mia che ricevetti un bacio.

Quella stessa notte fui penetrato….
Io lo fissavo agli occhi, l’unico bagliore lunare che intravidi fu riflesso nei suoi occhi. Stavo disteso. Affondò con tatto ed ebbe cura di farmi sentire ogni centimetro di quell’ingresso, tanto che io vibrai che le cosce arrese mi tremarono tutte e quasi provai il pianto tanto quell’esperienza mi fu lieta.
Mosse dentro di me con una lentezza a me sconosciuta.
Da sempre gli uomini mi avevano chiavato con forza e mai in vita mia avevo provato ciò che stavo vivendo. L’affondo del suo membro nelle umide mie polpe, il vorticare della lingua con la sua, le sue stesse mani su di me, erano per me cosa nuova.
Seguitammo in quell’innesto per ore e solo quando mi sentì pronto mi spaccò con audacia.
Era detonante, era il fragore di tutte le acque, ed egli, abile ginnastica dalla rigida educazione siberiana, non cedeva mai allo sfinimento delle reni.

Ma la porca in me ruggiva.
La porca non muore. La porca la puoi rinchiudere nelle segrete dell’ anima. Ma la porca assassina abbatte il muro, risale vertiginosa e tu torni quel che sei: scrofa.
Mi misi a strillare. Mi strizzai nervosa le tettine. Supplicai di caricarmi a sangue, e intendevo quella notte darci così dentro da esplicitare il proposito di essere resa handicappata.
Proprio glie lo urlavo “Su una sedia a rotelle me devi mettere”.
Lui fotteva. Mi voltava.
Mi tenevo aggrappato alla schiena del letto e gridavo “Amore finiscimi cazzo, sparami in culo”.
Lui fotteva. Taceva e fotteva.

Mi staccai, sfrenata mi buttai a pesce sullo scrittoio, fottendomene altamente se questo si scardinò del tutto. Koba mi rincorse tenendosi la mazza e venne a riattapparmi il buco del culo a tradimento. Io strillavo, e giunsi persino di minacciarlo di morte se avesse allentato la chiavata poiché godevo a cacarella.
Affondava e mi stappava, e io me ne andavo di culo, eviscerata di fuori a stappalavandino.
Ma egli dovette sborrare per altre due volte. Non sopportava di vedermi così, eccitato come stava. Ero troppo bona per lui. Sborrò ancora, poi fu esausto ma mantenne la promessa di spaccarmi in due per quel che restava della notte furibonda, si. Mi impugnò la statuetta maori con sopra scritto “Forniture alberghiere Trieste” ala piantò dritto su per il culo.
Spolpata dal maori assistetti all’alba, piegata e fracassata, poi morii d’amore.
Corsi nel cesso a sedermi sul bidet.
Fu lì che scoppiai a piangere di una felicità disperata, fottendomene altamente se i vicini avessero udito troppo e per placarmi un pochettino mi strizzai le tettine.

Poi, sincera proprio, rotta in culo uscii dal cesso piegata e claudicante, e muovendomi a tentoni in quella cameretta ridotta ormai ad un quartierino bombardato, sorrisi mesta al mio Koba, che mi condusse nel nostro lettone dalle doghe tutte sfondate.
Lui crollò ed io di fianco. Piansi di gioia.
Mi appisolai beata, non prima però di aver constatato la tastiera disarcionata del letto, lo scrittoio spaccato, la specchiera sbriciolata, e vidi per terra il maori, decapitato di testa e che grazie a dio avevo sparato di culo nel bidet a trombata finita.
Il mio Koba già dormiva.
Tesorino mio.

….

Il giorno dopo mi levai frizzante come sposa felice nella sua bellissima luna di miele.
Amai Trieste.
Mi sedetti, mi strofinai gli occhietti, sparai una puzzettina, e stiracchiai felice le mie braccine.
Dio mio ma quanto stavo felice proprio.
Mi accorsi però di un dolore lacerante, intenso, un bruciore come posso dire… un dolore acuto ecco, che dalla bocca del culo mi si instradava fino al fondo del retto, e la cosa mi lasciò un attimino perplessa.
Mi sfiorai le natiche e fu lì che mi accorsi che in culo m’era scoppiato l’airbag.
Ero emorroide vagante.
La mia stellina mi aveva proprio scassata. Amore di stellina mia.
Dov’era però il mio tesorino?

Koba s’era già alzato di primo mattino ed era assente.

“Tesoriiiiinooooo, tesorino??? Tesorino ma dove sei finito”…Ripetetti soave e indolenzita.
Ma il mio tesorino non c’era.
Birbantaccio, mi ha sedotta e abbandonata?
Così, lentamente mi alzai. Sorrisi. Stavo piegato ma raggiunsi il cesso. Aprii l’acqua gelata del bidet e mi ci piegai lentamente restandoci sopra per una buon mezz’ora.
Avevo dimenticato di socchiudere la porta, quando d’un tratto, la porta della camera si aprì ed il mio amore poté vedermi in fondo al cesso in quella posa così troppo poco dignitosa.


