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STORIA DI UNA SIRENA 2 - Di bocca buona


di Syren
24.02.2022    |    8.927    |    24 9.7
"Voglio che sia felice come lo sono io, euforico come me, indicibilmente arrapato come me..."
PREMESSA FULMINEA: Finalmente compare una scena di sesso, alla fine. Il sentiero per raggiungerla è un po' impervio e lungo, ma abbiate pazienza. Buona lettura!

Tra i 13 ed i 14 anni ero una fabbrica di ormoni in piena attività. Fu il periodo in cui assistetti a maggiori cambiamenti fisici: una leggera peluria iniziò a ricoprire il mio viso, senza contare la crescita esponenziale di peli lisci più scuri nelle zone intime, sotto le ascelle e sul petto. Forti febbri mi colpivano saltuariamente e ne uscivo dopo pochi giorni con due centimetri in più guadagnati in altezza. Il nuoto e la danza stavano modellando il mio corpo allungando le mie ossa, tonificando i miei muscoli e rassodando i miei glutei (con una base di partenza già buona, grazie ad una generosa genetica). Scoprii di essere miope e fui costretto ad indossare gli occhiali (un altro dettaglio in più per sentirmi sbeffeggiato dagli altri).
Tutto questo doveva essere alimentato da grandi quantità di energia, aggiungendo delle scorte per il mio temperamento sempre più dinamico e iperattivo. Fossi stato realmente un edificio di produzione, avrei dovuto essere rifornito da batterie termonucleari.
Ma essendo solo un adolescente in fase di sviluppo, potevo accontentarmi del cibo. Titaniche quantità di cibo.
Ero sempre stato un bambino dall’appetito allegro, seguito a ruota dall’intera famiglia che aveva sempre apprezzato la buona cucina; ma all’epoca avevo iniziato a rasentare livelli di fame di una bestia mostruosa.
Mia madre Maura non era certo conosciuta per essere una famosa cuoca e non aveva mai apprezzato le faccende domestiche in generale. Vogliate per gusto personale, vogliate per ribellione nei confronti dei luoghi comuni sull’angelo del focolare, si accontentava di quelle poche ricette apprese e le propinava a ripetizione continua a tutto il nucleo familiare.
Mio padre Costa era sempre troppo impegnato per occuparsi anche materialmente di sfamare i figli, perciò si limitava a cucinare piatti tradizionali in rarissime occasioni, come fosse un evento da festeggiare, e curare l’orto in cortile fornendo le materie prime.
Mio fratello Ale non era nemmeno da prendere in considerazione e mia sorella Pat si faceva carico dei pasti familiari quando non era impegnata a studiare o mia madre era troppo stanca per occuparsene. E proprio lei si arrabbiava un sacco con me in quanto le porzioni non era mai abbastanza per sfamarmi.
Ma con le nonne era tutto un altro discorso: il cibo non mancava mai, le scorte erano sempre abbondanti per qualsiasi evenienza, la tavola era sempre imbandita di pietanze tipiche della tradizione sarda, piatti speciali e ricette improvvisate con quello che stanziava in frigo. Ed io ero sempre il nipote mangione, benvenuto a saziarsi delle loro prelibatezze.
Da prima che io nascessi i miei genitori vivevano con i miei nonni materni nello storico cascinale di famiglia fuori dal paese. Con l’arrivo di mio padre, della sua inventiva e della sua manualità, questo edificio, antico di generazioni, venne periodicamente restaurato ed ampliato per accogliere più membri. Il cortile fu messo lentamente a nuovo ospitando sempre più piante, dettagli floreali, alberi da frutta ed un ordinato orto, man mano che il progetto di un’azienda agricola dava i suoi risultati economici.
Al primo piano risiedevamo io, mamma e papà ed i miei fratelli, mentre al pian terreno il nonno Chiccu armeggiava con i suoi attrezzi e la nonna, Rosa la strega, sfornellava come se il domani non fosse certo.
Il pranzo era un suo compito, dovere e diritto sacrosanto a cui mai avrebbe rinunciato e, per me, dopo le ore scolastiche, significava un rifocillamento completo ed abbondante.
Mentre divoravo tutto ciò che aveva la sfortuna di incontrare le mie fauci, la mia paffutella nonnina mi sorrideva soddisfatta ed esclamava:

