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Il paese dove i maschi non picchiano le donne e non disprezzano i trans


di amoreandrogino
08.07.2015    |    8.695    |    0 6.2
"Già dai primi anni della sua infanzia si sentiva una bambina e non un maschietto e, a dodici anni, si era innamorata di un suo compagno di scuola con cui..."
C’era una volta, tanto tempo fa, uno strano Paese (forse esiste ancora!) dove la famiglia tradizionale era al centro di tutto. Il senso comunità era molto sviluppato, non solo nei piccoli villaggi ma anche nei grandi agglomerati urbani, dove i condomini avevano preso il posto della piazza del paese. Tutti i cittadini si aiutavano tra loro e si volevano bene, tanto che avevano messo sulla bandiera nazionale la scritta: “Tengo famiglia”.
In quel palazzone di periferia, dove si svolge la nostra storia, si conoscevano tutti: famiglie che vivevano lì da tanti anni, con le donne che si fermavano a parlottare sui ballatoi e i mariti che s’incontravano al bar la domenica mattina per discutere animatamente di sport, litigando un po’, ma trovando subito l’accordo quando passava per strada una ragazza formosa e tutti facevano lo stesso commento.
Era un condominio tranquillo e silenzioso: solo il sabato sera, dopo la mezzanotte, c’era un po’ di trambusto al terzo piano, dove abitava una famiglia immigrata dal sud con una figlia di sedici anni che tornava a casa troppo tardi e il padre, che l’aspettava in piedi, gliele suonava di santa ragione. Urla, imprecazioni, botte, ma durava tutto non più di cinque minuti perché poi si sentivano solo i singhiozzi della figlia che si chiudeva nella sua stanza e, alla fine, si addormentava. Qualche volta, il giorno dopo, la ragazza aveva dei segni sul volto e dei lividi sulle braccia, ma quelli del palazzo erano molto comprensivi e giustificavano sia lei, che era tanto giovane e aveva diritto di svagarsi un po’ il sabato sera, sia il padre che, poverino, lavorava tutta la settimana e lo faceva solo per il suo bene.
In quello strano Paese, del resto, c’era ancora una concezione “proprietaria” della donna, anche se si andava diffondendo una mentalità più moderna che riconosceva un certo valore, se non umano almeno economico alle donne, soprattutto alle più giovani: per averne “la disponibilità”, si dovevano comprare o dovevano essere aiutate a entrare nel mondo dello spettacolo. E quasi tutti ammiravano i ricchi che ne potevano diventare gli utilizzatori finali e, sotto sotto, ammiravano anche le ragazze che guadagnavano tanti soldi in una sola serata. Si trattava, certamente di un retaggio maschilista, ma in quel Paese nessuno ci faceva caso perché era sessista anche la lingua ufficiale: l’uomo non sposato è definito “celibe” (che significa, etimologicamente, felice!) e viene normalmente chiamato “scapolo”, che significa “senza cappio”, mentre per la donna si usa ufficialmente il termine “nubile” (dal latino nubenda, cioè che si deve sposare!) ma tanti dicono ancora “zitella”, come dispregiativo.
In quel condominio, però, non avevano una mentalità così gretta e tenevano in gran considerazione le donne. Al secondo piano abitava un’arzilla pensionata che era proprio una gran signora e, anche se non era stata sposata, nessuno si sarebbe sognato di chiamarla zitella: la chiamavano semplicemente “signorina” sebbene avesse quasi ottant’anni, ma certo lei non poteva pretendere che la chiamassero signora, visto che non aveva trovato uno straccio di marito che le avesse accordato lo status sociale di “signora”. Forse questa era un’usanza d’altri tempi, ma in quel palazzo ci abitavano soprattutto persone anziane, anche se c’era stato un certo ricambio perché, pur essendo in un quartiere semicentrale, gli affitti erano ancora accessibili. Quando si liberava un appartamento, arrivavano subito altri inquilini con cui i vecchi condomini facevano immediatamente amicizia: non erano solo rapporti di buon vicinato, ma di vera solidarietà.
Solo con quei due studenti di medicina, maschio e femmina, che avevano preso in affitto l’appartamento al primo piano non avevano voluto fare amicizia perché erano due tipi molto strani e non si capiva bene se fosse una coppia regolare o qualcos’altro, visto che la sera non uscivano mai insieme. E poi, la cosa più inaccettabile era che, dopo un anno, era andata ad abitare con loro un’altra ragazza perfino più strana e qualcuno mormorava che si trattasse di un maschio perché aveva il pomo d’Adamo che si poteva vedere anche se lo copriva con una fascetta di seta al collo.