Non sorrise, d’altronde i russi non sorridono mai, ma portava con sè dei pacchi ed un soverchiante mazzo di fiori, che mi pose sulla tavola del cesso, ed io non seppi non sbattere le ciglia dicendogli "grazie".
Lo avevo divertito quella notte, e i segnali erano ben chiari, poiché la mazza ferrata nei calzoni era ancora ben tesa.

Sì che mi alzai, entrai in camera facendo quello che annusa il mazzone di fiori, e mi accostai al tavolo che era proprio sfasciato.
Oltre il mazzo di fiori, per me il mio uomo aveva comperato ben altri due regali infiocchettati.
Quando scartai, io lo guadai con occhi colmi di lacrime.
Il primo dono fu un pannolone specialistico per incontinenza rettale. Nessuno mi aveva regalato un pannolone specialistico per incontinenza rettale.
Il secondo regalo fu una toccante ciambella gonfiabile da culo, rosa, direi ottima come cuscino per il viaggio per una emorroidata totale.
Comunque tutti prodotti di alta farmacia insomma.
Mi disse:

- Preparati, dobbiamo andar via subito
- Ma amore, io sono sfasciato, credo di non sentirmi bene, ma amore non dovevi disturb’..
- Ho detto sbrigati, e uscì dalla stanza

Mi parve un tantino furente, ma cosa vuoi i russi son così.
Ma io – rimasto solo - mi presi del tempo per annusare dalie, gigli, rododendri, rose, tulipani e giacinti e tutti gli altri fiori del mazzo.
Poi, presi ad accarezzare con tenerezza il pannolone per incontinenti rettali e quasi mi commossi nel circoscrivere col dito la mia affascinante ciambella da culo rosa per il viaggio.
Attorno a me osservai il disastro di una camera in soqquadro. Regnava la fine del mondo, con arredi scassati, schizzi di sborro sulla moquette, spurgo di culo e quant’altro.
Quella stanza d’albergo di Trieste fu il nostro nido per cinque giorni, e con sentimentalismo malinconico ora mi apprestavo ad abbandonare.
Già.

Ma via da qui la tristezza. Via, si deve vivere.
Mi prese il guizzo di effervescente felicità che mi soverchiò.
Lasciavo una camera d’albergo in condizioni disperate, ma non lasciavo lui. E forse, il viaggio continuava, diretti in Russia che già sentii come mia nuova Patria.
Presto mi sarei assimilato a quel mondo, sarei diventato anch’io un russo con il mio uomo sempre con me, avrei conosciuto la suocerina, e chi sa col tempo tra noi tutti in famiglia non avremmo di certo esitato a scorreggiare liberamente in casa senza imbarazzo, tanto la familiarità sarebbe diventata indissolubile.
Si, la Russia, mondo socialista di miseria ma tanto calore umano.
Cosa mi importava di star al di qua della cortina di ferro quando di là tra nevi e galaverna, mi si prometteva l’amore deliberato, una famiglia e corpi sotto coperte di lana per proteggerci dai lunghi inverni siberiani.
Sprizzavo di gioia. Odiavo l’Italia, troppo caldo.

Scesi con lo zainetto in spalla ed entrai a passo teso nella hall, raggiante con la ciambella sotto il braccio, e il mazzo in mano a salutare tutti. Ma proprio tutti.
Raggiunsi alcune cameriere:

- Grazie
- Ma si immagini
- No, grazie, grazie assai, veramente, siete state tutte davvero favolose
- Dovere signore
- Grazie, questo luogo mi resterà nel cuore e anche voi “amiche mie” sarete sempre nel mio cuore. Vi amo tanto, forse anche solo per la professionalità dimostrata. Si vede che siete asburgiche nella vostra signorilità!
- Io sono di Reggio Calabria e loro due sono di Catanzaro
- Mbè, sempre Trentino è.
- Mah, a dire il vero ….
- Va bene va bene, non dilunghiamoci troppo con differenze tra Friuli e Venezia Giulia, siette bellissmie ecco e grazie. Grazie assai.
- Va bene. Torna a casa?
- No vado in Russia
- Lei è russo?
- No. Sono di Roma, ma siccome a papà nu gli andava più di chiavarmi il buco del culo, sapete come sono volubili i padri, mi ha spedito in Svizzera, a Ginevra dove li – pensate – ho dato il culo a tutti per poi innamorarmi di chi? del mio professore. Ma non era amore, lui mi sfruttava per farsi leccare il culo perchè solo così andava di corpo. Così sono finito in un campo rom di Milano e anche lì ho creduto di aver trovato l’amore con un ragazzo che per carità di pisciare mi pisciava in culo, e anche bene, sapete in riva al fiume, romantico finchè stavamo soli, ma quando dovevo dare il culo anche ai suoi compagni di campo, bè era meno romantico. Ma vi assicuro che manco lì era amore. E no, mi dispiace, ma i rom sono tipi un po’ particolari. Poi ho conosciuto lui, lo vedete quanto è bello? Sta mettendo le valige in macchina. Pensate che al quinto giorno mi ha dimostrato l’amore vero. Mi ha baciato lo capite? Mi ha baciato. Ora andiamo insieme in Russia, ragazze non ci sto nella pelle. Ah l’amour, ma che cos’è l’amour….
- O_O
- Ragazze non desistiate mai dal cercarlo perché quando meno te lo aspetti l’amore è dietro l’angolo. Sono felice ragazze, felice.. e grazie, vi amo tutt’..