- Cucciolo, sei proprio di bocca buona!-

Passando a tutt’altri tipi di fame, le mie voglie erano a pieno regime e non accennavano nemmeno per finta a darmi tregua, preoccupandomi che sarei potuto esplodere da un momento all’altro.
Difatti la mattina poteva spesso accogliermi con i frutti di copiose polluzioni notturne, provocate da roboanti sogni erotici, che mi facevano destare con le mutande imbrattate di sperma. Per quanto amassi gli orgasmi, questi erano totalmente imprevedibili, incontrollabili e mi costringevano a cambiarmi e lavarmi di continuo.
Ero ormai un esperto nell’arte masturbatoria delle seghe. Sapevo precisamente come afferrare il mio membro inturgidito, stimolarlo con la giusta tensione in base alla sensibilità quotidiana e allievarlo dalla dolorosa erezione che lo opprimeva a cadenza costante.
La fame era talmente elevata che poteva essere scatenata anche dal più improbabile o dal più sconcio dei dettagli erotici: l’odore maschile impregnato nei boxer usati di mio fratello, i polpacci tesi e sudati di un ciclista che pedalava a fianco dell’auto in corsa, lo sguardo truce e concentrato di un fumatore barbuto, il torace nudo disegnato di Dylan Dog nelle sue vignette più tentatrici, il voluminoso pacco del mio allenatore di nuoto Stefano…
Indimenticabile, strizzato in quell’aderentissimo Speedo che s’intravedeva sotto la maglietta rossa della piscina quando si chinava a bordo vasca per darci consigli sullo stile del giorno. Dai lunghi capelli castani raccolti in una crocchia alta, viso glabro dai lineamenti dipinti, torace scolpito che s’indovinava sotto la divisa.
La mia fantasia incontenibile galoppava veloce in sua presenza e spesso mi ritrovavo a squadrarlo imbambolato finchè i suoi occhi non incrociavano i miei, obbligandomi a tuffare la faccia sott’acqua per nascondere il rossore improvviso.
Sognavo, spesso senza dormire, dei maschi che mi circondavano, talmente frequentemente che è diventata un’abitudine quasi rituale anche ora in età adulta, anche se più gestibile e meno impetuosa come quando ero ancora vergine.
I miei film mentali mi conducevano nelle situazioni erotiche più assurde, come il rimanere rinchiuso dentro la scuola per tutte le vacanze pasquali insieme al mio compagno Fabiano; occupandomi dei suoi appetiti sessuali, in quanto, in mancanza di donne, era obbligato a doverli sfogare con me. Oppure gustarmi il corpo sportivo di Pietro, l’amico calciatore di mio fratello, accoglierlo nella mia camera dopo una partita, sfiorare i suoi muscoli scattanti, baciarlo e dimostrargli che potevo dargli più piacere di una femmina. Trovare un naufrago tra gli scogli di Cala Regina e succhiargli un improbabile cazzo duro mentre era svenuto; essere abbordato dall’autista dell’autobus che mi aveva fatto l’occhiolino la mattina ed essere deflorato nel suo mezzo nel deposito serale. L’immaginazione non mi mancava.
Prendevo spunto anche dagli innumerevoli video porno o immagini erotiche che scandagliavo nel mondo virtuale. Oltre alla cocente curiosità di come potesse gustare una cappella maschile, mi soffermavo spesso a studiare il piacere degli attori che ricevevano la dotazione dei colleghi durante rumorose penetrazioni.
Queste osservazioni mi portarono a domandarmi se anch’io potessi provare un tale godimento anale dato che finora mi ero concentrato solo su quello del pene.
Cosicché decisi di ampliare l’esplorazione del mio corpo in zone ancora sconosciute e intimamente meno evidenti. Nei momenti di sicura solitudine in casa o nel casolare abbandonato (La fortezza della depravazione dei miei amichetti segaioli) quando nessuno poteva disturbarmi, mi spogliavo di qualsiasi indumento e aprivo le gambe.
Concentrandomi su una facile visualizzazione erotica, con mano incerta e dita curiose titillavo delicatamente l’ingresso del mio orifizio più intimo. Sempre grazie ai porno, sapevo che bisogna inumidire e lubrificare la zona per facilitare l’entrata di un corpo estraneo; m’inumidivo così i polpastrelli e li facevo scivolare sul buco del culetto scostando una coscia.
Era piccolo, sigillato e pieno di pieghe…mi faceva strano tastare una zona solitamente adibita a qualcosa di poco igienico…ma mi ero pulito bene per l’occasione e la curiosità era troppa.
Infilai con estrema attenzione la prima parte di una falange, ma, a parte un fastidio simile ad una supposta che si introduce, non provai nessun trasporto trascendentale. Sfilai il dito ed annusando odori più interni e non familiari, evitai ulteriori indagini.
Nulla però m’impediva di trovare alternative meno personali da introdurre e, ricordando grossi oggetti fallici in alcuni video che stimolavano altrettanto piacere anale, mi guardai intorno alla ricerca di un ipotetico pene finto.
In quella prima occasione mi trovavo nella mia cameretta e il fortunato candidato risultò essere una penna non più funzionante che conservavo ancora in un cassetto: era liscia, tonda, priva di scanalature ed essendo asciutta non rischiavo di macchiarmi d’inchiostro.
Rimettendomi in posizione comoda, la succhiai con abbondante lavoro salivare immaginando fosse il membro di un giovane maschio e la infilai con più decisione del dito.
La sensazione fu tanto improvvisa quanto inaspettata: era strano sentire un corpo rigido dentro una cavità così morbida e abituata finora solamente ad espellere, sorprendentemente piacevole e idealmente stimolante. Non persi tempo ed iniziai subito un lento movimento costante di introduzione e sfilamento.
La reazione a questo nuovo sfregamento interno fu istantanea ed il pene s’irrigidì alzandosi contento. Con la mano libera dalla penna me lo afferrai con forza ed iniziai a segarmelo sicuro, mentre con l’altra più timorosa continuavo la piccola e lenta penetrazione.
Fu un crescere di sensazioni mai sperimentate prima, un delicato piacere che nasceva dall’interno e si propagava in crescendo verso l’esterno. Rispetto a quello più carnale e circoscritto che derivava da una semplice pippa, questo si espandeva come un’onda per tutto il resto del mio corpo; non era manifesto, ma quasi da indovinare e, di conseguenza, da prestargli più attenzione.
Sussultavo inspirando ad ogni frizione della penna, involontariamente i muscoli del mio buchetto inviolato si contraevano dandomi una minuscola scarica ulteriore, per poi rilassarsi e farmi espirare intensamente.
Le cause e le conseguenze erano troppo nuove da sopportare e nel giro di qualche colpo di mano schizzai potente fino a raggiungermi il collo ed il mento. Fu un orgasmo altrettanto nuovo che m’irrigidì gli addominali, le gambe e le pareti interne all’ano, facendomi roteare gli occhi all’insù ed esalando un verso di pancia, come se l’origine fosse profonda come il luogo in cui avevo inserito la penna.
Era indubbio che avessi scoperto un interessante e rivoluzionario piacere personale, opposto a quello già conosciuto, più intimo e segreto, più ambiguo quasi.
Come quando avevo scoperto l’amore per la danza, mi buttai a capofitto nell’approfondimento di questa nuova stimolazione: iniziai ad accompagnarla quotidianamente alle consuete seghe, provai nuove intensità d’introduzione più decisa, cambiai posizione mettendomi all’incontrario e, reggendomi sulle braccia con la schiena arcuata e lasciando la penna infilata, spingevo il pene sfregandolo sul letto mimando una penetrazione ed imbrattando le lenzuola di copiosi schizzi.
Cercai altri oggetti fallici più consistenti e voluminosi, un timido pennarello spesso, un coraggioso tubetto di deodorante spray (troppo largo), fino ad una temeraria zucchina rubata dall’orto di mio padre. A quest’ultima dovetti rinunciare quando mi procurò una leggera irritazione che mi costrinse a rinunciare ai nuovi esperimenti per un po’.
Trovai compagnia fidata nella ricerca del piacere in una candela colorata che adoperavo infilandola dalla base e, essendo lunga, mi permetteva un buon appiglio con la mano. Mi regalò felici ed appaganti orgasmi e tremori goduriosi trattenuti nel cuore della notte.
Non la accesi mai per illuminare, ma lei certamente mi accese dentro.

