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Diario Kellnerin Marzo 2009

16.03.2025 |
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"Era una fortuna che nel buio pesto dell’automobile, parcheggiata vicino alla discarica, il cuoco non si fosse nemmeno reso conto, di quanto quel povero sedere fosse ancora rigonfio di chiazze nere..."
Quarantunesimo episodioHélène attendeva l’autobus alla fermata con il viso rivolto in basso, non osava nemmeno guardare le macchine che le passavano davanti; si era rivestita e rassettata nel piccolo studio, seguita dallo sguardo accigliato e severo del proprio datore di lavoro; e solamente adesso, mentre aspettava in piedi in silenzio alla fermata, la ragazzotta belga realizzava fino in fondo ciò che le era appena accaduto: il signor Mariano gliele aveva date, l’aveva punita come si fa con le bambine, battendole il sedere con una dura paletta di legno, fino a farglielo diventare tutto rosso e gonfio.
E adesso Hélène se lo poteva sentire per bene, per quanto era gonfio, quel sederone tutto chiuso e impacchettato dentro alle sue ridicole e spesse calze contenitive. Era caldo quasi da scoppiare, e con ottima probabilità, era anche tutto quanto pieno di macchie nere e di bozzi.
Era oramai da cinque anni che Hélène non le prendeva, ma per la prima volta nella sua vita, a punirla non era stato né un suo genitore, né un suo stretto e congiunto parente.
Per tale ragione, Hélène si sentiva adesso tremendamente confusa: non capiva fino a che punto avrebbe dovuto vergognarsi per quanto le era accaduto, era stata veramente umiliata come una stupida bambina, o se piuttosto avesse dovuto considerare quella punizione come un bene necessario, come un castigo dovuto e riparatore.
Quando infine salì sull’autobus, che era quasi tutto vuoto per lei, nemmeno ebbe l’istinto di sedersi, per quanto le faceva ancora male.
Giunse a casa che era mezzogiorno suonato, e vi ritrovò Chiara in cucina, che se ne stava seduta a curarsi le unghie; s’era alzata molto tardi, mentre Paula era uscita in giro per negozi, dalle parti della vicina via Nazionale.
Hélène ovviamente non disse né lasciò trasparire nulla della sua condizione, ma dopo alcuni istanti, fece finalmente rientro nella sua cameretta: lì lentamente iniziò a sfilarsi di dosso le sue calze. Era preoccupata dal disastro che avrebbe colto nel suo aspetto, e trasalì quando finalmente volse le terga verso lo specchio del bagno, con la gonna tutta sollevata e le mutandine abbassate; il signor Mariano l’aveva ridotta davvero molto male, e come Hélène temeva, alcune parti dei suoi glutei avevano assunto adesso un orribile colore violaceo, apparivano come tumefatte.
Iniziò a singhiozzare tristemente nella sua solitudine, ed a vergognarsi profondamente di sé stessa: era stata talmente stupida, da provare addirittura un inopinato senso di piacere, mentre veniva battuta; ma adesso, di fronte alla vista di quel culone così brutalmente gonfio e malridotto, provava un sentimento incredibile di pena e di afflizione.
L’unico modo per alleviare il bruciore era quello di lasciare le natiche libere, senza mutandine e senza calze indosso. Prelevò dal cassetto il delicato slippino color carne, e si rimirò nuovamente dentro lo specchio, con infinita vergogna e totale disagio. Poi indossò le sue solite calze autoreggenti, come era del resto strettamente necessario; le erano infatti tornate alla mente le disposizioni datele dal proprio datore di lavoro, di tenere sempre le cosce nude sotto alla gonna, quando era impegnata dentro il locale.
Bastò ricordarlo e connettere così tutti quanti i suoi pensieri, per farla scivolare nell’angoscia più buia e profonda: quella punizione sarebbe infatti andata avanti. Il signor Mariano l’avrebbe controllata e tenuta costantemente sotto pressione, fino alle paventate nuove botte che già egli le aveva promesso, per la domenica successiva.
Si presentò al lavoro che ancora camminava a fatica, con le natiche sudate coperte unicamente dal tessuto delicato della gonna; il proprietario quella sera era lì, ed era stranamente ed interamente concentrato su di lei. La signora Nadia, per parte sua dovette pensare, che quegli lo facesse unicamente per poterla controllare dopo il pasticcio combinato la volta precedente; ma in realtà, la sua vera intenzione era quella di osservarla e di continuare ad umiliarla, ricordandole in questo modo la maniera forte in cui egli l’aveva punita la mattina stessa.
Hélène si muoveva a fatica tra i tavoli, con le natiche che continuavano a brulicarle di caldo sotto alla gonna; e quando a metà serata si chiuse in bagno per fare la pipì, non poté risparmiarsi nuovamente la vista sgradevole, di quel didietro così gonfio e deforme, una vergogna indicibile.
In cucina era ritornato Ivan, il cuoco romeno maggiormente esperto; avrebbe ripreso a lavorare al posto di Adrian, la cui assenza si notava non poco. Come se non bastasse, tutte quante le cameriere adesso guardavano Hélène con molto distacco, trattandola con un certo palese disprezzo: immaginavano che lei fosse stata complice del furto compiuto la sera precedente, e si domandavano come mai fosse ancora lì al suo posto, a lavorare insieme con loro.
Quella sera, Hélène prese per la prima volta ad anelare fortemente, di lasciare Roma e l’Italia; disprezzata e derisa da tutti, senza un fidanzato che nemmeno la corteggiasse, e adesso per giunta punita e umiliata con il castigo.
Passarono le sere successive a studiare Diritto Canonico insieme con Chiara, con scarsissima concentrazione ed evidenti difficoltà; la biondina non faceva null’altro che distrarsi, mentre Hélène continuava a provare un discreto dolore su tutto quanto il didietro: quei bruttissimi lividacci viola, non ne volevano proprio sapere di venire via.
Paula se ne stava sempre più tempo per conto suo, chiusa in un atteggiamento introverso e misterioso; da qualche tempo s’era barricata dentro ad un suo mutismo strano e indecifrabile, del tutto inaspettato per una ragazza dal carattere allegro e solare come il suo.
