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Sotto pelle - 01


19.05.2025 |
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"Lasciò cadere il kimono sullo sgabello accanto al lavandino, poi si guardò un istante allo specchio..."
La villa si trovava in quella zona di Milano dove le case iniziano ad avere nomi propri e i giardini si fanno complici. Non era antica, né ultramoderna: era semplicemente perfetta, secondo i criteri di Irene Sarti. Lei l’aveva progettata per altri, ma quando la commessa era saltata, l’aveva comprata per sé. O almeno, così raccontava.Tre stanze con bagno privato, un salone che sembrava uscito da un catalogo francese degli anni ’70, e una cucina con isola centrale. Era un regno condiviso, ma con regole tacite. Chiara amava dire che era “una casa di piaceri indiretti”. Viola, invece, la chiamava “il castello delle domande senza risposta”.
Quella mattina, il silenzio era fragrante di caffè amaro e tacchi sulle piastrelle lucide. Irene era la prima ad alzarsi, come sempre. Camminava nuda sotto un kimono di seta nera, con la compostezza di una donna che controlla tutto, anche i propri desideri. Ma non poteva evitare di notare che la porta di Viola era socchiusa. Di solito era chiusa a chiave.
Chiara arrivò dieci minuti dopo, a piedi nudi, con una camicia di lino. Portava un libro sottobraccio: I Modi di Pietro Aretino, con il segnalibro infilato tra due posizioni particolarmente… didascaliche. «Viola ha dimenticato la macchina fotografica sul divano» mormorò, appoggiandosi allo schienale e lasciando che la camicia risalisse appena le cosce. «Succede solo quando ha sognato qualcosa che non vuole confessare.»
Irene non rispose subito.
Fu allora che comparve Viola, lenta e precisa, come se fosse appena scesa da un set fotografico. Indossava solo stivali lucidi, una camicia in lattice trasparente, aperta su un corpo che sfidava ogni definizione semplice e un paio di culotte per coprire il suo sesso maschile. I suoi occhi grigi erano già svegli da un’ora.
«Stamattina mi servono i vostri corpi» disse. «Per un progetto personale. Nulla che finisce su carta. Solo nell’archivio che nessuno vede.»
Le due donne non risposero. Ma nei loro silenzi c’era già una resa.
Il profumo del caffè si era fatto più deciso, mescolandosi con quello del burro caldo e di qualcosa che Irene stava tostando con precisione chirurgica su una padella in ghisa. Era l’unica a indossare qualcosa di vagamente “mattutino”: un kimono di seta, ampio ma perfettamente stirato. Sotto, niente. I capelli lisci e ordinati, legati in una coda bassa.
Chiara sedeva sullo sgabello centrale, le gambe accavallate con naturalezza.
Viola, invece, stava in piedi vicino alla finestra, la camicia di lattice trasparente ancora addosso, completamente aperta sul petto. Sotto portava solo un paio di culotte nere, aderenti. Gli stivali in vernice nera, alti fino al ginocchio, erano lucidissimi. Il suo sguardo andava e veniva dalla strada ai riflessi sul pavimento lucido della cucina.
«Se lasci la macchina sul divano, prima o poi qualcuno ci guarda dentro» disse Chiara, sollevando una fetta di pane tostato. «E magari ci trova qualcosa che non dovrebbe vedere.»
Viola si girò lentamente. «Non c’è nulla che non dovrebbe essere visto. Solo che non tutti capirebbero.»
Irene restò in silenzio, impilando due piattini di ceramica bianca. Poi, con voce neutra: «Hai intenzione di scattare oggi?»
«Solo se qualcuna si presta» rispose Viola, aprendo il frigorifero con un gesto deciso.
Chiara sorrise, il tono era ironico ma non scherzava del tutto:
«A me serve almeno un’ora di trucco e altri venti minuti di liturgia per scegliere l’intimo. Non faccio performance impreparate.»
Viola non disse niente, ma il suo sguardo indugiò un secondo in più su di lei.