Il piacere anale non era l’unica esplorazione in cui mi ero lanciato.
Nonostante fossi cresciuto, non avevo mai smesso l’attitudine infantile di percepire il mio essere in un discontinuo ondeggiare tra mascolino e femminino. Senza qualcuno con cui potermi confidare (non osavo nemmeno immaginarlo) e senza le facili terminologie contemporanee di oggi, combattevo contro la pressione esterna ad identificarmi in un solo modo possibilr.
Da piccolo possedevo la libertà di potermi comportare istintivamente nella maniera che più appagava, senza filtri e spiegazioni, chiedendo aiuto a mia madre a travestirmi e sistemarmi un velo o a mia sorella per un’ombra di trucco sulle palpebre.
Ma ora, da adolescente, ero intrappolato dal giudizio e dalla critica altrui. Ero certo del mio genere biologico di appartenenza, provavo piacere fisico e mentale ad avere un pene, non ambivo a percepirmi in un corpo opposto a quello di mio fratello. Ma non ero più libero di giocare ed esprimere altri lati al di fuori del mio sesso.
Ero prigioniero della paura di essere vessato, di perdere quel minimo di dignità guadagnata con i pochi amici ed essere ridicolizzato pubblicamente. Non c’era via di scampo dall’unicità imposta con cui un maschio dovesse affrontare il proprio corpo e la propria sessualità, non esistevano sentieri alternativi accettati dalle masse, la morale definiva deboli e sbagliati coloro che non rientravano nei canoni macisti, anche se giovani.
Perciò nascondevo totalmente quelle inclinazioni che avevo compreso come essere sbagliate. Nessuno doveva avere la benché minima percezione che io potessi provare certi tipi di piacere; in un certo senso li nascondevo persino a me stesso perché non li gustavo totalmente e, terminato un preciso atto colpevole, lo cancellavo dalla memoria lucida. Era scomparso ed io non ne ero quindi più responsabile.
La sensazione segreta di infilare il piede in una scarpa col tacco di mia madre, il volteggiare di una gonna a balze in camera mia, ballare sensualmente davanti allo specchio in bagno dopo la doccia immaginando mani maschili sui miei fianchi, sorridere dei bagliori dei pendenti alle mie orecchie, spogliarmi di tutti i vestiti ed indossare furtivamente una mutandina in pizzo bordeaux di mia sorella…
Nasconderla trafelato, pieno di sensi di colpa, dopo essermi reso conto di averla strappata nella foga di toglierla quando sentii le chiavi girare nella porta d’ingresso. Per moltissimo tempo proverò vergogna per quel piccolo crimine, spaventato che la mia famiglia potesse scoprire il mio peccaminoso segreto. Lo confesserò a Pat in lacrime solo diversi anni dopo in un moto di sincerità fraterna.

Tutte quelle novità, quelle tentazioni, quei piccanti segreti erano il mio macigno adolescenziale da trascinarmi sulla schiena. Forse perché troppo distratto o poco sereno, iniziai a perdere colpi in ambito scolastico.
Ero poco attento, mi perdevo in ragionamenti inutili, ero svogliato nel portare a termine i compiti a casa ed arrivarono così i primi voti bassi. Soprattutto in matematica.
La mia mente è ed è sempre stata troppo legata alle questioni umane, all’inseguimento delle passioni, all’arte e alla creatività per pensare in modo meccanico e meccanicistico. Uso la logica, ma le mie connessioni cerebrali si spengono con i numeri ed i calcoli.
I miei genitori e mia sorella (Ale era più corpo ed istinto che mente intellettuale) si impegnarono per sostenermi nell’impresa di recuperare il ritmo di studio. Quando un problema colpisce uno di noi, la squadra intera si mette all’opera (mio fratello contribuì sforzandosi di non distrarmi).
In tutto ciò che era teoria, sforzo mnemonico ed ampliamento del vocabolario, riuscivo a risalire la china. Ma, nel resto, continuavo ad annaspare.
In quanto figlio di insegnante avevo una sorta di celata reputazione da difendere, così mia madre si prodigò per cercare un aiuto esterno, a costo di doverlo pagare, e, tramite conoscenze didattiche tra vecchi colleghi, riuscì a procurarmelo.

