lesbo
Sotto pelle - 03


26.05.2025 |
66 |
1
"Chiara sfogliava un libro di poesia erotica francese, gli stivali al ginocchio incrociati sul tavolo, calze bianche tenute da nastri di raso..."
Viola si svegliò. Il corpo nudo, disteso su lenzuola che sapevano ancora di pelle, di latex, di desiderio.Si girò lentamente sul fianco. Elise non c’era più. Solo il segno di un corpo lasciato sul cuscino.
Portò una mano sul ventre. Il respiro era profondo, diverso da tutte le altre mattine. Il petto non era chiuso. Non c’era quella solita pressione tra le scapole.
Era come se il suo corpo stesse finalmente abitando la stanza con la stessa libertà con cui l’aveva costruita per gli altri.
Si alzò senza fretta. Passò davanti allo specchio, nuda.
Si fermò.
Si guardò davvero.
Il seno alto, la pelle chiara, i fianchi larghi, e il sesso che adesso non era un peso da portare o un’arma da gestire.
Era semplicemente suo.
Accolto.
«Siamo in tre adesso» disse piano, come per provarlo a voce.
La frase le restò appoggiata sulle labbra. Ma non la spaventava.
Si infilò una camicia nera larga, lasciandola aperta sul petto. Poi camminò a piedi nudi fino alla cucina.
Irene era lì, già sveglia, in pigiama seta color fumo.
Chiara arrivò un minuto dopo, in vestaglia leggera color sabbia, i capelli raccolti in modo disordinato.
Entrambe alzarono lo sguardo. Nessuna sorpresa.
Solo un silenzio pieno di riconoscimento.
Viola si versò un caffè. Lo portò alle labbra. Bevve.
I piatti della sera prima erano ancora nel lavandino. Una bottiglia mezza vuota sul bancone. La luce del giorno entrava senza chiedere permesso, illuminando tre donne in camicie larghe e piedi nudi, che si muovevano come se avessero finalmente trovato una coreografia imperfetta, ma perfetta per loro.
Irene si chinò per aprire la lavastoviglie, il retro della camicia di seta grigia che si sollevava appena sulle cosce.
Viola, seduta sullo sgabello alto, la guardò senza nasconderlo.
«Sai che da dietro sei qualcosa di unico?» disse, sorseggiando caffè.
Irene si voltò. Un sopracciglio alzato.
«Questo è un tentativo di flirt o una valutazione tecnica?»
Chiara arrivò con un biscotto in mano, che infilò direttamente nella bocca di Viola.
«Chissà, forse entrambi.»
Viola rise, mordendo il biscotto. «Così parli la mia lingua.»
Chiara si appoggiò al bancone, piegando una gamba. Indossava solo una t-shirt lunga che non lasciava molto all'immaginazione.
«Non ti abituerai troppo in fretta, vero?»
Viola sorride.
«No. Ma non ho intenzione di rinunciare all'effetto che mi fate quando vi muovete senza accorgervene.»
Irene si avvicinò, la camicia ancora semiaperta sul petto. Si fermò di fronte a Viola, le prese la tazza dalle mani e bevve un sorso.
«Non serve che ci muoviamo per accenderci. A volte basta guardarci.»
Chiara sorrise. Poi, più piano:
«E sapere che possiamo toccarci. Quando vogliamo. Senza più chiederlo con gli occhi.»
Un silenzio breve. Non d’imbarazzo. Di possibilità.
Viola posò la tazza. «Allora oggi niente regole?»
Irene annuì. «Solo gioco. E se ci scappa un'occhiata di troppo… non sarà l’unica cosa che scatterà.»
Il sole del pomeriggio filtrava tra le vie del Quadrilatero. Non troppo caldo, non abbastanza da negare l’idea di un trench aperto, un tacco sottile, una camicia sbottonata fino al punto giusto.
Camminavano affiancate.
Irene indossava un blazer nero in pelle opaca, abbinato a pantaloni a sigaretta grigio fumo e mocassini lucidi. Sotto, una blusa in seta avorio, aperta sul petto. Occhiali scuri, passo calmo.
Chiara sfoggiava una camicia oversize color porpora, annodata in vita, e una gonna in pelle nera che accarezzava le ginocchia. Stivali alti, suonanti a ogni passo, e un reggicalze che a tratti si intuiva sotto la trasparenza leggera.
Viola, in trench nero in vinile lucido, lasciato aperto sul davanti. Sotto, un top in latex grigio perla e pantaloni aderenti in pelle lucida. Tacco sottile, rossetto scuro. Gli occhi, come sempre, in anticipo su tutto.
Entrarono in una boutique discreta, vetri oscurati, insegna minimale.
All’interno, manichini vestiti in PVC, pizzo, latex. Tutto curato. Tutto sensuale senza volgarità.
Viola prese in mano un body nero in lattice con zip a scomparsa. Lo girò tra le dita.
«Chiara, questo su di te… sarebbe illegale.»
Chiara prese un bustier in raso e pelle, color prugna.
«Irene, questo invece ti obbligherebbe a smettere di fingere compostezza.»
Irene sollevò un reggicalze in velluto con anelli in metallo.
«Viola. Tu non avresti nemmeno bisogno di indossarlo. Ma se lo metti, io entro senza chiedere nel camerino.»
Risero. Piano. Ma con quegli occhi che dicono tutto il resto.
