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Il dolore di Anna Cap. 1


02.05.2025 |
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"L’odore di caffè tostato e zucchero mi accoglieva ogni mattina al Bar Aurora, un angolo di calore in una Udine grigia e frenetica..."
L’odore di caffè tostato e zucchero mi accoglieva ogni mattina al Bar Aurora, un angolo di calore in una Udine grigia e frenetica. Io sono Anna, 49 anni, segretaria in un’azienda di logistica, una donna che a prima vista sembrava ordinaria: alta 1,62 m, magra, con un corpo ancora tonico nonostante l’età, una quinta di seno che attirava sguardi indiscreti, capelli biondi corti che incorniciavano un viso dai lineamenti delicati, occhi azzurri che nascondevano un desiderio inconfessabile. Ero la mamma di Sofia, 22 anni, una figlia viziata che viveva per i suoi capricci, ma il mio mondo, quello vero, era altrove: un’ossessione per il dolore, un bisogno di essere punita, un amore incondizionato per le donne che mi consumava in segreto.Al Bar Aurora, ogni mattina, incontravo Carla. Aveva 44 anni, cinque anni meno di me, ma sembrava più grande, non per l’età, ma per la presenza: alta 1,75 m, corporatura robusta, spalle larghe, braccia muscolose, un seno pieno che tendeva le camicie, capelli neri raccolti in una coda severa, occhi castani che ti scavavano l’anima. Lavorava dietro il bancone, servendo caffè con un sorriso che era insieme dolce e pericoloso, un misto di calore e dominio che mi faceva tremare ogni volta che mi guardava. Indossava sempre jeans stretti e magliette aderenti, un grembiule nero che le scivolava sui fianchi, e il suo profumo – un misto di vaniglia e cuoio – mi seguiva per tutto il giorno.
All’inizio era solo un gioco di sguardi. Entravo, ordinavo un espresso, e Carla mi serviva, le dita che sfioravano le mie quando mi passava la tazza, un contatto che mi faceva arrossire. “Buongiorno, Anna, sempre impeccabile,” diceva, la voce bassa, e io, con la mia gonna a tubino grigia e la camicetta bianca, abbassavo gli occhi, il cuore che martellava. Col tempo, le sue parole si fecero più audaci. “Quei tacchi ti fanno un culo da urlo,” sussurrò una mattina, mentre mi porgeva il caffè, e io, rossa in viso, risi nervosa, la fica che si bagnava sotto il perizoma. Ogni pomeriggio, tornando dall’ufficio, passavo di nuovo, e Carla trovava il modo di provocarmi: “Scommetto che sotto quella camicetta c’è un seno che implora di essere liberato,” disse una volta, e io, incapace di rispondere, sentivo il clitoride pulsare, il desiderio che mi consumava.
La svolta arrivò un sabato sera, alla chiusura del bar. Ero l’ultima cliente, il locale deserto, l’odore di caffè e disinfettante nell’aria. Carla, pulendo il bancone, mi chiese di restare. “Aspetta, ti offro un amaro,” disse, e io, con il cuore in gola, accettai. Chiuse la porta, abbassò le serrande, e si avvicinò, il grembiule tolto, la maglietta che le modellava il seno. “Sai, Anna, ti guardo da mesi,” disse, la voce roca, fermandosi a un centimetro da me. “E so cosa vuoi.” Prima che potessi rispondere, mi baciò, le labbra morbide ma decise, la lingua che esplorava la mia bocca, un sapore di menta e tequila che mi fece gemere. Mi spinse contro il bancone, le mani sui miei fianchi, e io, persa, ricambiai, la fica fradicia, il desiderio che esplodeva.
Da quel giorno, Carla mi conquistò con una danza di provocazioni. Mi mandava messaggi la sera, racconti crudi di cosa avrebbe voluto farmi: “Immagino di legarti, Anna, di farti urlare di dolore e piacere.” Mi inviava video di lei che pisciava, il suono che echeggiava nel bagno, la fica depilata che brillava, e io, sola nel mio letto, mi masturbavo, il clitoride che pulsava, il dolore che desideravo sempre più forte. Al bar, ogni caffè era un gioco: “Stanotte ho pensato a te, nuda, in ginocchio,” sussurrava, e io, tremante, annuivo, incapace di resistere. Dopo settimane, cedetti. “Vieni a casa mia,” mi scrisse una sera, e io, con la fica che pulsava, accettai, sapendo che non sarei più stata la stessa.