Il mercoledì mattina i segni viola che Hélène aveva sul sedere, erano divenuti completamente neri; la ragazzotta belga volle indossare nuovamente un casto paio di mutande normali. Ma non poté fare a meno di adoperare, per una volta ancora, le proprie calze autoreggenti scure: temeva che il proprietario del locale potesse arrivare fino al punto di controllarla, così come aveva minacciato.
La signora Nadia era sempre estremamente rigorosa e severa nei suoi confronti, era evidente come la sopportasse a malapena, e come la disprezzasse in maniera irreparabile.
Nel frattempo, Hélène venne a sapere qualcosa in più sul conto di Adrian e del suo amico Jan: fu il cuoco Gheorghe a confidarle che i due erano ancora a piede libero, dopo un giorno intero trascorso in questura; sarebbero stati sentiti dal giudice assieme al signor Mariano ed alla moglie Nadia, la mattina stessa dell’indomani. Il cuoco aggiunse di esserne profondamente dispiaciuto, ma di temere che realmente essi avessero potuto architettare, tutto quanto quello sgangherato fattaccio assieme.
Un messaggio di Adrian raggiunse non senza sorpresa, il telefono di Hélène esattamente quella sera; era la prima volta in assoluto in cui quegli le scriveva, e lo fece in modo davvero irrispettoso e sgarbato: “Te la sei scampata solo perché l’hai data al proprietario … troia che non sei altro”.
La situazione si stava facendo insopportabile, e Hélène temeva sempre di più per sé stessa; finalmente all’indomani venne confermata dalla signora Nadia a tutte quante le cameriere del locale, la notizia dell’arresto del cuoco romeno e del suo compare. Hélène era innocente, nemmeno il giudice aveva rivelato nulla di sospetto, nel modo in cui ella aveva accompagnato uno dei due colpevoli, presso il bancone con la cassa; un nuovo messaggio scriteriato di Adrian, accusava invece Hélène di avere testimoniato il falso contro di lui, pur di incastrare lui e l’altro suo amico.
Hélène era preoccupata, e volle pertanto aprirsi e confidare ancora una volta, tutti quanti i suoi problemi e tutte le sue paure a Chiara, la mattina tarda del sabato. Lo fece ancora una volta mentre Paula era uscita, rivelando alla sua coinquilina bionda tutta la torbida vicenda del furto, e le minacce ricevute; omettendo però chiaramente, il triste epilogo della domenica mattina e le botte prese.
E già l’indomani lo strazio si sarebbe ripetuto. Hélène non aveva mai smesso di pensarci, e in ogni minuto che passava, sentiva di nuovo montare la sua angoscia; quel piccolo ufficio, quella scrivania, la paletta di legno: tutto era così nitido e minaccioso. Mentre si apprestava ad andare al lavoro il sabato sera, Hélène prese a rimuginare e a temere, per ciò che le sarebbe accaduto la mattina dopo.
Il signor Mariano non c’era, e per tutto quanto il tempo la ragazzotta belga fu visibilmente scossa ed agitata: la mancanza di sue disposizioni per la mattina dell’indomani la abbandonava in un profondo stato di incertezza. Avrebbe dovuto presentarsi puntuale alle dieci, così come lui le aveva precedentemente ordinato, o sarebbe stata dispensata da quella nuova lezione? Andava avanti e indietro tra i tavoli e la cucina, e riviveva con amarezza l’epilogo di tutta quanta la sua storia con Adrian, e poi il furto combinato solamente una settimana addietro.
Fu una serata di duro lavoro, con due lunghe tavolate nella sala centrale, e clienti molto rumorosi e volgari; del signor Mariano non vi era in giro alcuna traccia, come del resto accadeva sempre regolarmente ad ogni sabato. Hélène si mise così a letto in preda ad un’assurda confusione, su quanto avrebbe dovuto fare la mattina dell’indomani.
Puntò tuttavia la sua sveglia alle otto, non sapendo ancora bene come comportarsi; ma poi, subito dopo il risveglio, comprese fino in fondo quanto sarebbe stata sbagliata, la scelta di non presentarsi.
Il signor Mariano avrebbe potuto licenziarla, mentre invece nel possibile caso contrario, qualora ella si fosse presentata contro la sua stessa volontà, avrebbe sempre potuto dispensarla e rispedirla a casa senza alcun disturbo.
Indossò ancora una volta la gonna del lavoro, immaginando bene, che un paio di pantaloni sarebbero stati estremamente inutili oltre che scomodi; la scelta delle calze autoreggenti, quelle più corte e leggere, fu quasi un bene necessario, mentre le ridicole e grosse mutande bianche avrebbero probabilmente limitato di molto i suoi danni, qualora il suo datore di lavoro le avesse lasciate al loro posto.
E invece le mutande bianche le furono da subito abbassate, fino all’altezza delle ginocchia, prima ancora che Hélène potesse arrivare a controbattere. La ragazzotta si ritrovò già dopo pochi istanti completamente soggiogata, con la gonna nera rovesciata lungo la schiena, le sue calze autoreggenti strette sulle cosce, ed il culone interamente di fuori, esposto dinanzi allo sguardo torvo e severo del signor Mariano.
Solamente a quel punto quegli prese a parlarle, camminando avanti e indietro alle sue spalle, ed ammirando i due poveri glutei, ancora neri e gonfi a causa del trattamento subito la volta precedente. Arrivò presto alle più ovvie conclusioni: “… l’altra domenica hai avuto un semplice antipasto, quest’oggi faremo sul serio, e mi spiace che te ne siano bastate così poche per ridurti tanto male, ma le cameriere stupide come te, non imparano se non in questa maniera …”.
Furono le premesse di un castigo durissimo, senza attenuanti; la paletta di legno fu rovesciata sul didietro di Hélène una ventina di volte, senza interruzioni e senza alcuna pietà; le urla sommesse e soffocate della ragazzotta belga, non parevano suscitare nel suo datore di lavoro, davvero alcuna compassione o alcun cedimento.
La ridusse assai peggio della volta precedente, gonfia come un sacco di patate e rossa come un peperone. Le ordinò di lasciare lì le sue mutande, e di incamminarsi verso casa con la sola gonna indosso e con le calze autoreggenti sopra le ginocchia, punita e umiliata in modo tale da doversi veramente vergognare per tutto il tempo.