Poi sparirono dietro le tende, a turno.
E ogni volta che una usciva, le altre due la guardavano come se volessero fermare il tempo lì. Solo per lei.
Il camerino era spazioso. Luci calde, uno specchio a figura intera, tappeti neri, e un gancio dorato sul muro che sembrava fatto per sorreggere più di un abito. La tenda pesante, di velluto rosso, lasciava passare solo il suono dei passi.
Chiara entrò per prima, con il bustier prugna e la gonna nuova in mano.
«Ho bisogno di qualcuno che mi dica la verità» disse, senza guardarsi indietro.
Viola la seguì. La tenda si chiuse senza rumore.
Irene restò fuori, qualche secondo. Poi, senza una parola, entrò anche lei.
La scena dentro era silenziosa. Ma carica come una scintilla in attesa.
Chiara stava di fronte allo specchio, la camicia già a terra. Sotto, un reggiseno in pizzo nero e lo slip coordinato. Le curve morbide, il busto appena teso dal respiro.
Viola appoggiò il bustier sulla sedia, si avvicinò, le sollevò i capelli e le baciò la schiena, all’altezza delle scapole mentre le toglieva il reggiseno.
«Dritta» disse piano. «Lo chiudo io.»
Irene prese la gonna dalle mani di Chiara. La piegò con cura, la posò sul lato.
Poi si chinò, e le sfilò lentamente gli slip, uno dei pollici che sfiorava l’interno coscia senza intenzione. O con troppa intenzione per essere spiegata.
Chiara non si mosse. Solo un sospiro. Appena percettibile.
Viola chiuse il bustier con lentezza, un gancio alla volta. Le dita che sfioravano la pelle nuda tra i punti di chiusura.
Chiara sentì ogni tocco. E quando il seno fu incorniciato, il respiro si fece più visibile.
Irene si alzò. Era di fronte a lei.
Le dita le sfiorarono il busto, il ventre, la giarrettiera ancora da fissare.
«Tu, così, sei una minaccia diplomatica» sussurrò.
Viola guardava dallo specchio.
Poi si avvicinò da dietro, e le accarezzò i fianchi.
«Girati.»
Chiara si voltò lentamente. Le tre erano strette. Nessuna più vestita. Nessuna del tutto nuda.
I corpi si toccavano con naturalezza. Non c’era niente da spiegare. Solo da seguire.
Un bacio.
Irene che prende il viso di Chiara e la bacia a sua volta, più profonda.
Poi Viola che sfiora le labbra di Irene con le dita, ma senza baciarla ancora.
Solo promessa.
Un gemito. Forse di Chiara. O forse di tutte. Sotto voce.
La commessa fuori dal camerino sorrise, senza dire nulla.
Aveva sentito quel tipo di silenzio altre volte.
Viola, ancora vicina al collo di Irene, parlò a voce bassa ma chiara.
«Che ne dite se ognuna di noi portasse sempre un simbolo personale… scelto dall’altra?»
Le dita tracciavano una linea invisibile sul fianco di Irene.
«Un modo per ricordarci che siamo dentro a qualcosa che respira, anche quando siamo lontane.»
Poi si voltò verso Chiara.
Le prese la mano, la baciò piano tra le dita.
«Io desidero te sempre con gli stivali»
Chiara arrossì, ma non si tirò indietro.
«Accetto. E scegli bene. Sono stivali, un arma di seduzione totale.»
Irene si voltò verso Viola, lo sguardo nitido.
«Per te scelgo un collare.»
Viola chiuse gli occhi per un secondo.
«Lo farò.»
Chiara ci pensò un attimo, poi guardò Irene.
«Per te voglio sempre un reggicalze e calze velate.»
Irene sorrise, con quella curva impercettibile che le veniva solo quando si lasciava toccare davvero.
«Meno male. pensavo di peggio.»
Le tre si guardarono.
Non era un giuramento. Era un gioco.
Ma nessuna avrebbe dimenticato.
Le tre completarono gli acquisti, uscendo con una marea di pacchi e buste dal negozio.
A fatica arrivarono all'auto parcheggiata.
Direzione casa.
Viola era alla guida. Indossava il collarino in pelle nera che Irene le aveva appena regalato.
Chiara, seduta dietro, aveva allungato le gambe tra i sedili anteriori, e gli stivali nuovi, alti, lucidi, prendevano quasi tutta la luce del tramonto che filtrava dai vetri. Li accarezzava con le dita, come se stesse ancora provandoli, come se volesse assicurarsi che fossero ormai parte di lei.
Irene, accanto a Viola, aveva la gonna che lasciava vedere il nuoco reggicalze.
A un semaforo, Viola allungò la mano e sfiorò quella bretellina che si intravedeva da sotto la gonna, con la punta delle dita.
«Questo… mi fa venire voglia di slacciarne un altro. Ma aspetto.»
Irene non si voltò. Guardava dritto. Ma sorrise appena, e disse:
«Forse a casa, se ti comporti bene.»
Chiara si chinò in avanti, poggiando le labbra tra i due sedili.
La sua voce era un sussurro con dentro qualcosa di roco.
«A casa ci arrivate solo se smettete di torturarmi con quella tensione addosso.»
Viola rise, bassa.
Poi, senza smettere di guidare, allungò la mano sul cambio, spinse la marcia, e disse:
«Allora tenetevi forte. Voglio arrivare a casa il prima possibile.»