La casa di Carla era in un vicolo tranquillo, una villetta a due piani avvolta dal buio. Entrai, il cuore che martellava, l’odore di cera e cuoio che mi accolse. L’interno era in penombra, illuminato solo da candele rosse che tremolavano, gettando ombre sulle pareti, un’atmosfera che mi fece rabbrividire. Carla mi aspettava, trasformata. Indossava un completo da dominatrice in pelle rossa: un corsetto che le stringeva la vita, esaltando il seno, mutande di pelle che modellavano la fica, stivali al ginocchio con tacchi a spillo, guanti lunghi che le coprivano le braccia. In mano, un frustino, e nei suoi occhi, un fuoco che prometteva dolore e piacere. “Benvenuta, Anna,” disse, la voce bassa, e mi mise un collare di pelle nera attorno al collo, il metallo freddo che mi fece tremare, il gancio che tintinnava, un simbolo della mia sottomissione. “La tua safe word è ROSSO,” aggiunse, e io annuii, la fica già bagnata, il desiderio che mi consumava.
Mi guidò in una stanza al piano superiore, il pavimento di legno che scricchiolava, l’odore di cera più intenso. Al centro, un letto grande con lenzuola nere, catene che pendevano dai montanti, candele rosse che illuminavano lo spazio, un tavolo con ortaggi – zucchine, carote, una melanzana – che mi fece rabbrividire. “Spogliati,” ordinò Carla, e io, tremante, tolsi la gonna a tubino, la camicetta, il reggiseno, il perizoma, restando nuda, la quinta di seno che si alzava a ogni respiro, i capezzoli duri, la fica depilata che gocciolava. Carla mi osservò, il frustino che accarezzava il mio fianco. “Sei pronta a essere punita,” disse, e io, con la voce che tremava, risposi: “Sì, Mistress.”
Mi fece sdraiare sul letto, le mani legate sopra la testa con corde di seta, le gambe aperte, la fica esposta. “Iniziamo con la tua fica,” disse, prendendo una zucchina, lubrificandola con gel, l’odore chimico che si mescolava al muschio. La infilò, lenta, la fica che si allargava, un dolore che si trasformava in piacere, il clitoride che pulsava. Passò a una carota più grande, poi a una melanzana, il diametro che mi spaccava, il dolore che mi faceva gemere, la fica che bruciava, un misto di agonia e godimento. “Cazzo, Mistress, fa male!” gridai, e le lacrime mi rigarono il viso, il corpo che tremava, la melanzana che mi devastava, la fica che si contraeva, un orgasmo che montava ma non esplodeva. Carla, implacabile, continuò, spingendo fino a che non urlai, il dolore che mi spezzava, le lacrime che cadevano copiose.
“Hai pianto,” disse Carla, il tono severo, il frustino in mano. “Devi essere punita.” Mi slegò le mani, facendomi mettere a quattro zampe, la fica dolorante che gocciolava, il clitoride gonfio che implorava. Prese il frustino e colpì, il primo colpo sul clitoride che mi fece urlare, un dolore lancinante che mi attraversò, le lacrime che scorrevano. “Uno!” contai, la voce rotta, e Carla colpì ancora, ogni frustata più forte, il clitoride che bruciava, un dolore che mi devastava. Urlavo a ogni colpo, il corpo che tremava, ma più urlavo, più Carla tirava forte, il frustino che mordeva la carne, il clitoride che perdeva sensibilità, solo un’agonia che mi consumava. Provai a trattenermi, a mordermi il labbro, ma le lacrime cadevano, venti frustate che mi lasciarono distrutta, il clitoride un nodo di dolore, la fica che pulsava, un misto di sofferenza e desiderio.