Entrò così nella mia vita Giorgio.
Quando varcò per la prima volta l’uscio di casa nostra e mi strinse la mano per presentarsi, il mio cuore ebbe un sussulto e penso che si fermò per un istante lungo un’ora. Toglieva il fiato a vedersi.
Coetaneo di mio fratello (all’incirca 25 anni quindi) ma completamente diverso dalla sua atmosfera più verace. Una chioma ricciola color cioccolato al latte gli incorniciava il viso squadrato ma gentile. Occhi profondi castani in cui mi sarei tuffato se solo me lo avesse chiesto, baffetto curato sopra le labbra disegnate; spalle larghe e vita stretta, fisico slanciato con braccia atletiche che si immaginavano sotto la maglia azzurra.
I suoi movimenti erano trattenuti all’interno del nostro salotto, ma la sua presenza era innegabile. Nessuno era assente quel giorno e gli esponenti femminili della mia famiglia rimasero colpiti quanto me dalla sua entrata.
Pat ancora trilla quando racconta di lui e ricorda sospirando quanto desiderasse ricevere come me le sue ripetizioni. Spiacente cara sorellina.
Dopo i convenevoli con mia madre che gli impostò un quadro generale della mia situazione scolastica, ci rinchiudemmo in camera mia per una prima lezione, più di conoscenza che reale approccio alla materia.
Balbettai per tutta l’ora successiva con la lingua che incespicava nelle parole che tentavo di pronunciare guardandolo. O almeno, quando tentavo di guardarlo: un suo sguardo mi obbligava a chinare il capo perché improvvisamente pareva più importante studiare la trama del tessuto dei miei pantaloni piuttosto che sfidare ancora la forza gravitazionale di quegli occhi.
Ricordo solo lui di quel momento, nient’altro di inutilmente matematico.

Trascorsero le settimane e le ripetizioni in sua compagnia. Come anticipato dal contatto di mia madre che lo aveva raccomandato, si rivelò essere veramente un bravo ragazzo ed un ottimo tutor.
Viveva con i genitori a Sestu, non così distante dalle nostre zone, studiava alla facoltà di Matematica ed Informatica di Cagliari ed era prossimo alla laurea. Uno studente modello fin dalle scuole dell’obbligo, appassionato di equitazione, amante dei viaggi all’estero, fidanzato da qualche anno con una certa Veronica (credo si chiamasse così…mai vista e mai avrei voluto vederla) e posseditore di un modesto motorino con cui si spostava per raggiungere casa mia. Si era messo a disposizione per ripetizioni di varie materie per racimolare qualcosa, trovare casa con la ragazza, un lavoro dopo gli studi e magari mettere su famiglia. Insomma, un ragazzo con le idee chiare, con un cammino già prestabilito, che avrebbe superato a pieni voti il giudizio delle masse.
Ed anche il mio giudizio era sempre estremamente positivo nei suoi confronti. La mia prima cotta.
Il tipico trasporto emotivo e fisico di un ragazzino in piena crisi ormonale che non sa nulla delle sfumature delle emozioni, dei rapporti di coppia, del sesso reale e non pornografico, ma se ne infischia e continua a sognare con gli occhi a forma di cuore.
Ero ossessionato da lui: ogni canzone me lo ricordava e mi trasportava in viaggi mentali in sua compagnia, ogni libro poteva contenere un dettaglio collegabile alla sua persona, ogni sega era dedicata in suo onore, una sua penna dimenticata poteva trasformarsi in un oggetto sacro da conservare fino alla lezione successiva, un suo sorriso poteva sconvolgermi qualsiasi tipo di giornata.
Ci incontravamo una volta a settimana per un’ora o due circa ed ogni singolo minuto trascorso era prezioso perché era con lui a fianco. Persino la matematica assunse un altro sapore, nonostante continuasse ad essermi ostica, si trasformata in una valida scusa per poterlo vedere.
Qualche anno dopo mia madre confesserà che aveva odorato qualcosa dai miei atteggiamenti e da quante volte contava il suo nome uscire dalla mia bocca, ma non avendo mai considerato alternative ai miei ipotetici sentimenti “normali”, aveva lasciato correre.
Lui stesso si era affezionato a me e alla mia famiglia, con i nostri modi festosamente irruenti, l’accoglienza affettuosa (mia nonna gli regalò una scatola di pardule fatte in casa) ed il nostro incessante chiacchierare, divenne un elemento domestico nei nostri ambienti.
Con me era sempre molto gentile e paziente, mai un rimprovero esagerato nonostante i miei strafalcioni di calcolo e, per quanto mantenesse un certo distacco “professionale”, cercava anche un dialogo trattandomi come un suo parente stretto più giovane.