La porta della villa si chiuse alle spalle delle tre donne.
Dentro, silenzio. La luce del tardo pomeriggio entrava larga dalle vetrate. Tutto sembrava sospeso.
Irene si fermò per prima nel salone. Si sfilò la giacca in pelle con un gesto lento, controllato, poi si voltò verso le altre due.
«Quindi… la mattina dovrò mettere sempre reggicalze e calze?»
Lo disse con un tono ironico, ma con qualcosa di più serio dentro.
Poi aggiunse, sfiorandosi la gonna:
«Speravo che, almeno in casa, potessimo essere nude. Solo con i nostri simboli.»
Viola si fermò un secondo. Le mani guantate ancora addosso, il trench che rifletteva la luce del parquet.
«Nude e marchiate di desiderio. Mi piace.»
Chiara, si voltò verso Irene.
Le si avvicinò, nuda, ma con grazia teatrale, il corpo rilassato, sensuale.
«Se vuoi essere davvero nostra…»
Le prese il mento tra le dita. La guardò.
«Allora oltre a quel reggicalze, i tacchi. Anche nuda. Soprattutto nuda.»
Irene non si mosse.
Ma il petto si alzò un po’ di più.
Poi, piano, annuì.
«Mi sembrava di essere la più composta. Mi sa che sto recuperando in fretta.»
Viola si avvicinò da dietro. Le posò una mano sul fianco.
«È per questo che ti desideriamo. Ogni giorno di più.»
Dopo aver cenato, si ritrovarono tutte e tre nude nel salone e solo con i loro simboli.
Il tappeto del salone era morbido sotto le ginocchia.
La luce era bassa, come se sapesse che stava per assistere a qualcosa di intimo, ma vivo.
Viola sedeva con il collare ancora indosso, le gambe incrociate.
Chiara aveva gli stivali scamosciati al ginocchio, il reggicalze stretto ai fianchi, le calze nere che le disegnavano le gambe con precisione chirurgica.
Irene era nuda, tranne per i tacchi alti e le calze con cucitura posteriore. Il reggicalze incorniciava la curva dei fianchi.
Viola fu la prima a parlare.
«Gioco delle verità. Una domanda a testa. Sempre risposta sincera. La prima che mente... paga con la bocca.»
Il tono era calmo, ma le pupille dilatate dicevano altro.
Chiara si sporse in avanti. «Chi giudica?»
Irene sorrise. «Tutte. Se due pensano sia una bugia... lo è.»
La prima domanda fu di Viola, rivolta a Chiara.
«Hai mai goduto solo per il suono di una voce?»
Chiara non esitò. «Sì. Una volta. durante una sessione di bondage.»
Irene e Viola si guardarono.
Poi Irene annuì. «È vero.»
Chiara si voltò subito.
«Tocca a me. Irene… sei mai venuta in silenzio per non farti sentire?»
Irene sorseggiò un sorso d’acqua. Poi guardò Chiara negli occhi.
«Molte volte. Sopratutto al lavoro o al ristorante.»
Viola sorrise. «Anche troppo credibile.»
Ora era il turno di Irene. Guardò Viola.
«Ti sei mai fatta una fantasia su me e Chiara… senza partecipare? Solo a guardarci.»
Viola la guardò. Lenta.
Poi disse, con voce bassa:
«Sì. Più di una. Una volta ho anche scattato foto con la mente.»
Un silenzio.
Chiara la scrutò.
Poi Irene: «Quella frase finale è una copertura poetica. Stavi evitando la parte più vera.»
Chiara annuì.
«Non era tutta la verità.»
Viola sorrise. «Allora ho perso.»
Si mise in ginocchio.
Poi si voltò lentamente verso Chiara.
«Scelgo te. Solo la bocca. Niente mani.»
Chiara si stese lentamente sul tappeto, le gambe che si aprivano con naturalezza, il reggicalze che si tendeva sui fianchi, le calze che brillavano nella luce bassa.
Viola si chinò su di lei.
Le dita dietro la schiena, il corpo teso come un arco, la lingua che scivolò lenta e precisa.
E Irene, seduta accanto, guardava. E sorrideva.
Sapeva che presto sarebbe toccato a lei.
E che nessuna bugia sarebbe mai bastata per salvarla.
Viola era inginocchiata tra le gambe di Chiara, la bocca che si muoveva lenta e precisa, la lingua che disegnava cerchi e pressioni, le labbra che si aprivano, poi si chiudevano sul clitoride umido, teso.
Chiara aveva gli occhi chiusi e la testa abbandonata all’indietro, un braccio sopra la fronte, l’altro appoggiato al tappeto. Ogni tanto, gemiti brevi, tremanti, le uscivano senza controllo.
«Sì… così… sì, Viola…»
Irene era accanto a loro. Seduta, gambe piegate da un lato, il corpo nudo tranne per le calze e i tacchi, le dita che accarezzavano la gamba tesa di Chiara.
Osservava Viola muoversi tra le cosce dell’altra. Concentrata, splendida, vulnerabile e sicura.
Poi, piano, Irene si sporse.
Non disse nulla.
Allungò una mano.
Sfiorò appena il fianco di Viola. Poi il gluteo.
Poi, con lentezza, le accarezzò il sesso da dietro, solo un dito a tracciarne il profilo.