“Ora il tuo seno,” disse Carla, legandomi il seno con una corda di pelle, stringendo fino a che non divenne viola, i capezzoli duri che sporgevano, un dolore che mi fece gemere. Prese una canna di bambù, sottile e flessibile, e colpì, il primo colpo sul capezzolo destro che mi fece urlare, un dolore lancinante che mi attraversò, le lacrime che scorrevano. “Conta!” ordinò, e io, singhiozzando, contai: “Uno!” Ogni verga era un’agonia, i capezzoli che bruciavano, la carne che si lacerava, un rivolo di sangue che colava da entrambi i capezzoli, il dolore che mi spezzava. Provai a trattenermi, a soffocare i singhiozzi, ma le vergate erano troppo forti, il sangue che gocciolava, il seno che pulsava, un’agonia che mi consumava. Carla, soddisfatta, si chinò, leccando i capezzoli, il sapore metallico del sangue sulla sua lingua, poi li baciò, un gesto che era insieme crudele e dolce, il suo sorriso che mi marchiava. “Brava, mia slave,” sussurrò, e io, devastata, singhiozzai, il corpo che tremava.
Ero distrutta: la fica, dilatata dalla melanzana, mi faceva male come se avessi partorito, il clitoride un nodo di dolore senza sensibilità, i capezzoli che bruciavano, il sangue che colava, il seno viola che pulsava. Carla, non ancora sazia, prese mezzo limone dal frigo, l’odore acre che mi fece rabbrividire. “Per disinfettare,” disse, e lo passò sulle ferite dei capezzoli, il bruciore che mi fece urlare, un dolore che mi esplodeva nel petto, le lacrime che scorrevano, il corpo che si inarcava. Poi lo strofinò sulla fica, il succo acido che bruciava il clitoride e le grandi labbra, un’agonia che mi fece gridare, la fica che sembrava esplodere, il dolore che mi consumava, le lacrime che cadevano copiose.
Carla si tolse le mutande di pelle, la fica depilata che brillava, l’odore muschiato che saturava l’aria. Salì sul letto, posizionandosi sulla mia faccia, le cosce robuste che mi avvolgevano. “Leccami il culo,” ordinò, e io, tremante, obbedii, la lingua che esplorava il buco stretto, il sapore muschiato che mi riempiva, i gemiti di Carla che echeggiavano. Poi si spostò, la fica sulla mia bocca, il clitoride gonfio che pulsava. “Lecca,” ordinò, e io, persa, leccai, la lingua che scivolava sulle grandi labbra, il sapore dolce e salato che mi consumava, il clitoride che succhiavo, i gemiti di Carla che si trasformavano in urla. Per oltre venti minuti, mi usò, cavalcando il mio viso, il suo piacere che montava, fino a un orgasmo violento, uno squirt che mi inondava la bocca, schizzi caldi che mi colavano sul mento, il suo urlo che echeggiava, il corpo che vibrava.
“Apri la bocca,” ordinò, e io, tremante, obbedii. Mi pisciò dentro, il getto caldo e salato che mi riempiva, l’odore acre che mi travolgeva. “Bevi,” disse, e io, singhiozzando, ingoiai, il sapore che mi marchiava, il corpo che tremava, l’umiliazione che si mescolava al desiderio. Poi si chinò, baciandomi dolcemente sulle labbra, la lingua che esplorava la mia bocca, il sapore di piscio e squirt che ci univa. “Sei stata brava, Anna,” sussurrò, slegandomi il seno, la corda che cadeva, il sangue che tornava a fluire, un dolore che mi fece gemere. Mi porse un accappatoio pulito, indicandomi il bagno. “Ripulisciti,” disse, e io, dolorante, mi alzai, ogni passo un’agonia, la fica che bruciava, il clitoride distrutto, i capezzoli che pulsavano, il sangue che colava.
Nel bagno, mi lavai, l’acqua fredda che leniva appena il dolore, il corpo che tremava, le lacrime che cadevano. Mi rivestii, la gonna e la camicetta che sfioravano le ferite, ogni movimento un tormento. Carla mi aspettava sulla porta, il completo di pelle rossa ancora indosso, il sorriso che era insieme dolce e crudele. Mi baciò di nuovo, le labbra morbide che mi accarezzavano, un gesto che mi fece tremare. “Ora che torni a casa, se vuoi puoi toccarti,” disse, la voce bassa. “Ci vediamo presto.” Chiusi la porta, il corpo devastato, la mente persa, un desiderio che non si sarebbe mai spento.
(dedicato ad Anna ed alla sua avventura reale)
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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