Quarantaduesimo episodio
Chiara si presentò trafelata all’appuntamento, in grave ritardo: aveva passato molto tempo a scegliere sia il proprio trucco, che i propri vestiti. Non lo aveva mai fatto prima d’allora, di uscire insieme con due uomini; e così quella sera, per la primissima volta nella sua vita, ella provava uno strano sentimento di vergogna, misto a un residuo straccio di pudore.
Era stato Marco a dirle apertamente, di essere perfettamente a conoscenza d’ogni suo singolo appuntamento con l’amico Costanzo, e di non esserne per nulla ingelosito: la considerava poco più che una semplice puttanella, da saziare e da soddisfare, e se n’era fatto tranquillamente una ragione, di come un solo uomo non le sarebbe mai potuto bastare.
Chiara in quell’istante si vergognava; mentre si recava al rendez-vous muovendo i propri tacchetti presso una nota vineria nel rione, dove i suoi due uomini l’attendevano da molto tempo, ebbe quasi l’istinto di ritornare indietro.
Ma già s’approssimava all’ingresso lungo la strada: Marco s’era accorto di lei, e dall’interno del locale egli s’era mosso per venirle incontro. Le diede un bacio di quelli appassionati, stringendole i fianchi lungo la cinta del suo cappotto bianco, e la condusse dentro tenendola per mano.
Le ordinò un calice di raffinato vino rosso, lasciando subito intendere quale fosse il tenore di quella stranissima serata.
Costanzo le stava seduto di fronte, mentre Marco era disposto di lato, e le teneva una mano stretta dentro la sua, adagiata direttamente sul grembo della ragazza.
Fu il primo dei due a rompere il silenzio, rivelandole apertamente, quanto egli fosse intrigato dalla situazione che lei stessa aveva creato: “Avevamo tutti e due voglia di vederti questa sera … abbiamo pensato di farlo assieme, invece che di litigare … in fondo siamo sempre stati due buoni amici e tu lo sai”, e si mise a ridere in modo sottile.
Marco intervenne a sua volta, rispondendo: “Ma non ti ci devi abituare affatto caro … io sono uno di ampie vedute, ma tu mi hai già messo troppe corna con Chiara. E allora che corna siano, ma una volta sola, per bene, e senza segreti!”. A quel punto egli alzò il calice per brindare, in modo pomposo e solenne; ed anche Costanzo fece altrettanto.
La biondina era evidentemente in imbarazzo; si era recata all’appuntamento con non poca curiosità, per quello stranissimo ménage à trois; ma adesso si rendeva conto di essere caduta veramente in basso, e soprattutto di venire trattata dai suoi due uomini unicamente come una piccola sgualdrina, senza alcun rispetto e senza nessun amore.
Avrebbe probabilmente voluto ripensarci, ma era oramai troppo tardi per poterlo fare; sorseggiò il suo vino e rimase in silenzio ad ascoltarli per oltre venti minuti.
Uscirono fuori, con Marco che la teneva per mano, mentre Costanzo con altrettanta disinvoltura le carezzava i capelli; raggiunsero la fermata dell’autobus, ed in quel momento tutto quanto precipitò. Marco la strinse a sé per baciarla, era abbastanza eccitato e non si diede pena del suo amico, che alle spalle di lei, le teneva ambedue le mani sul retro della gonna col cappotto bianco leggermente sollevato.
In quel frangente Chiara pareva veramente una piccola sgualdrina, e se ne rendeva perfettamente conto, al punto d’augurarsi che da nessuna delle macchine di passaggio lungo la strada, s’accorgessero di quanto quei due le stavano facendo.
Una volta giunti presso la dimora di Marco, i tre scesero dall’autobus ed attraversarono rapidamente la strada buia, con Chiara nel mezzo tenuta per mano da entrambi.
In quello stesso istante, Hélène studiava da sola in casa, e non riusciva proprio a venire a capo degli appunti lasciatile in consegna dalla sua coinquilina; se ne stava seduta sulla sedia del salone, dentro una morbida tuta grigia, con il sedere che le scoppiava tutto quanto all’interno, fresco ancora delle botte di due giorni addietro; era stata umiliata ancora una volta, e la sua condizione iniziava ora ad apparirle come un male necessario ed inevitabile: quel dolore che poteva sentire per bene, costante e persistente, era un duro pegno da pagare per mantenere il suo posto di lavoro.
Sfogliava avanti e indietro le pagine del quaderno scritte a mano, e provava a trascrivere qualcosa su un foglio bianco, in francese, con l’intento di mandare a memoria alcuni semplici concetti; in quello stesso frangente, Paula guardava la televisione in cucina, in assoluta solitudine: Costanzo proprio non ne voleva sapere, di risponderle al telefono quella sera.
Lui e Marco, facevano il loro ingresso nell’appartamento del quarto piano, tenendo entrambi Chiara per una mano; Marco le aprì i bottoni del cappotto sul davanti e Costanzo glielo sfilò via lungo le spalle, gettandolo sul tappeto del salone.
In quel momento le furono entrambi addosso: Marco era di fronte a lei, e la cinse mettendole una mano attorno alla vita e l’altra tutta aperta e stretta sul sedere; Costanzo da dietro le afferrò ambedue i seni con vigore, facendola sussultare; il primo le mise la lingua dentro la bocca, mentre il secondo la baciava da dietro, con passione, lungo tutto quanto il collo. La biondina poteva sentire quelle mani frugarla dappertutto.
Costanzo fu il primo a tirarle su la gonna, noncurante della mano di Marco che la stringeva; Chiara non indossava null’altro al disotto dei suoi collant, ed una striscia sottile di peluria color castano chiaro, si liberò così dinanzi agli occhi eccitati del suo fidanzato; che in quel frangente, avendo la mano sinistra libera l’affondò direttamente tra le cosce di lei, facendola docilmente inarcare in avanti.
A quel punto Chiara si volse indietro con la testa, allontanando le proprie labbra da quelle di lui, e recuperato un attimo il fiato, sospirò: “… siete due maiali … lasciatemi”.
Marco interruppe quella tortura, prendendole un braccio ed iniziando a trascinarla via con sé: Chiara fu così tutto ad un tratto liberata dall’assedio di quelle tastate insistenti e volgari; seguì il suo ragazzo, piegata sempre in avanti e con la gonna sollevata. Allora Costanzo si rassettò velocemente e si mosse con loro, aveva capito come Marco intendesse adesso passare ai fatti concreti.