Arrivò la fine dell’anno scolastico e di quell’inferno chiamato Scuole Medie; per il rotto della cuffia riuscii a strappare la sufficienza in matematica, grazie all’aiuto di Giorgio, confermando la sua bravura come tutoraggio. Ma anche il suo doloroso allontanamento dalle scene.
Scelsi di iscrivermi al Liceo linguistico di Cagliari per il settembre successivo poiché la presentazione della scuola mi era piaciuta e non c’era alcun rischio che incappassi in ex compagni. Ne avevo abbastanza di bulletti strafottenti e girava voce che quell’indirizzo non contasse molti elementi maschili fra le sue file. Con le ragazzine sapevo relazionarmi, potevo gestirle, anche se avverse, e avevo quella stupida idea che un ambiente più femminile mi avrebbe permesso di vivere in pace.
Contagiato dall’entusiasmo di un prossimo cambiamento radicale in arrivo, accettai l’invito del mio amico Simone ad unirmi a lui per un periodo estivo in colonia nell’isoletta di Sant’Antioco, organizzata da una parrocchia del paese. Erano presenti altre facce note del gruppetto di Quartu, ma non sentivo particolari legami e scoprii già durante il viaggio di andata che tutti i partecipanti e gli animatori si conoscevano già da diverso tempo poiché frequentavano il medesimo giro dell’oratorio. Io non ci avevo mai messo piede.
Mi pentii della mia scelta nel giro di pochi giorni. La messa giornaliera era obbligatoria e, nonostante avessi tutti e tre i sacramenti, non ero mai stato un credente; mi ero creato un’idea tutta mia sulla spiritualità e la religione, influenzato dalle idee atee di mio padre e le filosofie animiste di una zia eccentrica.
Mi annoiavo a morte in quei momenti e il restante delle attività mi ricordava nuovamente che ero un pesce fuor d’acqua in mezzo a “maschi giusti” e “femmine disinteressate”.
Trascorsi il restante della vacanza cercando di nascondere il mio bisogno di svuotarmi lo scroto in un ambiente estraneo, celare i miei sguardi indagatori quando nella camerata maschile si spogliavano o quando si pisciava in gruppo in mezzo alle frasche.
Ero invisibile: durante un gioco notturno al buio riuscii a vincere solamente perché nessuno mi conosceva ed ero riuscito a raggiungere incolume la base senza essere notato.
Alla festa danzante dell’ultima sera erano tutti accoppiati sulla pista, primi baci ovunque, io ero seduto in disparte a pensare a Giorgio e, ricordo, vicino a me c’era una ragazzina…ho scordato il nome. Aveva spessi occhiali a fondo di bottiglia che le ingigantivano grottescamente gli occhi, denti cavallini sporgenti e un’aria un po’ persa, per altri motivi era una paria come me.
Tornai a casa più depresso di prima, con gli entusiasmi spenti e quasi rassegnato a non provare mai il brivido di un contatto fisico con qualcuno che desiderassi realmente e non con qualcuna che mi sarebbe stata imposta.
Nemmeno la vacanza in famiglia riuscì a sollevarmi il morale. Ale e Pat non si erano uniti quest’anno, io ero pensieroso e taciturno con i miei genitori che tentavano di godersi gli ultimi viaggi familiari con l’unico figlio disponibile.
Un pessimo modo per concludere una fase della vita.

L’inizio settembrino del liceo sembrò portare nuova linfa al mio animo.
Mi feci accompagnare in auto da mia madre solamente il primo giorno, pretesi una sorta di indipendenza fin da subito e decisi che successivamente mi sarei spostato per conto mio con i mezzi pubblici. Lei versò una lacrimuccia di commozione a vedermi così impettito all’ingresso di un nuovo capitolo scolastico.
Scoprii di essere stato assegnato alla sezione E composta da 23 alunni, di cui 6 maschi, io ero il settimo.
Due compagni attirarono la mia attenzione. La ragazzina ripetente che si era seduta accanto a me, Jessica, palesemente sovrappeso, con una risata contagiosa e dalla parlantina sciolta e Vincenzo, il ragazzo più alto della classe. Spiccava per l’aspetto avvenente, il fisico già piazzato (da pallavolista scoprii in seguito), la voce udibile a distanza ed un ipoteticamente pericoloso atteggiamento da bullo.
Non mi scoraggiai e tentati di accettare tutto ciò che sarebbe arrivato di nuovo, fiducioso che questa volta sarebbe andata meglio.

Durante il primo semestre mi resi conto che certi meccanismi sociali erano i medesimi delle scuole precedenti. La classe era suddivisa in diversi gruppi o “ordini”, il cui grado di popolarità e potere cambiava in base ai componenti e i punti di vista del giudizio: c’erano i secchioni, gli sportivi, a volte associati ai bulli o ai “gaggi” le ragazze alternative (politicamente impegnate e vestite rigorosamente non firmate) e gli sfigati.
Io mi ero imposto un comportamento piuttosto versatile e sfarfallavo di gruppo in gruppo in base alla situazione, tentando di nascondere le peculiarità che ritenevo potenzialmente malviste in ogni ordine. Ero spiritoso ed ironico, entusiasta e chiacchierone, in un modo o nell’altro ero abbastanza benvisto da tutti.
Rispetto alle medie, non potei tener celata l’attività sportiva della danza e, ovviamente, fui preso di mira da alcuni elementi capeggiati dal maschio Alpha, Vincenzo.
Non poteva che essere lui il nuovo e vecchio nemico da fronteggiare quotidianamente; sempre con la battutina pronta nei miei confronti, tentava puntualmente di sminuire la mia mascolinità e mettere in dubbio il mio orientamento sessuale (di cui nemmeno io ero ancora certo), possibilmente in pubblico e, purtroppo, anche durante la ricreazione nel cortile interno alla scuola con tutte le altre classi presenti.
Ma, come avevo sperato, l’alta presenza femminile, forse con un’empatia rafforzata dai feromoni, mi aveva regalato qualche alleata che mi sosteneva nel fronteggiarlo. Imparai così a rispondere ogni tanto con un sonoro “vaffanculo” ed una voltata di spalle.
Certe parole ferivano ancora, ma avevo imparato ad incassare un pochino di più.
La grande differenza fu l’incremento dello studio e le nuove materie. Ogni giorno avevo diverse ore pomeridiane impegnate dai compiti, i professori avevano un’aura di autorità più intensa rispetto agli esempi precedenti, ma la mente era stimolata ad ampliarsi con i nuovi insegnamenti di Inglese e Tedesco. Le altre materie teoriche erano toste e più profonde, richiedevano un livello di impegno maggiore rispetto a prima, ma il mio tallone d’Achille continuava ad essere la matematica.
I nuovi argomenti e le nuove regole non furono certo d’aiuto, cominciai a sentire familiari vuoti di apprendimento, i voti non si alzavano e arrivarono le prime convocazioni con l’insegnante.
Per correre ai ripari prima che fosse troppo tardi, mia madre ricompose il numero di telefono di Giorgio, provocandomi brividi lungo la spina dorsale fin giù nelle parti basse.