In effetti, non si sbagliavano, perché quella ragazza era una transgender che era stata cacciata da casa dal padre a sedici anni e, prima di essere assunta in un negozio di parrucchiere unisex, aveva avuto le più brutte esperienze, compresa la prostituzione. Già dai primi anni della sua infanzia si sentiva una bambina e non un maschietto e, a dodici anni, si era innamorata di un suo compagno di scuola con cui studiava insieme. Una volta che era andato a trovarlo e lui non era in casa, il fratello maggiore l’aveva violentata e lei non aveva potuto opporsi perché altrimenti tutti avrebbero saputo che non era un ragazzo normale, come si pensava, a parte sua madre che forse aveva intuito la sua diversità.
Suo padre non si era accorto di nulla: faceva il camionista ed era sempre fuori di casa e, quando rientrava stanco dal lavoro, si ubriacava e picchiava la moglie senza motivo. Quando però capì che suo figlio era “ricchione” la cacciò da casa a botte, senza che sua madre potesse far nulla. Seguirono cinque anni d’inferno, lontana dal suo paese, adescata e sfruttata da un uomo che, dicendole di amarla, l’aveva spinta sul marciapiede e la picchiava se non guadagnava abbastanza dopo essere stata a lavorare per tutta la notte. Poi un tentativo di suicidio e durante la degenza in ospedale si era confidata, per caso, con il titolare di quel negozio di parrucchiere, un omosessuale quarantenne che l’aveva assunta come shampista, senza chiederle nulla in cambio, e ora l’aveva presa a ben volere le stava insegnando a fare le acconciature.
In ospedale aveva conosciuto anche quella giovane studentessa iscritta alla facoltà di medicina che faceva pratica clinica come volontaria perché, subito dopo la laurea, se ne voleva andare in un paese del terzo mondo a curare i bambini. Le era sembrata come una sorella e si era meravigliata che non l’avesse giudicata male: «Figurati!» le aveva detto lei, «io abito insieme con un mio collega universitario omosessuale ed è uno dei pochi uomini con cui potrei condividere lo stesso appartamento, se non altro perché fa pipì seduto e non sporca il bordo del water come quasi tutti i maschi!»
In quello stano Paese, infatti, ai ragazzi viene insegnato, fin da piccoli, che le bambine non ce l’hanno perché glielo ha mangiato il gatto e che la loro virilità di maschietti si dimostra orinando in piedi, aggiungendo anche che la virilità consiste nel non farsi mai toccare il culo, nemmeno dal medico che, quando avranno cinquant’anni, gli dovrà controllare la prostata.
Dopo alcune confidenze, la studentessa venne a sapere che, una volta dimessa dall’ospedale, quella transgender non avrebbe saputo dove andare e le aveva proposto di ospitarla: «Nell’appartamento dove abito con il mio collega abbiamo una stanzetta libera; c’entra a malapena un letto e un tavolino ma, se vuoi, puoi venire a stare con noi finché non trovi un altro posto.»
E così quella ragazza indifesa aveva trovato una casa, non solo un alloggio, e aveva deciso di restare con loro contribuendo alle spese: era proprio una bella convivenza anche se non poteva essere definita una famiglia sebbene i tre ragazzi condividessero non solo la spesa dell’affitto e delle bollette, ma anche i problemi, le speranze e, molto spesso, le stesse emozioni. E condividevano anche i trucchi, gli ombretti e il mascara che si scambiavano senza chiedersi chi li avesse comprati. Sì, perché l’altro studente che abitava in quella casa aveva cominciato timidamente a truccarsi gli occhi quando usciva la sera per andare in discoteca, e poi aveva cominciato a mettere un po’ di fard, liberando così la sua inclinazione che aveva compresso per tanto tempo. Quando viveva al suo paese, aveva dovuto nascondere la sua omosessualità non solo in famiglia, ma anche con i suoi coetanei che, se avessero saputo, lo avrebbero evitato come un appestato. Figlio di un brillante avvocato “di sinistra”, aveva dovuto vivere la sua diversità di nascosto, sempre con la paura che i genitori scoprissero la sua perversione, e quindi aveva colto l’occasione di potersi iscrivere alla facoltà Medicina in una Università lontana dalla sua città di provincia per sentirsi libero di fare la sua vita: non era stato cacciato da casa, ma se n’era dovuto andare, che è quasi lo stesso, a parte i problemi economici.
In quel Paese omofobo dove, quando qualcuno si sposa si dice “auguri e figli maschi” e poi, se nasce una bella femminuccia si commenta che è stata una notte sprecata, avere un figlio omosessuale è il massimo della vergogna, un disonore, peggio di un figlio disabile!
È chiaro che tre persone così erano troppo anomale in un condominio di persone per bene che mettevano al primo posto la famiglia: la persona più stimata in quel palazzo era la vecchia ex-portiera che era stata abbandonata dal marito e aveva cresciuto due figli, da sola, faticando come una ciuccia non solo per tenere sempre in ordine le scale, ma facendo anche le pulizie nelle case di alcuni condomini e lavorando di notte per fare piccoli lavoretti di sartoria. Una donna veramente ammirabile che, quando dopo dieci anni il marito era tornato, oramai vecchio e malato, aveva avuto la forza di accoglierlo in casa per rispettare il sacro vincolo del matrimonio!