La trascinò nei pressi d’un basso tavolino in legno, ricoperto da un’elegante imbottitura in pelle, che si trovava dinanzi alla parete opposta, circondato da un divano dall’aspetto piuttosto antico ed austero. Quando fu lì vicino, Marco prese la sua ragazza per ambedue le mani, sollevandole con grazia come se intendesse invitarla a ballare, e fece in modo che ella poggiasse le ginocchia su quel tavolino basso e scomodo. La biondina lo lasciò fare, montando sopra quella specie di piedistallo, con la gonna sempre alzata per bene; Costanzo guardava la scena sorridendo ed attendendo il proprio turno, aveva compreso come Marco volesse prendere la sua ragazza per primo.
Quella s’era già accomodata con ambedue le ginocchia disposte sul tavolo, leggermente divaricate, e le mani aperte e gentilmente poggiate lungo l’imbottitura; Costanzo notò la peluria di colore quasi rossastro e la sottile fenditura tra le cosce sul didietro, sotto la trasparente e delicata velatura dei suoi collant. Scelse subito di liberarsi dei pantaloni e delle scarpe invernali, restando in un maglione scuro a pelle, con una mutanda grigia mostruosamente rigonfia sul davanti.
Marco fissò il suo amico per un istante, e si mise a ridere; mentre Chiara già iniziava ad ansimare e a deglutire, voltata di spalle, con tutti quanti i capelli biondi riversi sul lato del viso, e la nuca leggermente piegata in giù; era già pronta per venire sprofondata dai suoi due uomini.
Marco espresse un cenno d’intesa verso Costanzo, invitandolo a passare dall’altro lato del tavolino; poi, prima ancora di spogliarsi o di togliere le calze alla sua fidanzata, decise di tenerla ferma con entrambe le mani sulle spalle, lungo il suo soffice maglioncino di lanetta bianca. Costanzo le fu davanti, a pochi centimetri di distanza dal viso; solamente a quel punto Chiara ebbe una reazione istintiva di autentico rifiuto, e voltandosi verso il suo fidanzato sussurrò: “…lasciami, sei un vero porco … lasciami…”.
Ma quegli, in preda ad un vero e proprio spirito sadico e perverso, le teneva ferme le spalle, e ridendo le disse: “Hai voluto la bicicletta … e adesso, pedala bella! datti da fare…”.
Chiara di fronte a quel comportamento davvero irrispettoso da parte del suo ragazzo, non reagì e decise di stare al gioco; ma non nascose un moto di rabbia e di disappunto, dal momento che non si aspettava affatto di venire trattata così.
Comprese tuttavia, come non avrebbe potuto fare null’altro che sottostare alle sue decisioni, e così tutto all’improvviso ella decise di donarsi, e di recitare la sua parte come meglio doveva. Con la mano destra sfiorò la mutanda di Costanzo, sentendo che era già duro e tirato; gliela abbassò leggermente sul davanti, quanto bastava per veder rimbalzare fuori la sua lunga proboscide bianca, ancora piegata a metà lungo tutta la sua estensione.
Si chinò allora leggermente in giù, e guardandolo con quegli occhi solo apparentemente innocenti, schiuse le labbra lasciandosi invadere da quel nerbo ancora ripiegato in basso e rinchiuso su sé stesso; lo accolse con la gentilezza e con la tenera inconsapevolezza d’una bambina, come se fosse il rubinetto lungo e flessuoso di una fontanella nel parco.
Solamente a quel punto utilizzò la sua mano sinistra, per afferrarlo nel mezzo, sentendolo immediatamente pulsare e vibrare, come un oggetto di carne viva ricolmo di sangue bollente. Lo prese a succhiare con dolcezza, osservando gli occhi di lui dal basso, con infinite delicatezza e leggerezza, come se fosse stato un gioco.
Hélène aveva smesso di studiare, non riusciva veramente a concentrarsi, il dolore su tutto quanto il didietro era qualcosa di veramente insopportabile; decise pertanto di indossare una camicetta da notte, con le mutandine sottili di sotto, non potendo metter su il suo consueto pigiama. Si risolse di chiamare sua madre, la quale come al solito le ricordò quanto fosse adirata, di saperla alloggiata in un appartamento assieme ad altre due ragazze, nonostante il suo genitore le avesse lasciato in eredità la retta pagata per il Convitto.
Nel frattempo, Marco s’era interamente spogliato, rimanendo con la sola canottiera bianca indosso, esibendo anch’egli un pene lungo come una spada, rigido e nerboruto. A quel punto questi prese di mira le calze di Chiara, senza attendere; gliele sfilò giù un poco alla volta, lasciandogliele sospese a metà coscia, liberandola completamente. Venne fuori una vagina tremolante ed umida, che respirava nell’aria rarefatta della stanza, già bella pronta per venire affondata.
Marco appoggiò allora la testa del pene, dopo averlo massaggiato un paio di volte, sulla peluria morbida e delicata; Chiara strinse con ambedue le mani il membro di Costanzo, restando così in ginocchio sul tavolo, leggermente reclinata in avanti, con i seni che le penzolavano sotto il maglioncino di lanetta: non aveva indosso null’altro, ma nessuno dei due ragazzi s’era dato la pena di spogliarla.
Marco le mise la mano sinistra sopra la gonna, lungo tutta la schiena, e con la destra prese infine ad armeggiare il pene, in basso tra le cosce di lei; era duro come una trave di legno, e Chiara lo sentì nitidamente, umido e bagnato.
A quel punto le afferrò i fianchi, appoggiandole il membro tra le labbra schiuse e delicate della vagina; Chiara mollò per un attimo la presa di Costanzo, lasciandolo libero ed eretto, e si dispose con entrambe le mani aperte sul tavolo: poi chiuse gli occhi e aprì la bocca. Fu penetrata in un istante.
Riprese immediatamente a succhiare la proboscide disposta dinanzi a lei, seguendo il ritmo con cui veniva battuta da Marco. Si muoveva con tutto il corpo, e con le spalle, assecondando le fitte che le arrivavano ben dritte dentro alla testa: ed assai presto i tre presero a muoversi quasi allo stesso tempo, all’unisono.