Ripresero così le ripetizioni ed i miei sogni ad occhi aperti.
Conscio che anche queste potessero terminare un giorno, m’immergevo appieno nell’esperienza per poter godere della sua presenza fino all’essenza.
Studiavo i suoi movimenti saldi quando entrava in camera mia, ogni scusa era buona per poterlo inavvertitamente urtare con la gamba mentre mi spostavo o con il piede sotto la scrivania, se cambiavo posizione. Se una sua mano sfiorava la mia mentre erano entrambe appoggiate sul foglio quadrettato, immagazzinavo la sensazione del momento per adoperarla in seguito in una conturbante masturbazione. Mi avvicinavo il più possibile a lui per riuscire a rubare un’oncia del suo profumo e, quando se ne andava, sniffavo come un segugio la sedia su cui era rimasto immobile, alla disperata ricerca di una sua impronta olfattiva. Ricordo che una volta mi adirai con mia madre perché aveva arieggiato la camera dopo le due ore di lezione aprendo la finestra: poche gocce del suo perfetto odore sprecate in quel mare di fresco ossigeno.
Riuscire a spiarlo dalla serratura del bagno, mentre si prendeva qualche minuto per liberarsi la vescica, era già una grande conquista per me; nonostante non avessi mai ottenuto il massimo premio di aver scorto qualcosa di proibito, oltre alla sua schiena girata. Ma sapere che in quegli attimi le sue mani stavano reggendo il suo pene e, dopo, avrei potuto ammirarle ed immaginarne il tocco, mi donava una scossa all’inguine. Correvo poi a nascondere la forte erezione sedendomi di nuovo alla scrivania quando sentivo tirare lo sciacquone.
Mai avrei immaginato che i numeri ed i calcoli potessero eccitarmi a quel modo.

Un pomeriggio di novembre lo accolsi alla porta da solo, spiegandogli che i miei genitori erano impegnati con i loro lavori ed i miei fratelli in giro, chissà dove, e avremmo avuto la casa tranquilla senza la solita caciara. Lo tranquillizzai mostrandogli che mia madre gli aveva già preparato la solita quota per le eventuali due ore, mi sorrise smagliante rispondendo che non sarebbe stato un problema, anche se non ci fossero stati, si fidava di noi.
SBAM! Prima sincope della giornata.
In camera si spogliò del cappotto, spargendo vampate del suo profumo delicato ed invadendo le mie narici estasiate; all’epoca non ero ancora in grado di scernere le note che costruivano un odore e poterlo così descrivere a parole e, purtroppo, ora l’ho dimenticato.
Ero così felice di non avere altre presenze domestiche che mi avrebbero distratto da lui, potevo godere appieno di quella lezione, la percepivo, ancora prima di iniziarla, come un momento ancora più intimo e solo nostro. Mi sentivo euforico e coraggioso.
Ci concentrammo sui compiti che mi erano stati assegnati a scuola, non capivo bene il ragionamento di chissà quale regola e lui iniziò a spiegarmela con la sua voce calda e seria. In quel momento ero focalizzato realmente sui numeri e, senza un pensiero di comando conscio, mi appoggiai alla sua coscia con la mia mano per potermi avvicinare al foglio. Non so per quanti secondi o minuti rimasi fermo in quella posizione così confidenziale, ma lentamente realizzai dove mi stavo trovando.
Eravamo così vicini che un suo ricciolo sfiorava impercettibilmente una mia tempia, il suo parlare emetteva piccoli getti di fiato caldo che mi raggiungevano e i miei polpastrelli iniziarono a registrare il tocco della sua coscia.
Prima che potessi scostarmi imbarazzato, sentii improvvisamente una sua mano che mi stringeva il polso, delicata ma ferma e, lentamente, me la stava trascinando sempre più su, verso il suo pacco. Lo ricordo come se fosse oggi, nonostante lo scorrere del tempo si fosse magicamente fermato: attraverso la stoffa dei suoi pantaloni spiccava un’innegabile erezione.