Viola gemette. Con la bocca ancora sulla figa di Chiara.
Il suono fu un tremito breve, affogato tra le cosce dell’altra.
Irene sorrise appena.
Continuò.
Due dita ora, che aprivano leggermente, poi cercavano l’ingresso.
Poi dentro.
Calde. Umide. Vere.
Viola si lasciò fare. Non interruppe il ritmo sulla lingua.
Anzi, si fece più precisa, più affondata in Chiara, come se il piacere che stava ricevendo si trasformasse in piacere da dare.
Chiara tremava.
«Sto… sto per venire…» sussurrò.
Viola affondò ancora.
E Irene le penetrava con due dita, lente ma decise, mentre la osservava muoversi con la bocca.
Il suono del piacere era ovunque.
Chiara venne.
Le gambe tese, il ventre contratto, un gemito strozzato che finì in un respiro lungo.
La testa girata verso Irene, che la guardava come se l’avesse sognata per anni.
E Viola… Viola gemeva sulla pelle di Chiara, il corpo ancora aperto alla carezza di Irene.
Nessuna parola.
Poi, solo il silenzio. E la consapevolezza che avevano rotto una regola.
Ma nessuna aveva perso.
Chiara era distesa sul tappeto, il busto che si sollevava piano. Il bustier allentato, il reggicalze ancora al suo posto. Gli stivali lucidi ai piedi, piegati lateralmente, come se anche loro avessero goduto.
Viola era tra le sue gambe, ma non si muoveva più. La fronte poggiata sulla coscia sinistra. Il respiro ancora pesante.
Le dita di Irene, lente, erano ancora lì dentro. Non spingevano. Restavano.
Poi le sfilò.
Con delicatezza.
E le portò alla bocca.
Le leccò.
Piano.
Come se stesse onorando un gesto, non chiudendo un gioco.
Viola si voltò. La guardò.
Non sorrise. Ma lo sguardo era tenero, acceso, riconoscente.
Irene si chinò.
Le baciò il fianco.
Poi si stese accanto a lei. Le calze ancora addosso, i tacchi abbandonati ai piedi del divano.
Chiara sollevò una mano. La posò sulla pelle di Viola, poi su quella di Irene.
Le toccava insieme.
Una linea invisibile che le univa.
Nessuna parlava.
Ma tutte sentivano.
Sere dopo, la villa era immersa in una quiete sensuale, quel tipo di silenzio che arriva solo dopo giorni di piacere condiviso.
Viola era stesa sul divano, in vestaglia.
Irene si versava del vino, una camicia trasparente, il reggicalze visibile sotto.
Chiara sfogliava un libro di poesia erotica francese, gli stivali al ginocchio incrociati sul tavolo, calze bianche tenute da nastri di raso.
Poi il campanello.
Viola andò ad aprire.
Elise era lì.
Vestita in modo semplice ma impeccabile: jeans scuri, stivaletti lucidi, un soprabito cammello ben tagliato.
Nelle mani, una busta piccola.
«Non disturbo, spero. Passavo da queste parti. Ho pensato che potevate gradire un invito per una pizza decente.»
Viola sorrise. «Entra. Prima, però, un drink.»
«Ok» disse Elise. «Mi ero persa qualcosa?.»
Chiara si avvicinò con due bicchieri.
«Simboli. Ognuna porta quello che l’altra ha scelto.»
Elise sorrise. Si sedette con naturalezza.
«Posso averne uno anch’io?»
Irene la guardò. «Lo vuoi?»
«Sì.»
Viola la osservò. Poi Chiara, con voce morbida, disse:
«Allora niente mutandine. Mai più. In casa. Fuori. Mai. Ti va?»
Elise si alzò.
Si portò le mani ai fianchi.
E lentamente, si sfilò le mutandine nere che portava, in piedi, davanti a loro.
Le piegò, le mise nella tasca del soprabito.
«Fatto.»
«Ora che siamo tutte ufficialmente più leggere… che ne dite di una pizza? Offro io. Ma i vostri simboli restano addosso. Almeno finché non arriva il dolce.»
Il locale scelto da Elise era piccolo, discreto, illuminato da luci dorate e silenziose.
Il tavolo era d’angolo. Quattro sedie basse. Nessuno troppo vicino.
Perfetto per quello che stavano per fare. O non fare.
Chiara indossava un trench in pelle lucida, aperto fin sotto il petto. Sotto, solo reggicalze, calze e stivali. Nessun vestito. Quando si sedette, un lembo si aprì leggermente. Il cameriere non vide niente. Ma se l’avesse fatto, avrebbe ricordato quella gamba per tutta la sera.
Irene aveva scelto un completo elegante: giacca color fumo, pantaloni in raso nero, camicia avorio con un solo bottone slacciato, come sempre. Sotto? Solo le calze e il reggicalze. E i tacchi. Ogni movimento, un’onda trattenuta.
Viola, al collo, un collare in pelle nera sottile, con un anello d’argento discreto al centro.
Portava un vestito corto, essenziale, in maglia nera.
Elise era vestita. Un abito di taglio semplice, aderente ma non esibito. Scarpe con tacco sottile. Nulla in vista.
Ma quando si sedette, le gambe leggermente divaricate, nessuna cucitura visibile sotto, Irene sorrise.
Elise ricambiò.
«Avevo promesso, no?»
Ordinano da bere.