Irene posò le posate, si voltò e si appoggiò al bordo del lavello, sorseggiando il caffè con lentezza.
«Io non sono fotogenica.»
Viola sorrise appena, come se avesse sentito una sfida non dichiarata.
«Lo dice chi non ha mai provato con la giusta luce.»
Una pausa. Solo il rumore delle stoviglie. Poi Chiara, tagliando la tensione con una voce disinvolta:
«Facciamo così. Se oggi piove, io mi presto. E tu, Viola, niente archivio: scatti e poi ce li fai vedere, chiaro?»
Viola annuì. Irene alzò appena un sopracciglio. Non disse sì. Ma non disse nemmeno no.
Irene non rispose. Ma per la prima volta da giorni, nei suoi occhi c’era qualcosa che assomigliava a curiosità.
Quando iniziò a piovere, fu una pioggia seria. Di quelle lente e continue, che non fanno rumore violento ma impregnano l’aria e rallentano tutto. Le gocce scivolavano sui vetri alti del salone come dita distratte.
Chiara fu la prima a notarla. «Direi che non possiamo più tirare indietro.» Alzò il mento in direzione della finestra, poi si voltò verso Chiara. «Nuova metereologa?»
Irene sospirò appena. Il kimono di seta nera era ancora perfetto, stretto in vita da una fusciacca annodata con cura. Lasciava scoperta la gamba destra fino quasi all’anca. «Va bene. Ma niente scatti rubati. Osservo e giudico.»
Viola non rispose. Stava già preparando lo spazio nel salone: aveva tolto i cuscini dal divano, abbassato le luci, aperto una delle tende centrali. Aveva ancora addosso la camicia in lattice trasparente, ma l’aveva tirata in avanti, legandola in vita come una cintura lucida. Le culotte nere e gli stivali a spillo restavano lì, come un’estensione del suo corpo.
Chiara si alzò. Fece qualche passo nel salone, la camicia di lino seguiva il movimento dei suoi fianchi. Si fermò accanto al muro bianco. «Qui va bene?»
«No» disse Viola. «Siediti sulla sedia bassa. Gamba destra piegata sotto il sedile. Sinistra avanti. Niente sorrisi.»
«Va bene» replicò Chiara. Si sistemò come indicato. Una gamba sotto di sé, l’altra distesa, il lino che si tendeva appena sulle curve. Si notava la mancanza d’intimo solo da certi movimenti, certi bordi che restavano in sospensione. Il viso era rilassato, ma lo sguardo diretto. Seducente, senza volerlo essere.
Irene restò in piedi, a lato. Il caffè ancora in mano. Gli occhi chiari seguivano tutto con un’attenzione sottile, come se stesse osservando una scena d’arte più che due coinquiline al gioco.
Viola scattava in silenzio, muovendosi con eleganza, i tacchi che disegnavano ritmi discreti sul pavimento. «Chinati leggermente in avanti. Sì, così. Lascia che il lino cada un po’ sulla spalla sinistra.»
Il rumore degli scatti riescheggia nella stanza
«Brava. Ora guarda verso Irene.»
Chiara eseguì, senza chiedere il perché.
Irene non si mosse. Ma le dita si strinsero un poco intorno alla tazza calda.
Un tuono in lontananza chiuse il silenzio.
Viola abbassò lentamente la macchina. Lo scatto era buono, ma qualcosa mancava.
Si voltò verso Irene, senza cambiare tono.
«Irene, se vuoi te ne faccio una in controluce. Così si vede solo la silhouette del tuo corpo nudo. Senza vedere altro.»
Chiara sollevò lo sguardo verso di lei, poi verso Irene. Non disse nulla.
Irene restò ferma un momento. Un sorso di caffè. Uno sguardo verso la finestra da cui entrava la luce velata. Poi posò la tazza sul piano in marmo.
«Dove?»
«Davanti alla finestra del salone. Se resti nel punto giusto, la luce disegna solo i contorni. Nessun dettaglio.»