Il mio corpo è paralizzato, trattengo persino il respiro, ma tutti i miei sensi rimangono all’erta e ogni scanalatura delle mie impronte digitali percepisce ogni fibra del tessuto sopra il suo interno coscia, dove la sua mano chiusa tiene bloccata la mia aperta.
La sua voce si è abbassata leggermente, ma continua la sua spiegazione come se nulla fosse, come se quell’azione non fosse un suo gesto volontario, ma dettato da una forza esterna.
Il mio cuore sta battendo all’impazzata, potrebbe esplodere da un momento all’altro, rimbomba talmente forte nella mia cassa toracica che potrebbe essere udito anche da lui. Per la prima volta in vita mia non ho pensieri che mi vorticano in testa e agisco, con estrema calma e delicatezza certosina gli stringo il pacco rispondendo al suo tocco. Confermo: Giorgio ha il cazzo duro.
In quegli attimi elettrici le mie orecchie si dimenticano di ascoltare e non capisco più se lui stia continuando a parlare, ma io proseguo nel mio tastare ed inizio anche a sfregare leggermente. È una sensazione potentissima percepire il corpo di un’altra persona nella propria mano, sto toccando qualcosa finora proibito che non mi appartiene. Ho accesso ad una zona intima di qualcuno, di un maschio, che mi piace. Desidero questo maschio, lo voglio e lo sto finalmente toccando, non è il mio pacco, è il suo, solo della misera stoffa mi separa dalla sua carne, ma è lì, fra le mie dita, si muove, è vivo, è un ragazzo vero, è…

- Vuoi toccarlo?-

Un suo sussurro mi riporta alla realtà ed il silenzio che non stavo ascoltando mi riempie i timpani. Penso di avergli risposto un assenso perché scansa la mia mano e sento che sta armeggiando con la cintura e la zip dei pantaloni. Non ho il coraggio di guardare e tengo gli occhi incollati al foglio, senza vederlo. Rumore di tessuto e poi di nuovo la sua mano che accompagna la mia tra le sue cosce.
È caldo, percepisco la morbidezza dell’epidermide, più spessa di quella altrove, ma che ricopre un corpo duro e pulsante e riempie la mia mano.
Ora che è libero anche dalle mutande, un delicato odore di cazzo raggiunge le mie narici, è simile al mio, ma con note che non recepisco come familiari e questa cosa mi eccita a dismisura. Un movimento nella tuta mi avverte che anche il mio si è svegliato e preme prepotentemente contro lo slip, lo lascio imbizzarrirsi e mi concentro sul suo.
Indago sull’intera asta, timido nelle dita, ma impavido nel cuore. La mia mano sinistra si scopre sorpresa di sfiorare un pene a lei sconosciuto, in realtà il suo primo, poiché io mi masturbo con la destra. Tasta la nuova forma che le si presenta: mi pare più grosso del mio, ma sembra abbia una base più sottile che si allarga salendo, il mignolo sente solleticarsi dai peli e fantastico su come possa presentarsi il suo giardino, se folto o corto.
Con un lento movimento del polso, fletto su è giù, sentendo che la pelle del suo membro segue compiaciuta i miei gesti, mentre il suo proprietario finalmente si scosta dalla scrivania e si rilassa sulla sedia, lasciandomi campo più libero nel gestire il masturbarlo.
Mi concedo il lusso di muovermi anche io e giro il busto nella sua direzione, ma senza avere il coraggio di guardarlo in viso, osservo il premio che sto sorreggendo.
Più bello di quello che credessi, il suo cazzo non rimane contenuto interamente nel mio pugno ed una grossa cappella si staglia al di fuori della dita, fa quasi del tutto capolino dal prepuzio, un porpora acceso con venature lucide ed un piccolo occhietto centrale che pare si rivolga a me. È sferica, come fosse l’interno di cupola in una moderna chiesa, priva di decorazioni barocche, ma dai colori insoliti. Gioca a nascondino con la pelle in abbondo, mentre continuo a segarglielo, ma non viene mai del tutto ricoperta.
Del pelo castano, più scuro dei suoi capelli, ma ugualmente riccio, copre a filo raso il suo pube, lasciando svettare liberamente l’asta. I testicoli non sono né troppo grandi né piccoli, rimangono appesi sodi con una stuzzicante peluria che sfiora il fianco della mia mano in movimento.
Percepisco il peso del suo sguardo su di me, ma non riesco a trovare il coraggio di rispondergli; temo di fargli male, abituato ai miei ritmi più decisi, ma sembra che non provi fastidio e, nel silenzio, sento un flebile gemito.
I miei occhi scattano in automatico in alto ed incontrano i suoi: ha uno sguardo languido, ma deciso, indagatore sul mio viso, come se temesse che io non sia d’accordo. Mi incatena alla sua occhiata. Una vampata di rossore ed imbarazzo mi scalda tutta la faccia, ma l’eccitazione non mi permette di abbandonare la presa e liberarsi della sua trappola.
Sussulto di spalle quando una sua mano si appoggia alla mia nuca, sfarfallo confuso le pupille e, per un attimo, perdo la concentrazione della mia manualità. Lui mi rassicura con uno sguardo e, lentamente, preme sulla mia testa per farmela abbassare. Senza che i miei occhi si discostino dai suoi, obbedisco al suo gesto e mi chino verso il suo obelisco.
Nell’attimo in cui le mie labbra sfiorano la sua cappella, serro le palpebre assaporando gioiosamente la fantasia diventata realtà. La mia bocca avvolge il glande in tutta la sua interezza, godendo di sentirsi finalmente riempita e gustando un sapore totalmente nuovo e misterioso. Ricorda la carne, ma è viva, ha sfumature stagionate, ma senza essere stucchevole, come la forma, anch’esso è tondo e piacevolmente deciso.
La mia lingua scatta subito eccitata per assaggiare questa nuova pietanza e senza rendermene conto inizia a leccargli l’intera asta, poi di nuovo su attorno alla punta e ancora giù a scoprire tonalità più amare e le punture gentili dei peli. La mia fame adolescenziale si risveglia assopita dalle noie delle troppe fantasie e pretende la cruda realtà. Inglobo la cappella fra le mie fauci ed inizio a ciucciarglielo come un gelato caldo e consistente, lasciandomi sfuggire un gemito di pura felicità dopo tanto attendere.
Anche lui si abbandona espirando rumorosamente dalle labbra serrate senza mai liberare la mia testa dalla sua mano.
Senza seguire uno schema preciso, viaggio per tutta la superficie a disposizione, non voglio perdermi nulla e mi scopro avido. Non riesco a contenermi, non penso alla vergona, alla colpa, all’oscenità che potrei trasmettere. Tutto il mio essere, i miei muscoli, le mie attività cerebrali, sono concentrati sul godermi il suo uccello.
Mi sento scomodo in quella posizione al suo fianco, istintivamente m’inginocchio fra le sue gambe aperte, senza abbandonare il suo tesoro.
Lecco, ciuccio, risucchio, schiocco le labbra attorno alla cappella, segno con la lingua tutto il corpo eretto come fosse un cono gelato e me lo affondo in gola. Tossisco per l’enfasi esagerata, ma riprendo il mio giocare come se nulla fosse accaduto, sperando che lui non si renda conto che non ho assolutamente un piano in testa.
Ma pare che stia apprezzando qualsiasi cosa stia facendo perché lo sento mugugnare leggermente e se alzo gli occhi, lo vedo con la testa reclinata in aria ed il mento abbandonato alla gravità, in estasi.
Le mie papille percepiscono gusti diversi in bocca e il mio naso odora calore proveniente dal suo pube. M’inebrio di queste novità sensitive e mi abbandono ad esse, gli succhio il cazzo perché mi piace e perché voglio donargli piacere. Ti prego, Eros o qualsiasi altra divinità del sesso mai esistita, fate che stia provando piacere da me. Voglio che sia felice come lo sono io, euforico come me, indicibilmente arrapato come me.
Mi sfrego volgarmente una mano sulla mia patta e con l’altra afferro la sua carne ed inizio a segarla. Tento di coordinare il movimento del mio pugno a quello delle mie labbra, abbasso la pelle spessa con le dita serrate e affondo il tutto nella mia bocca. Poi risucchio quasi aspirando e lascio più morbida la presa. Muovo il collo a ritmo costante, percependo piacevolmente ancora il suo tocco sui miei capelli. Sta godendo, lo sento.
Il suo respiro si fa affannato, movimenti impercettibili iniziano a scuotere le sue gambe attorno a me, le sue mani iniziano ad imprimere un movimento alla mia testa ed io lo assecondo fidato.
La mandibola inizia a dolermi e sento la pressione dura del pavimento sulle mie ginocchia, ma rifiuto questo fastidio e continuo a farmi guidare.
Giorgio freme improvvisamente.