Poi vino.
Poi una pizza ciascuna. Condividono, mescolano, si scambiano morsi tra frasi e battute.
A un certo punto, Chiara passa una mano sotto il tavolo.
Sfiora il ginocchio di Viola. Sale. Tocca la parte interna della coscia. Sente che non indossa nulla. Sorride.
Viola, in risposta, sfila la scarpa. Col piede, accarezza il polpaccio di Irene sotto il pantalone. Risale. Si ferma. Irene non dice nulla. Ma si lecca il labbro.
Elise osserva tutto.
Non tocca nessuna.
Ma le guarda.
Quando arriva il dolce — un unico piatto con quattro cucchiaini d’argento — Chiara dice:
«Elise… ti va di scegliere tu chi imboccare per prima?»
Elise guarda tutte.
Poi si alza leggermente dalla sedia.
Prende un cucchiaino.
Lo carica lentamente.
Poi si piega verso Viola.
E sussurra:
«Ho iniziato a togliere. Ma voglio vedere se posso anche ricevere.»
E Viola apre la bocca.
Elise glielo posò sulla lingua.
Un piccolo gesto.
Ma bastò a cambiare l’aria.
Viola chiuse gli occhi un istante. Deglutì.
«Nocciola e crema.»
Chiara rise piano.
Irene la osservava.
Poi prese il cucchiaino successivo.
Lo avvicinò a Elise.
Non le toccò le labbra.
Glielo porse vicino, in bilico.
Elise, senza dire nulla, si sporse. Aprì la bocca.
Ma non usò le mani.
Ingoiò.
Poi si leccò le labbra, guardando Irene.
Sotto il tavolo, intanto, succedevano altre cose.
Chiara aveva tolto uno stivale. Il piede, nudo, risaliva ora lungo il polpaccio di Viola, sotto la tovaglia.
Sfiorava, premeva, scivolava.
Viola non disse nulla.
Ma le gambe si aprirono un po’ di più.
Elise, che era accanto a Chiara, posò una mano sul ginocchio di Irene, sotto il tavolo. Un gesto lentissimo.
Irene, in risposta, spostò le cosce appena. Il pantalone lasciava intravedere il bordo del reggicalze sotto, e Elise lo toccò con il dorso della mano, con leggerezza.
Il cameriere arrivò per chiedere se gradivano altro.
Irene lo guardò dritto.
«Solo il conto, grazie.»
La voce era ferma.
Ma le pupille… sparate di desiderio.
Appena l’uomo si allontanò, Viola sussurrò:
«Potrei venire solo se continui a premere così col piede…»
Chiara sorrise.
Ma si voltò verso Irene.
«E tu? Cos’hai sotto?»
Irene si sporse.
Aprì piano la giacca.
Poi sfilò un bottone.
Sotto, nulla. Solo pelle e la giarrettiera.
Chiara chiuse gli occhi.
Elise, piano, disse:
«Spero abbiate spazio nel sedile posteriore.»
Poi si alzò.
Lasciò una banconota piegata sul piatto.
Nessuna discussione.
Solo quattro donne che, vestite poco e cariche di intenzioni, uscivano insieme come se avessero appena deciso di cambiare le regole del gioco.
Le tre tornarono a casa a cambiarsi. Decisero che la serata poteva continuare altrove.
La notte aveva ancora molto da raccontare.
L’ingresso del club era nascosto dietro una porticina nera, senza insegne. Il buttafuori le riconobbe. Nessuna parola. Solo uno sguardo e un cenno.
Dentro, la solita atmosfera ovattata: suoni bassi, odore di pelle e profumo muschiato, luci rosse e blu che si spostavano sulle pareti come mani lente.
Viola camminava accanto a Chiara, unita a lei da un guinzaglio leggero, ma solo per provocare.
– Viola indossava un body in lattice nero, spalle nude, schiena scoperta, collare in pelle con anello d’argento, e stivali a tacco 12 con lacci fino al ginocchio.
– Chiara sfoggiava un corsetto bordeaux in pelle opaca, reggicalze nero, calze a rete cucite dietro, e stivali alti fino alla coscia. Le mani guantate in tulle nero.
Erano splendide. E complici.
Ogni passo, un invito al peccato controllato.
Pochi metri più indietro, Elise e Irene camminavano come se entrassero in scena.
– Elise in abito in lattice color fumo, con uno spacco verticale che partiva dallo sterno e si apriva sul ventre nudo. Ai piedi, sandali con tacco dorato e cinturino alla caviglia.
– Irene indossava una jumpsuit in pelle lucida grigia, zip frontale abbassata fino allo sterno, seno nudo sotto, reggicalze visibile dalla fessura laterale dei pantaloni, e tacchi vertiginosi.
Si guardarono, una coppia contro l’altra.
Non come sfida. Ma come gioco a distanza controllata.
Poi Irene, col tono di chi conosce la misura e sa superarla quando serve, disse:
«Stasera tutto è permesso…
ma solo se alla fine torniamo tutte e quattro insieme.»
Elise si avvicinò, le prese la mano guantata e la strinse.
«Sto bene con voi. Non voglio che si rompa quest’armonia tra di noi.»
Viola, da dietro, si fece avanti. Le labbra vicine all’orecchio di Irene.
«Libere… ma alla fine sempre unite.»
Chiara guardò tutte e tre.