«E tu non scatti finché non ti dico io» aggiunse Irene. Non era una domanda.
Viola annuì. «Promesso.»
Irene sciolse la fusciacca del kimono con un gesto lento, quasi professionale. Lo lasciò scivolare sulle braccia, poi sul pavimento, senza dramma. Nuda, camminò verso la finestra con la stessa grazia con cui attraversava un cantiere o un salotto borghese. Nulla di forzato. Solo la sua pelle e la sua ombra.
Si posizionò come indicato. In piedi, una gamba leggermente piegata, le braccia lungo i fianchi. La luce del mattino grigio scolpiva la sua figura in un profilo nitido, elegante, lontano da ogni esibizione.
Chiara la fissava.
«Ora.» La voce era calma.
Viola premette il pulsante.
Click.
Irene si voltò di spalle, poi camminò verso la sua vestaglia senza fretta. «Uno basta.»
Raccolse il kimono da terra, lo indossò, si strinse la fusciacca. Poi tornò in cucina, come se nulla fosse.
Chiara la osservava. «Ti avevo detto che avevi un buon profilo.»
Irene sorrise. Appena.
La pioggia continuava sottile, tamburellando sui vetri alti.
Viola stava riguardando le foto sul piccolo schermo della reflex, in silenzio. Non sorrideva, ma aveva quell’espressione che Irene ormai riconosceva: soddisfatta, concentrata, già altrove.
Chiara si era spostata sul divano, le gambe raccolte sotto la camicia di lino. Sfogliava di nuovo il libro lasciato a metà. Non leggeva davvero.
Irene si era rimessa dietro al bancone, aveva ripreso la tazza, ma il caffè era ormai freddo. Lo bevve lo stesso.
Nessuna parlava, eppure la stanza era piena di qualcosa. Qualcosa che non aveva nome, né fretta.
Un lampo lontano illuminò per un attimo la parete bianca, dove poco prima Chiara si era lasciata fotografare.
Poi solo il ticchettio della pioggia. E il silenzio, bello da abitare.
Dopo pranzo, il pomeriggio era lento, senza rumore. La pioggia si era attenuata, ma il cielo restava opaco, teso tra grigio e argento. La villa sembrava assorbire quel silenzio con eleganza.
Chiara era di nuovo sul divano, sdraiata a pancia in giù, le gambe distese, nude, appena incrociate. La camicia di lino si era sollevata con naturalezza, scoprendo interamente le gambe e lasciando intravedere il bordo di slip in pizzo nero, sottile, leggero. Il libro era aperto davanti a lei, le dita che lo tenevano fermo sul dorso.
Irene la osservò un momento da lontano, poi si avvicinò. Indossava ancora il suo kimono di seta nera, chiuso in vita, la pelle appena visibile tra un lembo e l’altro. Si sedette con grazia sul bordo del divano, di fianco a lei.
«Libro interessante?» chiese, con tono neutro, ma curioso.
Chiara sollevò appena lo sguardo, poi tornò alla pagina. «È una raccolta di lettere erotiche del Settecento. Certi uomini scrivevano meglio di quanto sapessero toccare.»
Irene accennò un sorriso. «E le donne?»
«Le donne non scrivevano. Ma venivano descritte come se non esistessero davvero. Solo seni, bocche, ginocchia, odori. Mai pensieri.»
«Ti piace?»
«Mi diverte. E mi irrita. Ma intanto lo leggo.»
Irene annuì piano. Restò lì, seduta, lo sguardo che seguiva le linee morbide delle gambe distese, la curva della schiena sotto il lino.
Chiara chiuse il libro per un momento, voltò la testa verso di lei. «Tu leggi mai qualcosa del genere?»
«No. Io guardo. E immagino.»
«Immagini bene?»
«Dipende da chi ho davanti.»
Le due rimasero in silenzio. Poi Chiara riaprì il libro, come se nulla fosse.