Hélène provava intanto ad addormentarsi; erano solamente le dieci e mezza, e non c’era davvero alcun verso di chiudere occhio quella sera; sotto le lenzuola, nude e scoperte, le sue natiche bianche come il latte scoppiavano di calore, rigonfie di lividi nerastri e viola, ed orribilmente deturpate.
Marco insisteva sbattendo la sua ragazza con energia e vigore, senza riuscire però a trascinarla nel vortice dell’orgasmo; Chiara sembrava piuttosto concentrata sul membro vivo di Costanzo, che adesso era cresciuto talmente tanto, da riempirla tutta quanta fino in fondo alla gola.
Ad un certo punto quest’ultimo avvertì lo sperma salirgli dal basso, fin dentro a tutto il muscolo rigonfio: decise pertanto che avrebbe voluto usarlo, e senza chiedere nemmeno il permesso al suo compare che era in piedi dall’altro lato, lo estrasse repentinamente dalle labbra di lei; e prendendola per ambedue le spalle fece cenno di volerla rigirare.
Marco comprese quali fossero le intenzioni del suo amico, e decise così d’assecondarlo, liberando il pene completamente fradicio dalla vagina della sua ragazza; Chiara compì a quel punto una giravolta sulle ginocchia, volgendo infine gli occhi al suo ragazzo, e le terga a Costanzo.
Costui le mise le mani sotto alla gonna, laddove la schiena terminava sopra il delicato rigonfiamento del bacino; senza spingere troppo, le appoggiò la dura proboscide in mezzo alle gambe, dal basso, facendogliela sentire per intero, e sfiorandole la peluria delicata e le sottili labbra morbide.
Chiara riconobbe subito quell’uccello, così lungo e ruvido, ed improvvisamente si schiuse in un bagnato invito a sprofondarla, colando giù dall’inguine alcune gocce di soffice umore bianco, che quegli poté notare benissimo.
La penetrò dal basso, vedendola innalzarsi leggermente con il busto. Chiara ristette subito, in preda ad un autentico attacco di voluttà; prese a muoversi in avanti e indietro, lasciando che Costanzo alle sue spalle rimanesse perfettamente fermo e immobile, con la sola mano appoggiata sotto alla sua gonna rigirata.
Hélène nel frattempo s’era addormentata, con la coperta riversa da un lato, e la pancia rivolta verso il lenzuolo; i suoi glutei arroventati potevano così respirare liberamente, esposti senza alcun riparo, verso il soffitto bianco.
Marco decise di sfilare via il maglioncino della sua ragazza, e subito vide i suoi seni torniti e bianchi rimbalzare di fuori, cadendo in basso. Glieli afferrò entrambi con le mani, stringendoli fino a torturarle i capezzoli; Chiara si fece più vicina inarcando leggermente la schiena verso l’alto, così che alle sue spalle Costanzo le cinse ambedue i fianchi, assumendo pertanto una postura leggermente reclinata.
La biondina a quel punto aumentò il ritmo, era praticamente tutta seduta sul membro di lui, mentre Marco di fronte le teneva stretti i capezzoli tra le dita, ed il pene infilato per bene nella bocca; aveva la gola invasa dalla sua passione, e presto prese a mugolare intensamente, al punto da poterne udire il lamento, mentre aumentava la velocità dei suoi colpi, in modo davvero ossessivo e quasi disperato.
Venne tutta assieme all’improvviso, arrestandosi sulla sua seduta, con Costanzo che a quel punto le mise entrambe le mani aperte sui glutei morbidi per frenarne l’impeto. Dovette estrarre il pene smisurato con grande prontezza, stava anch’egli impazzendo; e presolo per una mano come se fosse una pompa tutta rigonfia d’acqua, le inondò la schiena di sperma giallo e caldo, in grande quantità.
Fu un orgasmo lunghissimo quello dell’amico di Marco, piegato sulla schiena liscia e delicata della biondina; quest’ultima, una volta liberata da quell’oggetto che le aveva tenuto la vagina impegnata, riprese a soddisfare Marco con la bocca, con grandissima dedizione; il membro di Costanzo le penzolava adesso dietro il sedere scoperto, molle e bagnato.
Dopo solamente alcuni istanti, Marco le liberò i seni e le afferrò ambedue le orecchie, facendole inghiottire ancor più, se mai fosse stato possibile, il suo sesso oramai rigonfio e allo stremo. La trascinò a sé e prese a muoversi avanti e indietro sprofondandola nella bocca.
Poi esplose urlando, tenendo sempre la sua ragazza ferma per le orecchie, in modo che ella non potesse sfuggire dall’ingoiare tutto quanto il seme che egli aveva in corpo: erano stati tantissimi i giorni, che egli aveva trascorso in impaziente attesa.
Lo devo confessare … la tua bocca mi fa letteralmente impazzire! … vorrei baciarla, ma soprattutto … vorrei sentirla mentre me lo scaldi, sono sicuro che ti piacerebbe :-) …
Quarantatreesimo episodio
Salì a piedi l’ultimo tratto di strada, sotto un sole talmente caldo da doversi sfilare via la giacca, nonostante fosse solamente il ventinove di marzo.
Aveva lasciato il sottoscala in una situazione di totale disordine, con Paula sotto il getto d’acqua scrosciante della doccia, e Chiara appena alzata, coi capelli arruffati ed un elegante pigiama bianco ricamato a quadretti.
Tutto intorno a lei la città s’andava lentamente risvegliando, con sporadici rumori di serrande aperte dai negozi, e la solita puzza di smog delle macchine ferme davanti ai semafori. Avrebbe voluto parlare a cuore aperto con il signor Mariano, implorandolo di liberarla da quell’inutile e dolorosa ossessione, di risparmiarle il ripetersi assurdo di quel rituale, che sarebbe andato in scena per la terza volta.
Ma qualcosa le lasciava intendere, come questi avesse invece iniziato a provare durante quei momenti d’intimità, un autentico rigurgito di sadica perversione, un sordido desiderio inconscio e latente; e nemmeno s’era resa conto, delle sue ripetute eiaculazioni incontinenti e involontarie. Si illudeva che sarebbe bastato un discorso ragionevole o una sommessa preghiera, per porre fine al suo strazio.