Gente alla buona, in quel condominio, che andava a messa la domenica e faceva amicizia con tutti, anche con i negri e con gli ebrei, ed era intollerante solo verso i musulmani che chiudono in casa le loro donne e non fanno andare a scuola le figlie. Gente per bene che, alla fine, aveva accettato anche quei tre ragazzi del primo piano, ovviamente senza mostrare molta simpatia e sperando che se ne sarebbero andati via al più presto dal loro palazzo. Gente alla buona che, quando avvenne la disgrazia, era rimasta sinceramente sconvolta dalla morte di quel giovane studente che, in fondo, non faceva male a nessuno.
Era stata proprio una disgrazia improvvisa: quel ragazzo aveva poco più di vent’anni e anche se era un po’ strano, non era giusto che lo aggredissero all’uscita della discoteca e lo ammazzassero come un cane solo perché si stava baciando con un altro uomo. “Era un bravo ragazzo, educato e rispettoso, anche se era com’era”, fu il commento di tutti al microfono delle televisioni locali andate a intervistare i vicini di casa.
Solo le due ragazze che vivevano con lui restarono chiuse in casa e non vollero parlare con i giornalisti.
I funerali si fecero con qualche giorno di ritardo perché era stata disposta l’autopsia per accertare se la vittima avesse assunto droghe. «Ma perché questi controlli?» disse la studentessa all’amica trans che continuava a piangere. «Se anche avesse preso qualcosa, che differenza c’era? Se si dovessero uccidere tutti quelli che sniffano, quanti attori, cantanti, dirigenti d’azienda e uomini politici resterebbero in vita?».
«Io ho paura» aggiunse, «tanta paura!»
«Anch’io ho paura!» disse la trans, «ma tu sei normale, di che cosa puoi avere paura? A te non ti aggrediscono!».
«Non ho paura per me, ma perché la gente parla di una disgrazia, come se fosse stato un incidente stradale e non un omicidio. Ho paura di vivere in questo paese!».
Si guardarono in silenzio con gli occhi arrossati e poi la studentessa disse: «Non credo che aspetterò di prendere la laurea; voglio partire, andarmene dove possono avere bisogno di me, anche se sono solo una donna e non sono nemmeno dottoressa!».
E andarono via da quella casa lasciando libero l’appartamento del primo piano, con grande soddisfazione di tutti i condomini: una si trasferì in un altro quartiere apparentemente più sicuro e l’altra andò a vivere in un paese del terzo mondo per assistere i bambini malati.
Dopo un mese tutto era stato dimenticato ed erano arrivati due nuovi inquilini. Certo, nessuno lo voleva ammettere apertamente, ma l’arrivo di quella coppietta nell’appartamento del primo piano aveva tranquillizzato tutti, e in special modo quella cara vecchietta del piano terra che non faceva più la portiera da quando avevano abolito il portierato affidando la pulizia delle scale a una cooperativa, ma che teneva sempre la porta d’ingresso accostata e salutava (controllava?) tutti quelli che si fermavano davanti all’ascensore.
Ora, al primo piano, ci abitava proprio una bella coppietta senza grilli per la testa: lui lavorava in uno stabilimento nella zona industriale, uscendo da casa la mattina presto, e lei faceva la cassiera al Supermercato che stava a due passi e dove quasi tutti i condomini andavano a fare la spesa. Non si sapeva se erano sposati in Chiesa, ma cosa importa: erano giovani e senza figli, due persone modeste ma veramente per bene. Quando lui rientrava la sera trovava sempre il piatto pronto perché lei aveva scelto il turno 8,30/17 e, solo una volta al mese si doveva fermare a lavorare di domenica, ma questo non le dava nessun problema perché il suo compagno passava tutte le domeniche mattina al bar a discutere delle partite dell’anticipo e di quelle che ci sarebbero state il pomeriggio. La domenica sera se ne andavano in giro con il SUV che avevano comprato a rate e si fermavano da qualche parte a mangiare una pizza; del resto lavoravano per tutta la settimana, anche il sabato e potevano stare insieme solo la sera, davanti alla televisione prima di andare a letto, dove facevano quasi sempre l’amore perché lui non aveva altre occasioni fuori dal recinto domestico ed era giusto che si scaricasse, in pochi minuti, prima di prendere sonno.
Una coppietta tranquilla e, soprattutto “normale”. Talvolta litigavano per stronzate, come tutte le coppie, ma lui non alzava quasi mai le mani e la picchiava solo una o due volte al mese.
Persone per bene, in un Paese un po’ strano dove i maschi si sentono proprietari delle loro donne, ma non le picchiano ogni giorno: secondo le statistiche ne uccidono solo due o tre ogni settimana, se alzano un po’ troppo la testa.
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