«Allora il pomeriggio è da parole. Niente foto.»
Irene si alzò. Non disse altro.
Chiara girò una pagina con calma. Il fruscio era l’unico suono nella stanza.
Irene era rimasta in piedi accanto al divano, come se stesse decidendo se andarsene o rimanere. Alla fine si abbassò lentamente, inginocchiandosi sul tappeto, proprio accanto alla gamba di Chiara. Il kimono si aprì appena sulle cosce, ma lei non sembrava farci caso. O forse sì.
«Posso leggere un pezzo?» chiese, con voce bassa.
Chiara non rispose subito. Poi ruotò il libro verso di lei, indicando un passaggio con l’indice. «Da qui.»
Irene lo prese con delicatezza. Lesse senza teatralità, come se stesse leggendo ad alta voce un appunto d’architettura.
«“Mi domando se la tua pelle abbia davvero il sapore che ho sognato. Se il tuo respiro rallenta quando ti sfioro il collo, o se resta impassibile come fingi in pubblico.”»
Fece una breve pausa. Chiara non si muoveva.
«“Quando sarai mia, non ti chiederò il permesso di entrare nei tuoi pensieri. Lo farò piano. Con la lingua.”»
Irene richiuse il libro. Lo posò sul cuscino. Non guardava Chiara, fissava il tappeto sotto di sé.
Chiara parlò senza voltarsi. «E adesso?»
«Adesso vado a fare una doccia fredda» disse Irene, alzandosi con lentezza.
Chiara rise piano, senza voltarsi.
Irene richiuse la porta del bagno dietro di sé, senza rumore. Lasciò cadere il kimono sullo sgabello accanto al lavandino, poi si guardò un istante allo specchio.
Non cercava niente in particolare. Nessun difetto, nessuna bellezza. Solo un volto che conosceva fin troppo bene. I capelli castani, raccolti in fretta, la pelle ancora segnata dalla piega del divano, il punto esatto in cui il suo sguardo aveva sfiorato le gambe di Chiara un momento più del necessario.
Aprì l’acqua della doccia. Fredda davvero, come aveva detto. Entrò senza esitazione. Il primo impatto le tolse il fiato, ma non si mosse. Lasciò che le scorresse addosso.
Era da molto tempo che non sentiva così forte il confine tra desiderare e decidere. C’erano stati anni interi in cui tutto era chiaro: progetti, clienti, partner, cene. Tutto definito, pulito, freddo. Come l’acqua adesso.
Chiara non le stava chiedendo niente. Ma il modo in cui l’aveva lasciata leggere quel passaggio, il modo in cui non si era voltata, era un’apertura sottile. Un gioco che non si dice ad alta voce. E Viola — Viola osservava. Sempre.
L’acqua continuava a scorrere. Irene era ancora sotto il getto, ferma, le braccia lungo i fianchi, il viso rivolto verso la parete davanti a sé. La pelle le tremava appena, ma non per il freddo.
Sentì la porta aprirsi. Un rumore morbido, poi due braccia calde la raggiunsero da dietro, cingendole la vita con delicatezza. Un corpo nudo contro il suo. Un respiro vicino all’orecchio.
Chiara la abbracciò senza dire nulla. Le labbra le sfiorarono la spalla sinistra, lente, precise. Un bacio umido, lungo. Non di domanda, ma di presenza.
Irene chiuse gli occhi. Inspirò lentamente. Poi si voltò.
Erano nude, sotto l’acqua, con i capelli che aderivano alle guance, al collo. I loro corpi si sfioravano appena, ma bastava. Si guardarono per un lungo momento, senza imbarazzo. Nessuna frase da dire. Solo il respiro che rallentava insieme.
Poi le loro labbra si unirono.
Il bacio fu lento. Esplorativo. Come se si stessero cercando in mezzo all’acqua. Le mani di Irene salirono piano sulle braccia di Chiara, mentre quelle di Chiara le accarezzavano la schiena, scivolando sui fianchi, fermandosi all’osso del bacino.