Così fece ancora una volta il suo ingresso nel locale, alle dieci meno un quarto, piegata goffamente sotto alla serranda abbassata; udì in quell’istante uno sportello aprirsi, il suo datore di lavoro lungo la strada la stava attendendo dentro alla sua macchina elegante; ne uscì in maniche di camicia, coi polsini rigirati attorno ai gomiti, indicandole in modo perentorio di infilarsi senza attendere oltre dentro il locale; poi le fu alle spalle, e senza troppo garbo la spinse in avanti.
Giunti dinanzi alla barra della sala nel mezzo, il signor Mariano scrutò Hélène dalla testa ai piedi, con fare rapido e inelegante; ed estraendo un sigaro ancora chiuso nel cellophane, dalla custodia nel taschino della sua giacca, le disse: “Questo qua è veramente un paese di merda … il tuo cuoco è libero di nuovo, dovremo affrontare un ricorso in appello, comincio a stancarmi di questa storia …”.
Poi riprese ancora: “Ma tu cosa puoi saperne … vieni di là”.
Hélène lo seguì nello studio con la testa bassa; poi senza attendere ulteriori suoi ordini, chinò le spalle ed appoggiò la pancia contro il duro legno della piccola scrivania; il suo datore di lavoro estrasse l’accendino ed iniziò a tirare il suo sigaro, senza aggiungere nulla.
La ragazzotta belga in quell’istante, fissava la sedia in pelle scura, e la parete completamente disadorna dinanzi a lei; taceva pensierosa, temendo che in un modo o nell’altro alla fine il suo padrone l’avrebbe castigata: in maniera esemplare, come ambedue le volte precedenti. Ed invece, quel giorno il signor Mariano pareva provare un gusto speciale nell’attendere, nel farla soffrire tacendo. Aveva già l’uccello tremendamente eretto e gonfio sotto ai suoi pantaloni.
Si sedette sul lato della scrivania, osservandola lungo tutta la schiena; dopodiché, mentre continuava imperterrito a tirare il suo sigaro, le disse con tono sprezzante: “Vorrei che quel bastardo ti vedesse, come ti ho ridotta … sei una nullità, un sacco di patate meriterebbe più rispetto”, e rise in modo davvero orrendo. Dopodiché le infilò una mano disotto all’addome, iniziando lentamente a trascinarle su la gonna, senza alcuna fretta e senza particolare attenzione: venne fuori l’elastico scuro delle due calze autoreggenti, lunghe a malapena sopra il ginocchio.
Poi subito riprese: “… chissà se quel bastardo di cuoco vorrà rivederti; chissà che cosa ci trovava di speciale …”.
Hélène in quell’istante riprese a pensare ad Adrian, ed al grande timore per la sua possibile reazione, si aggiunse una vergogna viscerale e profonda; le venne quasi da piangere.
“Afferra la sedia, cameriera”, esclamò in quel momento il signor Mariano. Hélène ubbidì, ed istantaneamente fu rigida lungo tutta la schiena, allungandosi per aggrapparsi ai due braccioli disposti di fronte a lei.
Poi il suo datore di lavoro le mise una mano aperta sul didietro, sopra il tessuto morbido; l’afferrò come si afferra un pallone da spiaggia, e stringendola coi polpastrelli delle dita, tirò nuovamente il suo sigaro. A quel punto, senza attendere un solo istante, le ribaltò tutta la gonna lungo la schiena. Era stato lento e delicato nel sollevargliene un solo lembo, e adesso in un sol colpo la scoprì tutta quanta, rivelando la succinta mutandina nera cinturata di pizzo, che sul didietro non portava null’altro che un filo invisibile.
Si spostò in cucina per prelevare la solita paletta di legno, e già sentiva il pene premere in modo duro e deciso dentro ai suoi pantaloni; fece rientro brandendo l’oggetto fermo nella sua mano destra, battendolo e schioccandolo in modo impietoso come sempre. Questa volta non era nemmeno necessario abbassarle gli slip, dal momento che i due glutei si stagliavano già perfettamente scoperti, pallidi e rovinati, dinanzi ai suoi occhi.
Hélène iniziò a sospirare, non aveva neanche l’ardire di provare a chiedere pietà; rivolse il capo al suo datore di lavoro, guardandolo negli occhi con non poca timidezza, sperando in un suo ultimo atto di clemenza. Ma quello era tutto concentrato sul muscolo che aveva dritto tra le gambe, non riusciva ad agire con alcuna lucidità, e continuava a battersi la paletta di legno contro il palmo della mano.
Gliela appoggiò un paio di volte, prima in direzione orizzontale, e poi anche in verticale, dall’alto in basso, lungo la linea invisibile del filino nero della sua mutandina; nonostante portasse ancora evidenti i segni delle percosse subite la volta precedente, era pur sempre un rotondo oggetto di color bianco pallido, umido e lattiginoso, quello che si stagliava dinanzi ai suoi occhi.
Le mise una mano sopra la gonna, all’altezza del fianco in cima, e poi allargò il braccio destro; strinse la paletta in modo più deciso, dopodiché finalmente la rovesciò tutta addosso alla ragazza. Il piccolo studio risuonò di un tonfo sordo e penoso, seguito immediatamente dall’urlo stridulo e disperato di Hélène. La batté subito una seconda volta ancora, e in questo caso il povero didietro schioccò come un pallone rigonfio, un dolore terribile.
Dopo una decina di colpi, il signor Mariano le abbassò anche le mutandine, per esporla meglio senza alcuna protezione.
La colpì nuovamente, e la ragazzotta belga piegò il capo in avanti, gemendo in modo evidente, triste e rassegnata. La batté ancora, non aveva davvero alcuna pietà per lei.
Hélène mollò i due braccioli della sedia di fronte, e poggiò il palmo delle mani sulla scrivania in legno, mugolando sempre, senza soluzione di continuità.
A quel punto il signor Mariano estrasse un piccolo oggetto dalla tasca dei pantaloni, un tappetto di gomma verde, acquistato dentro un Sexy Shop nei pressi di Piazza Vittorio.
Lo osservò per capire come andasse utilizzato, e poi fissò nuovamente il culone rosso e deforme tutto esposto dinanzi ai suoi occhi; le mutandine nere pendevano lungo le cosce di Hélène, tirate giù dall’inguine fin poco sopra le ginocchia.