Poi le precedette, entrando nella sala rossa.
Il gioco era cominciato.
Il salotto del club era lento e morbido, pieno di curve nei divani, pelle lucida sulle pareti, e tappeti scuri su cui si poteva camminare scalze.
Luci basse, gente che non parlava mai troppo forte. Niente musica alta, solo battiti lenti sotto pelle.
Le quattro si sistemarono su un divano in velluto nero.
Chiara si tolse il trench con lentezza, lasciando che il corsetto e il reggicalze facessero da introduzione.
Irene, più discreta, sbottonò solo un altro bottone. Il seno rimase velato. Ma visibile.
Viola, seduta , gambe accavallate con i tacchi che brillavano come lamine d’acciaio, il collare che rifletteva la luce rossa in modo intermittente.
Elise, elegante ma presente, senza mutandine, come promesso.
Un cameriere portò quattro drink:
– un martini per Chiara,
– bourbon per Viola,
– vino bianco fermo per Irene,
– e un cocktail denso, ambrato, per Elise.
La conversazione partì su toni leggeri.
Poi si fece più densa.
«Guarda quel tavolo lì» disse Elise, indicando una coppia seduta a poca distanza. Lui in latex integrale. Lei con solo una maschera, Un bolero in pvc, minigonna e decolltè.
«Lui la guarda come se non fosse sicuro di meritarsela.»
«Oppure la teme. Ed è lo stesso» rispose Chiara, con un sorso lungo.
Un uomo si avvicinò. Camicia aperta, pantaloni in pelle. Sguardo diretto verso Viola.
«Posso offrirti qualcosa di più forte?»
Viola lo guardò.
Poi si voltò verso Chiara.
«Ho già chi mi fa tremare.»
Lui sorrise, fece un cenno, e si allontanò.
Non c’era bisogno di altro.
Un’altra donna — giovane, corpo snello, seni nudi sotto un bolero in pvc — si avvicinò a Elise.
«Bella scelta, il collare su di lei. Ma ti manca un guinzaglio.»
Elise la guardò, calma.
Poi indicò Irene.
«Lei tiene la chiave. Non mi serve altro.»
Poi Chiara si alzò.
«Io e Viola andiamo a farci un giro. Una stanza tranquilla. Una lingua affilata. Un collare da tirare.»
Viola sorrise.
Le seguì.
Irene osservò le due allontanarsi. Poi si voltò verso Elise.
«Ti va di seguirmi da un’altra parte? Ma… senza dire dove. Ti fidi?»
Elise finì il suo drink.
Poi si alzò.
«Con te? Sì.»
La donna con la maschera si era alzata.
Alta, corpo atletico, seni liberi sotto il bolero in PVC, una postura da padrona assoluta.
Ma non fu quello a colpire Irene.
Fu il gesto con cui, senza fretta, si sfilò la maschera, liberando un volto pulito, truccato con cura, occhi chiari e vivi.
Poi, con naturalezza, legò il guinzaglio del compagno a una delle sedie basse vicino al muro.
L’uomo non si mosse. Rimase in ginocchio. Schiena dritta. Sguardo basso.
Una statua umana del silenzio.
Lei invece si diresse verso Irene ed Elise, con passo morbido.
Arrivò al loro tavolo.
Sorrise.
«Avete l’aria di chi non si accontenta di guardare.»
Elise ricambiò. «E tu di chi ha già scelto da che parte stare.»
«Oggi, sì. Ma solo con chi lo merita.»
Si sedette. Accavallò le gambe.
«Mi chiamo Lara. Quello lì è mio marito. È muto quando serve. E utile, quando lo decido io.»
Irene sorseggiò. Guardò l’uomo legato a distanza.
«Ha un buon portamento. Ma spero che lo hai legato bene.»
«Non mi serve. Basta il polso e un buon frustino per tenerlo a bada.»
Elise rise piano.
Poi posò la mano sul ginocchio nudo di Irene.
«Lara… vuoi restare con noi per un drink? Ma solo se il tuo cane resta al suo posto.»
«Ci resta anche se mi allontano per tutta la notte.»
Un cameriere arrivò. Lara ordinò un cocktail alla rosa.
Poi si girò verso le due.
«Siete in coppia stasera?»
«Siamo in quattro, in realtà. Ma ci piace esplorare a due» disse Irene.
Lara osservò.
«Quindi sono nel cuore del triangolo. O all’inizio di un pentagono?»
Un silenzio pieno fatto di sguardi.
Poi Elise si voltò verso Irene.
«Cosa ci inventiamo, allora? vogliamo vedere se anche il suo cane sa essere utile?»
Irene non rispose subito.
Guardò Lara.
Poi, piano:
«Io potrei farmi massaggiare i piedi. Ma solo da chi lo fa con devozione. E tu… potresti mostrarmi come si educa un cane. Se hai voglia.»
Il tavolo era ormai solo una scenografia.
Le tre donne — Irene, Elise e Lara — si erano alzate e spostate in una delle stanze laterali, una zona riservata con tappeto spesso, poltrone basse in pelle rossa, e una chaise longue centrale.
Il marito di Lara seguiva, al guinzaglio, senza fiatare.
Indossava solo un jockstrap nero e una maschera in pelle liscia che lasciava liberi solo occhi e bocca.
«Chiedo solo una regola» disse Lara, sedendosi con grazia.