Le bocche si separarono un istante. Nessuna parola.
Poi di nuovo si baciarono, questa volta con più decisione, ma ancora senza fretta. Solo presenza, solo corpo. Solo il tempo che finalmente non serviva più contare.
L’acqua cadeva ancora, più tiepida ora, come se avesse capito cosa stava succedendo.
Irene aprì appena le labbra, il fiato corto. Guardò Chiara negli occhi, così vicina da sentire il battito, la pelle, il desiderio senza maschera.
«Quanto tempo dovevamo ancora aspettare?» chiese, a voce bassa. Più constatazione che domanda.
Chiara le accarezzò il fianco con una mano, poi salì lentamente sul ventre, fino al seno. Lo sguardo non si spostava dal suo.
«Ora non dovremo aspettare più.»
Si chinò lentamente, il viso all’altezza del petto di Irene. Le labbra sfiorarono un capezzolo, prima leggere, quasi incerte. Poi più presenti. La lingua lo lambì con movimenti circolari, precisi, che si alternavano a pause cortissime, piene di silenzio.
Irene reclinò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi. Le dita le tremavano appena contro le piastrelle bagnate. Un gemito le uscì dalle labbra, soffocato, istintivo.
Chiara continuava, alternando lingua e labbra, e infine i denti, che strinsero il capezzolo con dolce fermezza. Nessuna fretta, solo il piacere di scoprire.
«Non ti fermare...» sussurrò Irene, quasi senza voce.
Chiara sollevò appena il viso, sorrise senza distogliere lo sguardo dal seno bagnato, e poi tornò a baciarla. Più in basso, sul costato, sotto la curva del seno. Ogni gesto era una promessa mantenuta.
Poi proseguì la sua discesa con movimenti misurati, come se stesse leggendo il corpo di Irene riga per riga, senza saltare una parola. Le sue labbra passarono sotto il seno, poi sul ventre, morbido e vibrante sotto la lingua. Ogni bacio era un appoggio silenzioso, ogni pausa un respiro condiviso.
Si inginocchiò lentamente, le mani salite a sorreggere i fianchi di Irene, che restava in piedi, ferma, ma attraversata da un tremore crescente. Quando arrivò all’interno delle cosce, l’acqua non copriva più nulla. La lingua sfiorò la pelle tenera e sensibile, accarezzando, assaggiando, indugiando.
Irene aprì leggermente le gambe, senza dire nulla. Il gesto era semplice, naturale, inevitabile.
Chiara sollevò lo sguardo per un istante, e in quel solo sguardo c’era tutto: rispetto, desiderio, e una voglia antica di conoscere. Poi si abbassò di nuovo, con lentezza, e le labbra trovarono finalmente la fessura calda e viva tra le gambe di Irene.
Nessuna esitazione. La lingua entrò.
Irene trattenne il fiato, poi lasciò uscire un gemito lungo, profondo, che rimbalzò sulle piastrelle. Le mani si posarono sulle spalle di Chiara, come se volesse trattenerla lì, o forse solo ancorarsi a qualcosa mentre il corpo si apriva a sensazioni nuove, ma attese da troppo tempo.
L’acqua continuava a scorrere. E insieme a lei, tutto il resto.
La lingua di Chiara si muoveva con lentezza, ma con decisione. Non cercava di stupire, non forzava. Seguiva l’istinto, ascoltava il corpo di Irene più che guidarlo. Ogni passaggio, ogni pressione, ogni sfioramento era un invito.
Irene ansimava a occhi chiusi, la schiena leggermente inarcata. I suoi gemiti erano bassi, interrotti solo dal ritmo irregolare del respiro. La testa abbandonata all’indietro, le mani ora nei capelli di Chiara, ora sulle piastrelle bagnate. Si lasciava andare, finalmente. Nessuna resistenza. Solo abbandono.