Guardò il tappetto verde, e lo avvicinò ai glutei della poveretta, nel mezzo; poi finalmente comprese come andava adoperato, ed allora poggiando la paletta di legno sulla scrivania, si concentrò per intero su di lei: iniziando e tastarle i glutei con accortezza, per capire come fare per infilarglielo.
Aveva una sorta di base piatta e molle, di colore verde trasparente, rotonda e tracciata da una linea nel mezzo. Poi si sviluppava nella sua lunghezza, dapprima in una specie di collo sottile, sempre di gomma morbida, ed infine con una sorta di capocchia ovale più dura, dalla forma bombata, affusolata come una supposta.
Andava infilato direttamente nell’ano della malcapitata, e la linea nel mezzo alla base aveva una semplice e sciagurata funzione: quella d’evitare che la povera destinataria di quel dono, potesse decidere d’estrarlo e reinserirlo in un successivo momento, senza il permesso del suo padrone.
Lo appoggiò in mezzo alle natiche di Hélène, e quella ristette all’improvviso, sospirando; non aveva alcuna idea di cosa fosse quello strano oggetto di gomma, che il signor Mariano teneva stretto tra le dita; il culone le bruciava in maniera orrenda, e giammai la sciagurata cameriera avrebbe neppure immaginato, che il castigo si sarebbe adesso arricchito, di un nuovo, assurdo, ed umiliante oltraggio.
Non era semplicissimo, maneggiare quell’arnese, ed il signor Mariano dovette pertanto spostarsi di lato, sedendosi nuovamente sulla scrivania.
Le disse: “Questo aggeggio qui lo dovrai indossare per tutto il tempo… almeno fino a stasera … ed alla fine del turno verrai qui da me nello studio, e solamente io te lo toglierò”.
Poi riprese senza alcuna remora: “… e non pensare di togliertelo da sola e di rimettertelo … non puoi sapere in che verso io, ho intenzione di infilartelo”.
Ed in quel momento finalmente lo appoggiò in mezzo agli enormi glutei arroventati di lei; fece con la mano sinistra un gesto semplice e perentorio, dilatandola di lato; poi lo allontanò un istante, e con la stessa decisione con cui si infila una supposta nel sedere di un bambino, lo spinse in mezzo alle natiche della povera ragazza, la quale ululò miseramente come una cagna.
Le fu dentro per bene, un tappo rigido e severo di gomma, conficcato in mezzo all’ano; a quel punto con il dito indice della mano destra, egli decise di spingerlo ancor meglio lungo tutta la sua base, facendolo penetrare ancora più in profondità; Hélène sospirò in maniera sconsolata.
La fece rassettare e ricoprire: oltre al calore insopportabile lungo tutte le natiche tumefatte, vi era adesso questo oggetto di gomma duro e impietoso, conficcato dentro il sedere; uscì dallo studio camminando leggermente a fatica, e quando fu sola lungo la strada, aveva la sensazione che qualcuno le tenesse un dito costantemente infilato in mezzo ai glutei, e non c’era alcun verso di liberarsi.
Giunse a casa trovandola inaspettatamente, del tutto vuota; decise così di recarsi in bagno, e lì in preda al dolore più assurdo ed alla pena, poté contemplare quello che il suo datore di lavoro le aveva fatto: il sedere era completamente arrossato, con macchie sparse di colore nero dappertutto; ed in mezzo vi era questa specie di tappetto verde, piatto e gommoso, che le chiudeva l’ano non facendola respirare.
Si domandava come avrebbe fatto il signor Mariano, a liberarla la sera stessa, e questo accresceva ancor di più la sua angoscia; ogni volta che ella provava, a mettersi per un istante seduta, quella specie di naso di gomma si infilava ulteriormente, irrigidendosi dentro la carne morbida e umida; preferiva quindi starsene in piedi, e sarebbe stato estremamente imprudente provare a sfilarselo, non sapendo esattamente come fare ad inserirlo nuovamente nella stessa posizione.
Si preparò una minestrina di verdure, e la mangiò in silenzio nei pressi della cucina; fuori faceva molto caldo, e sotto il tessuto della gonna nera, Hélène poteva sentirselo per bene: il tappino le stava fermo, rigido e conficcato nel didietro, senza alcuna tregua e senza alcun sollievo.
Dopo un paio d’ore iniziò ad abituarsi, anche se di tanto in quanto avrebbe desiderato di venire nuovamente liberata, anche solo per un momento. Quando si appoggiò alla tazza per fare la pipì, dovette prestare massima attenzione, affinché quel fastidioso oggetto non le fuoriuscisse in modo accidentale dal didietro.
Si preparò in anticipo per recarsi al lavoro, con l’appartamento sempre vuoto e silenzioso; non prima d’essersi fatta un pianto dinanzi allo specchio del bagno, avvilita ed umiliata per quell’assurdo e persistente senso di oltraggio.
Alle cinque e mezza del pomeriggio era nuovamente lì, con le cosce che si strusciavano sotto alla gonna, ed il tappino di gomma che adesso era diventato leggermente più duro, e la faceva sentire tutto il tempo orribilmente intasata.
Questa volta il signor Mariano pareva godere in modo scellerato della situazione, e la fissava senza distogliersi un solo istante: pensava ripetutamente, a quel che la ragazza teneva conficcato nel didietro, e pregustava il momento, in cui quella poveretta l’avrebbe dovuto implorare di toglierlo.
Hélène prese a servire alcuni tavoli occupati da un gruppo di turisti, ed ebbe la netta sensazione, che tutti quanti si rendessero perfettamente conto, di quello che lei teneva infilato nel sedere; si trattava ovviamente di una sua pura e semplice suggestione, ma in quell’istante Hélène percepiva nitidamente uno strano sentimento, come se tutti quanti volessero osservarla e deriderla.
Iniziò a provare un inconfessabile desiderio, di sfiorarsi e di toccarsi, e man mano che il tempo passava, poteva sentire la peluria nera in mezzo alle cosce inumidirsi sempre di più; era l’attesa dell’epilogo, con la preannunciata estrazione del tappo di gomma da parte del signor Mariano.