«Lui può toccare, ma non venire. Né parlare. A meno che non glielo chiediate voi.»
Irene si sedette sulla chaise longue, le gambe nude e allungate, i tacchi sottili ben piantati a terra.
Si tolse la giacca. Sotto, solo pelle, reggicalze e calze cucite.
«Allora inizia da qui. Voglio sentire se la sua lingua ha qualcosa da dire ai miei piedi.»
Elise stava in piedi. Appoggiata allo schienale, osservava con occhi accesi.
Lara sussurrò qualcosa al marito.
Lui si inginocchiò davanti a Irene.
Cominciò a baciarle il collo del piede. Poi a leccarlo. Lentamente. Come si beve qualcosa di sacro.
Irene chiuse gli occhi.
«Non male. Ma voglio che lo faccia anche a lei» disse indicando Elise.
Lara si voltò. «Vai.»
Il marito si spostò, sempre in ginocchio, fino a Elise.
Le leccò il dorso del piede, la caviglia, poi passò tra i talloni e le dita, la lingua più umida, più implorante.
Elise lo guardò.
Poi si chinò.
Gli infilò due dita in bocca.
«Adesso succhiale. Per me.»
Lui obbedì.
Lara intanto si era slacciata il bolero.
Sotto, nulla.
Il seno pieno, nudo, offerto senza richiesta.
Si sedette accanto a Irene.
«Vorrei che tu mi baciassi. Come baci chi vuoi spingere oltre.»
Irene si avvicinò.
Le prese il viso tra le mani. Le baciò le labbra. Poi più a fondo.
Il bacio si fece lento. Profondo.
Sulle gambe di Elise, la bocca del marito ancora al lavoro.
Irene si staccò.
Gli occhi lucidi. La voce roca.
«Bene. Ora voglio vederlo sdraiato. E voglio voi due sopra di lui. Ma per noi. Non per lui.»
Elise e Lara si alzarono insieme.
Si spogliarono completamente. Solo i simboli restarono.
Elise indossava ancora il collare sottile.
Lara teneva solo un cinturino al polso, come un ricordo.
Il marito si sdraiò.
Elise si sedette sul petto.
Lara sul bacino, senza toccarlo direttamente.
Irene si rimise al centro.
«E ora... fatelo vibrare. Ma guardate solo me.»
Irene si era lasciata andare sulla chaise longue, le gambe divaricate, le calze tirate su con cura.
La schiena leggermente arcuata, la mano che lentamente scendeva tra le cosce.
Non aveva fretta.
Due dita passarono tra le labbra della sua figa, già umida.
Le aprì con delicatezza, poi affondò dentro di sé, prima una sola, poi due.
Il suono era bagnato, profondo, eppure discreto.
La testa abbandonata all’indietro.
Un gemito basso. Uno di quelli che iniziano nel ventre e salgono alla gola come un respiro spezzato.
Lara la guardava.
In ginocchio. Fermo lo sguardo, lucidi gli occhi.
Il seno nudo che si sollevava a ritmo del suo respiro.
«Scavami con la bocca» sussurrò Irene.
«Voglio che tu mi porti via qualcosa che non riesco più a trattenere.»
Lara si chinò.
Con lentezza.
Sfiorò con le labbra l’interno della coscia, poi la piega del linguine, poi il monte di Venere.
Infine la figa.
Affondò con la lingua.
Iniziò a leccarla.
In cerchi, poi in traiettorie più profonde.
Le labbra si aprirono, la lingua cercava, saliva, spingeva.
A volte breve, altre più insistente.
Una carezza carnale e affondata.
Irene gemette. Forte.
«Sì, Lara… così…»
Le mani nei capelli.
Il corpo che si muoveva contro la bocca.
Elise, intanto, si era avvicinata al marito di Lara.
Era ancora sdraiato, occhi bassi. Il cazzo duro, dritto, pulsante, ma immobile.
Non osava toccarsi.
Elise gli salì sopra.
A gambe larghe. Nuda. Il collare al collo.
Si sedette sulla sua bocca.
«Usa la lingua. Per me. Solo per me.»
Lo disse piano, ma con autorità.
Lui obbedì subito.
Affondò la lingua nella sua figa, iniziando a leccarla con forza, come se la fame fosse dentro di lui.
Elise gemette.
Le mani sui seni, la schiena piegata all’indietro.
Il respiro lungo.
«Dio… così… più dentro…»
Il cazzo dell’uomo era rigido.
Veemente.
Ma ignorato.
Teso, utile, ma non libero.
Lara leccava Irene con passione crescente.
Tutta la bocca immersa. Tutta la lingua in movimento.
Irene tremava.
Scoppiava di piacere che saliva come un’ondata lenta e potente.
La lingua di Lara continuava a scavare Irene con un’intensità che sapeva di fame antica.
La sua bocca si muoveva tra le labbra gonfie, calde, umide.
Ogni leccata era un affondo, ogni risalita un brivido.
Irene gemeva con la testa abbandonata, le mani tese sul velluto, il corpo che si apriva sempre di più, fino a diventare suono.
Lara era in ginocchio, il culo alto, la figa esposta, pulsante, bagnata.
E proprio lì, appena sotto di lei, Elise stava godendo sulla bocca del marito sottomesso.
Le mani afferravano i seni, il bacino si muoveva in avanti e indietro, la lingua dell’uomo che la seguiva, la leccava, la adorava.