- Vengooo….- grugnisce vibrando il labbro inferiore.

Lo schizzo mi coglie di sorpresa e vacillo, una parte di sperma caldo mi colpisce la guancia, rindirizzo il suo cazzo nella mia bocca ed il resto del getto sul mio palato.
Il gusto è totalmente diverso da quelli esterni finora assaggiati: dolciastro con punte salate, la consistenza è vischiosa sulla lingua, mi appiccica le pareti orali e sento la forza dello spruzzo ovunque. L’odore pungente mi coglie impreparato e non riesco più a respirare dal naso. Istintivamente ingoio tutto quanto, pizzicandomi la gola ed impastandomela.
Apro finalmente la bocca, ma qualche zampillo ancora esce dall’uretra, sporcandomi il viso e le labbra. Memorie infantili del corpo si attivano e lecco tutto con la lingua, inglobandoli in bocca ed ingoiando anche le ultime gocce che sono riuscito a recuperare.
Lui esala gli ultimi gemiti e mi trova paralizzato fra le sue gambe con la bocca spalancata, uno sguardo confuso e tanti interrogativi sulla testa.
Scatta in piedi e corre verso il bagno vicino alla mia camera.
Rimango imbambolato in ginocchio, senza sapere come comportarmi sentendo che il viso sta gocciolando sperma sul pavimento. Vedendomi da fuori potrei sembrare un penitente con le mani al cielo che ringrazia del dono divino.
Ma io mi sento uno stupido, penso di aver fatto un’enorme cazzata, mi prenderà per un ragazzino incapace e depravato, perché l’ho succhiato così da porco, ma lo volevo così tanto, crederà che sia un pervertito, mi lascerà così e…

- Ecco qui – mi dice gentilmente Giorgio porgendomi degli strappi di carta igienica mentre rientra nella stanza.
- Pulisciti qui – accompagnando la mia mano sulla parte umida della mia guancia – Cavolo, Tommi…ma sei bravissimo ad usare la bocca. Scusami, non ho saputo trattenermi! –

Mi stava sorridendo, con i denti bianchi che facevano capolino dal baffetto curato. Non potrò mai scordare quel momento, si stava complimentando con me: mi spense le ansie e mi avvolse con una serenità che non avevo mai sperimentato prima.
Lentamente si formò nel mio cervello l’idea che avevo appena fatto il mio primo pompino.
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