Fu un gesto rapido e deciso: mentre la signora Nadia sparecchiava alcuni tavoli, quegli le fece un cenno fugace con le dita, di infilarsi dentro al suo studio; sbatté il palmo della mano sulla sua scrivania, indicando pertanto a Hélène di coricarsi in avanti. Quella non vedeva l’ora di venire liberata, e gli facilitò il compito sollevandosi direttamente la gonna ed abbassandosi le mutandine, prima ancora di piegarsi di fronte a lui.
Le tolse via il tappetto di gomma, che era oramai divenuto durissimo; era probabile, che coi liquidi sparsi in mezzo alle cosce, quello squallido oggetto fosse divenuto maggiormente denso ed inflessibile, al punto da causarle anche un persistente dolore; fu gettato via dal signor Mariano nel secchio della immondizia: faceva abbastanza schifo anche semplicemente a tenerlo in mano.
Quarantaquattresimo episodio
La preparazione per l’esame di Diritto Canonico andava avanti, tra mille distrazioni ed altrettante difficoltà. Chiara appariva meno motivata del solito, e con una risoluzione abbastanza inattesa, quel lunedì sera - quando mancava una sola settimana alla fatidica data - fece intendere a Hélène di non essere più convinta di volerlo sostenere.
Fu un colpo durissimo per la studentessa belga. Provò ad insistere, implorando Chiara almeno di aiutarla per un’altra settimana ancora: ed alla fine quella, seppur controvoglia, con generosità l’assecondò; non avrebbe sostenuto il proprio esame, ma avrebbe provato ad aiutare Hélène fino all’ultimo.
Ma era sempre più evidente, come la sua coinquilina fosse completamente disinteressata, distratta ed assente; s’era comportata come una studentessa modello durante tutti i mesi passati, ma adesso Chiara sembrava solamente l’ombra di sé stessa. La follia del sesso l’aveva travolta, al punto da perdere di vista i motivi stessi per cui ella si trovava lì, a Roma, presso quella vecchia e prestigiosa Università.
Hélène rimase a casa la mattina di quel martedì, rassegnata oramai a studiar da sola per tutto il tempo: provava a concentrarsi respingendo i pensieri più vergognosi ed umilianti; s’impegnava moltissimo, e con tanta buona volontà, provava a mandare a memoria tutto quanto.
L’indomani sera dovette recarsi nuovamente al locale, e per la prima volta prese a meditare, di smettere di lavorare in quel posto; aveva dovuto rinunciare a gran parte del suo tempo libero per dedicarsi a quella mansione insulsa, venire maltrattata prima da un cuoco rozzo e ignorante, derisa da tutti, ed infine punita e picchiata dal suo datore di lavoro. Solamente per potersi permettere l’affitto, ed abitare con quelle due ragazze che le piacevano sempre di meno, oltre a pochi altri piaceri inutili e superficiali che ella s’era concessa. Non sarebbe stato forse molto meglio tornarsene al Convitto, pensava Hélène, mentre faceva ancora una volta il suo ingresso nel locale buio e semideserto.
Il contratto d’affitto dell’appartamento nel sottoscala poteva essere concluso oppure rinnovato ogni sei mesi, e pertanto entro la fine d’aprile le tre ragazze avrebbero anche potuto decidere d’abbandonare quel posto. Ma vi era un aspetto che Hélène non poteva certamente trascurare: le sue coinquiline s’erano fatte carico della sua parte, per ben due mesi, e certamente sarebbe stato molto difficile, se non addirittura improbabile, chiedere loro d’abbandonare la casa alla semplice scadenza del primo semestre di contratto.
Decise pertanto di non pensarci, ed entrò così in bagno per cambiarsi. Quando ne uscì, tutta stretta nei suoi soliti abiti da lavoro, incrociò il signor Mariano nel corridoio della cucina, e quegli le sorrise; era da diverso tempo che non lo faceva. Aveva iniziato a provare un’inspiegabile attrazione verso di lei, ma era unicamente la passione che egli provava nel maltrattarla, ed Hélène lo sapeva.
Ma tutto ciò che ella aveva subito, non era ancora nulla di fronte al disastroso epilogo che l’attendeva per l’indomani; Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato, era del tutto ignara ed alla fine della serata, decise di cambiarsi indossando una semplice tuta bianca, con la giacca azzurra sotto il solito cappotto nero.
Ad attenderla fuori dal locale, lontani dalla vista, nei pressi della fermata dell’autobus, Adrian e il suo amico Jan se ne stavano fermi come due sentinelle.
La prelevarono di peso, uno tenendola ferma per un braccio e l’altro spingendola di forza dentro lo sportello dell’automobile; Hélène prese a gridare, ma presto la macchina filò via con la musica alzata a tutto il volume possibile, per far sì che nessuno la potesse udire.
E nessuno avrebbe saputo quel che le avrebbero combinato quella sera: a detta di Adrian, quello era il giusto castigo che la cameriera belga avrebbe dovuto subire, per averlo accusato ingiustamente dinanzi al suo datore di lavoro.
Fu costretta a fare un pompino all’amico del cuoco, una pratica davvero penosa dal momento che quegli era anche perfettamente impotente; Adrian invece l’abusò una volta ancora nel didietro, trovandola disponibile e consenziente, ma solamente a causa del timore che ella nutriva, di venire maltrattata e picchiata dai due uomini in caso di rifiuto.
A Liegi le ragazze più giovani venivano normalmente omaggiate, nel mese di aprile, dei cosiddetti doni della primavera: erano ghirlande, fiori profumati, e delicate collane di pietre colorate; il ricordo ritornò alla mente della povera ragazza, abbandonata alla fermata della stazione alle due di notte, con il delicato orifizio dell’ano ancora tutto dilatato e ricolmo di liquidi, la tenera bocca completamente oltraggiata, ed il sedere ancora dolorante. Era una fortuna che nel buio pesto dell’automobile, parcheggiata vicino alla discarica, il cuoco non si fosse nemmeno reso conto, di quanto quel povero sedere fosse ancora rigonfio di chiazze nere e deturpato da orribili bozzi.
Non avrebbe mai più rivisto il suo Adrian, dal momento che questi sarebbe stato condannato in appello a due anni di carcere, assieme al suo scellerato compare, solamente pochi giorni addietro; quegli sciagurati li avrebbero scontati solamente a metà, ma era quanto bastava a tenerli lontani da lei, per tutto il tempo necessario. Le lasciò con quel tristissimo epilogo, un ultimo ed amarissimo ricordo di sé.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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