Chiara alternava carezze con la lingua a lievi baci, poi tornava a premere più in profondità, a succhiare appena, a risalire e ridiscendere con precisione. Il suo viso era immerso in quel piacere, la bocca aperta, viva, concentrata. Le mani ora stringevano i glutei di Irene con decisione, guidandola contro di sé.
Il piacere cresceva dentro Irene come una corrente calda, inarrestabile. La lingua di Chiara la conosceva ormai, sapeva dove restare, dove tornare, dove premere e dove aspettare. Nessun gesto era fuori posto. Nessun tempo sbagliato.
Irene ansimava, le dita affondate nei capelli bagnati di Chiara, la testa abbandonata alla parete. Ogni fibra tesa, ogni respiro un invito a non smettere. Poi arrivò quella soglia, sottile, inevitabile.
«Sì... così...» sussurrò Irene, con un filo di voce. «Non fermarti, Chiara...»
Il ventre si tese tutto insieme, come un arco prima dello scocco. Un gemito le salì dalle viscere, prima spezzato, poi profondo. Il corpo le tremava. Le gambe si chiudevano attorno alla testa di Chiara, come a trattenerla lì, nel cuore del piacere. La bocca aperta, gli occhi chiusi.
«Dio... sì... sì... sto venendo...»
Il mondo si piegò. Tutto si chiuse e si riaprì. L’acqua, il calore, la lingua di Chiara che ancora non smetteva, che la guidava fino in fondo, senza paura. L’orgasmo la attraversò in più onde, lunghe, sorde, piene. Un battito di luce dentro il petto, nei fianchi, ovunque.
Quando il respiro tornò a regolare il ritmo del mondo, Irene restò un attimo ferma, ancora appoggiata al vetro. Poi abbassò lo sguardo, le dita che sfioravano il viso di Chiara.
«Tu…» sussurrò, accennando un sorriso incredulo. «Tu mi hai aperta.»
Chiara risalì lentamente, i corpi che si toccavano ovunque. Le mani calde, il viso umido, la bocca a pochi centimetri dalla sua.
«No,» mormorò, «sei stata tu a lasciarti aprire.»
E si baciarono. Senza urgenza. Solo gratitudine, e verità.
La stanza di Irene era immersa in una penombra calda. Le tende lasciavano filtrare una luce lattiginosa, quella del pomeriggio che si avvicina alla sera. Il letto, grande e ordinato fino a un'ora prima, ora aveva le lenzuola arruffate e ancora umide di pelle.
Irene era distesa su un fianco, con addosso solo un asciugamano sottile annodato al petto. I capelli scuri ancora umidi, sparsi sul cuscino. Chiara le stava accanto, più vicina del necessario, più lontana di quanto avrebbe voluto. Anche lei avvolta in un telo, anche lei ancora spettinata, ma con gli occhi accesi.
Rimasero così per qualche minuto. Non servivano parole subito. I corpi avevano già detto tanto.
Fu Irene a parlare per prima, con voce morbida:
«Non era solo sesso.»
Chiara si voltò verso di lei. Non sorrise subito. Passò un dito sulla piega del lenzuolo. Poi la guardò negli occhi.
«Lo so.»
Un momento sospeso.
«Hai avuto paura?» chiese Chiara, senza pretese.
«No. Ho avuto rispetto. Forse troppo.»
Chiara si avvicinò ancora, accarezzandole l’avambraccio, piano. «E adesso?»
«Adesso... non ho più voglia di frenare qualcosa che mi fa sentire viva.»
Chiara posò la fronte contro la sua. Restarono così, pelle contro pelle, senza fare nient’altro.
Solo quel contatto, piccolo e pieno.
Poi, quasi ridendo piano, Chiara disse:
«Abbiamo fatto l’amore nella mia ora preferita.»
«Quale?»
«Quella in cui non si distingue più se è tardi o troppo presto.»
Irene chiuse gli occhi. Le loro dita si intrecciarono. Il silenzio, stavolta, non era più attesa. Era casa.
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