Biiiip Biiiiip

Che dè.

“Coglione ti muovi si o no”, urlò il mio Koba di là nel piazzale.

Io……
Io mascherai il mio sconcerto lì per lì, e voltandomi in ultimo alle cameriere dissi:
- Il mio uomo è impaziente. Non sa stare senza di me, ma cosa farò agli uomini…. allora io vado, eh, Grazie, grazie assai. Buon Lavoro Ragazze.
- Buon…

“Ecchiiiimeeeeee, uuuuuh”, e scesi dalla scalinata come una cessa e tacchettai fino alla macchina, chiusi la portiera, la macchina schizzò in retromarcia, ed io dapprima finii di muso contro il cruscotto, poi fui scaraventata all’indietro sempre un attimino a cessa diciamo, ma ripresami un pochino tirai fuori la manina in mezzo ai fiori e feci ciao con le dita alle mie amiche ragazze che se ne stavano interdette sotto il porticato.
Sffrecciammo, si, sfrecciammo via, al sole, e risalimmo il Carso.

Guardavo il mare lucente e Koba, il mio Uomo, il russo, mi passò i suoi occhiali da sole mentre io sulla ciambella ripetevo " orevuar' Trieste".
Ero finalmente felice di non fare più un cazzo nella mia vita e presto avrei conosciuto la suocerina, avrei abitato negli stessi spazi, un quartierino con bollitore ai fornelli, il samovar, il tè, coi fili elettrici appesi, con la stufa di ghisa, il calore di una casa spoglia, certamente, ma carica di umanità ragazzi, di umanità.

Mi voltai e osservai il profilo sicuro del mio grand'Uomo. Com'era serio, ma bello...
Poi scivolai lo sguardo dal bel volto al cazzo. Giurai per sempre il mio culo a Koba.

- Amore ma arriveremo in serata vero?
- No
- Ah meglio amore, è tutto così intimo. Amore grazie.
- Per cosa
- Per la chiavata. Senti amore lo so che tu non hai mai incontrato l’amore vero, ma non è un sogno, sono qui sempre per te. Ok? Se mi vedi distratta non soffrire, magari sono solo ditratta ma il mio amore è garantito. Anzi. Ora che tra noi c’è una certa intesa, se poi volessi farmi una scorreggia in faccia non farti problemi sai, magari accosti che ne so da qualche parte. Senti amore tu di solito le spari a trombone o le spari silenziose? Io amo quelle a trombone perché mi danno un senso di libertà non trovi?
- Stai giù
- Vuoi scorreggiarmi così in corsa? E se finiamo fuori strada?
- Stai giù
- Ma amore in macchina è scomodo, magari parcheggia dietro quei carri arm’… ma che strano amore, ci sono i carri armati. Uh gesù guarda quanti, ma mi pare un film
- Mettiti i fiori davanti al viso e nasconditi
- Ma perché?
- Hai rotto il cazzo. Stai giù faccia di merda

Ma checcazzo stava succedendo.

Rallentammo, e cordoni di filo spinato e blocchi di cemento armato ci affiancarono a restringerci la strada. La macchina procedeva a passo d’uomo, e iniziavano a comparire decine di uomini in divisa appostati in ogni dove. Ma che cazzo era.
Era la pre frontiera della cortina di ferro. Est e ovest, due placche telluriche della storia in collisione. La strada immetteva in uno stretto cuscino di terra sospeso dal tempo. Ebbi come un brivido e scivolai di poco sul sedile nascondendomi da dalie, gigli, rododendri, rose, tulipani e giacinti e tutti gli altri cazzi di fiori del mazzo.

Koba fermò la macchina.
Tremavo e mi scappava un coccodè, un tic nervoso ecco.
Koba abbassò il finestrino, e s’accostò un uomo in divisa, di qualche passo più avanti rispetto al nutrito gruppo di militari stagliati oltre la linea di frontiera.
Il militare chiese a Koba i nostri documenti. Fece tutto lui, estrasse dal cruscotto una consistente busta contenente quattrini e la porse al sergente. Un saluto militare e attraversammo lentamente il varco in quella atmosfera spettrale.
Ricordo che avevo il cuore raggelato. Sbucai dal mazzo, osservai i carri armati, il filo spinato e mi permisi di fare un cenno di salutino a tutti quei soldati, così, a manina regale agitando timidamente i ditini.

Abbassai gli occhi facendo finta di annusare i fiori perché le facce erano proprio brutte.
Sfilarono davanti al mio finestrino patte su patte di maschi in divisa ed è l’ultima mia immagine impressa della mia Italia di allora nell’atto fatale di quel trapasso.

Era il 1987.

Quel luogo sinistro rispose ad un solo nome.

Slovenia.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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