Il cazzo di lui duro, dimenticato, teso e ignorato.
Ma la bocca — attiva, devota, umile.
Elise abbassò lo sguardo.
E vide la figa di Lara, lucida, viva, tremante, a pochi centimetri dal suo viso.
Non resistette.
Si sporse in avanti, ancora in ginocchio sopra il marito,
e con due dita affondò dentro Lara, con un gesto sicuro, bagnato, preciso.
Nessuna esitazione.
Solo bisogno.
Le dita la penetrarono in profondità,
curvando all’interno con ritmo deciso.
Lara gemette, la lingua ancora sulla figa di Irene.
Non smise.
Nessuna si fermava.
Irene veniva.
Lara gemeva.
Elise affondava.
Il marito leccava.
Un cerchio carnale perfetto.
Tre donne, una bocca sottomessa.
Un’armonia umida, reale, che faceva vibrare le pareti della stanza.
L’aria era densa.
Il pavimento bagnato di desiderio.
I suoni erano gemiti, respiro, parole spezzate.
E lì, al centro, nessuna voleva smettere.
Le dita di Elise affondavano nella figa di Lara con un ritmo sempre più preciso, sempre più urgente.
Le labbra di Lara ancora strette sulla figa di Irene, il respiro che si spezzava contro il sesso bagnato.
Ogni volta che Elise premeva più a fondo, Lara gemeva dentro Irene,
e Irene tremava come se stesse venendo da dentro qualcun’altra.
Irene lo sentì salire.
Il ventre che si contraeva, le gambe che si tendevano, la bocca che si apriva senza suono.
Poi esplose.
Un orgasmo lungo, strozzato in gola, caldo.
Un grido spezzato e un singhiozzo misto di piacere e resa.
«Cazzo Sì… sì… Lara… continua… non fermarti… sì…»
Lara leccava più forte.
Più profonda.
Affamata.
Ma anche lei non riusciva più a trattenere.
Le dita di Elise si muovevano dentro di lei, veloci, bagnate, curve esatte che toccavano quel punto nascosto.
«Sto… sto…»
Lara non finì la frase.
Venne contro le dita di Elise, tutta bagnata, tutta viva, tutta scossa.
Il gemito si perse dentro Irene.
Le gambe che cedevano, le mani strette, la pelle arrossata.
Elise stava ancora sopra la bocca dell’uomo.
Le mani nei capelli.
Le cosce chiuse intorno al suo viso.
La lingua dentro di lei.
Decisa.
Affondata.
Il cazzo dell’uomo — teso, inutile, bellissimo nella sua condizione negata.
Elise si piegò in avanti.
Affondò il bacino contro la sua bocca.
Il collare che scivolava sulla clavicola.
Poi un suono.
«Sì… ora… diooooooo!»
E venne.
Un orgasmo caldo, denso, che le strappò un grido secco e roco.
Si lasciò cadere in avanti, tremando, con il petto che si muoveva contro la schiena del marito sottomesso.
Le dita ancora dentro Lara.
La bocca ancora bagnata di Irene.
Le mani ancora sulle cosce di Elise.
Tutte vennero.
Tutte rimasero.
Tutte si ascoltarono nel respiro.
Silenzio.
Sudore.
Pelle.
Il sottomesso non disse una parola.
Non ne aveva il diritto.
Ma il suo viso era bagnato di gratitudine.
L’aria nella stanza era densa, calda, impregnata di pelle, di saliva, di piacere.
I corpi erano ancora vicini, ma nessuno si muoveva.
Irene era stesa sulla chaise longue, il seno che si sollevava lentamente, la pelle umida, le cosce ancora lievemente divaricate, un filo di piacere che ancora le tremava sotto l’ombelico.
Lara era accovacciata accanto a lei, la testa appoggiata alla coscia, le labbra semiaperte, il volto tra il soddisfatto e il vulnerabile. Le dita di Elise le erano scivolate via lentamente. Senza parole.
Elise si era inginocchiata sul pavimento, il petto nudo, i capelli sparsi sulle spalle, il collare umido.
Il marito sottomesso era sotto di lei, ancora in silenzio, lo sguardo vuoto e calmo.
Il cazzo duro, gonfio e dimenticato.
Nessuna di loro lo aveva sfiorato.
Elise si voltò verso Irene.
Sorrise.
«Abbiamo fatto l’amore… senza neanche toccarci tutte tra noi.»
Irene la guardò, con la voce roca.
«Ma ci siamo prese tutto. Tutte.»
Lara si sollevò un poco.
Le dita che toccavano appena il ginocchio di Irene.
«Siete più pericolose di quanto pensassi.»
Elise rise piano.
«Solo se ti affezioni.»
Il sottomesso restava in ginocchio.
Il fiato corto.
Le mani sulle cosce.
Il cazzo in evidenza, dimenticato.
Lara si voltò verso di lui.
«Bravo cane. Ma adesso resta lì. Abbiamo una pizza in sospeso, noi tre.»
Irene si alzò lentamente.
Nuda. Solo i tacchi ancora ai piedi.
Raggiunse Elise.
Le sollevò il viso con due dita sotto il mento.
«Stasera torni con noi. Senza collare. Solo con la tua fame.»
Viola e Chiara le avrebbero raggiunte a breve.
E la notte, ancora, non era finita.
Continua...
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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