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Gay & Bisex

Chi comanda a Roma!


di Giovanni100
04.06.2021    |    1.038    |    2 9.8
"Approfitto di un suo spostamento e mi metto carponi sul divano..."
CHI COMANDA A ROMA
Sono passate quattro settimane da quando, dopo averti rintracciato, mi hai portato a casa tua. Inutile dire che quella notte non ho dormito: l’eccitazione tornava ad ondate non appena il sonno provava ad avere il sopravvento riportandomi alla veglia come una zattera che va a sbattere sugli scogli per poi ritrarsi ogni qualvolta monta la risacca. Potrei sembrare poetico con questa bucolica parafrasi “marina”, in realtà il pensiero si ferma sulla parola “monta”; e non mi rimanda affatto all’idea del mare.
Sto diventando un po’ troia?
Quello che è successo lo avrei potuto catalogare come una “pazzia” da conservare tra i miei ricordi: quel tipo di ricordo che almeno io posso condividere con Franco il quale, per assecondare una mia fantasia, un mese fa ha organizzato quel cazzo di incontro a tre da cui tutto questo delirio ha avuto inizio e sì: in effetti sono diventato un po’ troia proprio a partire da allora.
Quello è infatti un altro ricordo che mi porterò dentro e che a buona ragione potrà far dire anche a me, come fossi un novello Neruda campano: “confesso che ho vissuto”.
Ma non è questo il punto. Le cose che ho fatto potrebbero diventare dei ricordi e trasformarsi in sensazioni da far ribollire l’anima e regalarmi un’euforica eccitazione in serate più o meno solitarie ma non è così!
Perché sei un BASTARDO.
E questo “sogno vissuto” da giorni è diventato un incubo reale. Un incubo dal quale però non sono sicuro di volermi risvegliare. E a breve dovrei riuscire a venire a capo di questa situazione: speriamo bene.
Quella sera, dopo quella scopata clamorosa, cambiasti tono: da maschio alfa diventasti un giocherellone. Quasi un bambinone in un corpo adulto (e che cazzo di corpo da adulto!). Indifferente a tutto, ti mettesti a tirare cuscini del divano, calzini, vestiti come avessi otto anni e questa fosse la cosa più trasgressiva e proibita da fare al mondo. Un’imperdibile ultima marachella prima che fosse troppo tardi, prima che arrivasse un “castigamatti”.
Devo dire che quella reazione mi sorprese all’inizio. Poi mi divertì, mi coinvolse, e mi lanciai in questo nuovo gioco privo di senso come se fosse normale lanciarsi i cuscini, vestiti e oggetti vari con uno che ti ha sbattuto a bestia e ti ha scopato la gola sulla scala d’emergenza di un sedicesimo piano fino a 10 minuti prima.
L’ho già detto che sono diventato una troia vero?
Fatto sta che andandomene, quel pomeriggio, mi lasciasti riprendendo la frase che poco prima ti avevo detto io: “ma a me è riuscito meglio: io comanno e fotto” e concludendo tu di seguito: “rivedemose, così te rispiego er concetto de comannà e fotte”
Tornai a casa sorridendo, la sua era una chiara allusione al fatto che ci saremmo visti di nuovo e sarebbe stato di nuovo un gran sesso. In macchina, solo a pensarci, mi tornò duro. Mi fermai a comprare una bottiglia e dei fiori per mia moglie, quella sera le avrei proposto delle varianti sul tema che avevo appreso qualche ora prima dal benzinaio.
La mattina seguente avrei voluto scriverti e mi svegliai sperando di trovare un messaggio. Non ricevetti nulla e così anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Non volevo essere io a scrivere per primo, non volevo che avessi conferma di quello che sicuramente già sapevi: ossia che sarei corso a farmi sbattere come fossi la tua zoccola se solo avessi fatto cenno ad un orario possibile in un giorno da definire. L’attesa però incominciava ad essere pesante e con essa aumentava il mio malumore. Fu in quello stato d’animo che mi recai, inconsapevolmente forse, a fare lavare la macchina (pulita) presso la stazione di rifornimento ove svolgevi il ruolo di vedetta. Di certo non eri un dipendente del distributore: stai messo lì per controllare le attività e riscuotere il pizzo vero? Beh, chissenefrega.
Rivado a memoria ora che si sta per compiere tutto.
Con mio estremo disappunto non ti trovai, ma, con maggiore incazzatura, mi resi conto che tirando fuori il bancomat dal portafogli, c’era qualcos’altro che non trovavo: la mia carta d’identità.
Feci mente locale su dove avessi potuto lasciarla ma non arrivai a nessuna conclusione fino a quando, appena rientrato a casa con la macchina inutilmente lavata, non mi mandasti il tuo primo messaggio.
Era una foto in cui si vedeva una base rosa con motivi geometrici su cui erano stampati alcuni caratteri alfa numerici. La mia carta d’identità era in mano tua. Ora conoscevi di me: nome, cognome, indirizzo, stato civile.
Ebbi un brivido di gelo dietro la schiena
Compresi solo allora il senso della trasformazione da maschio alfa a bambinone: creare un diversivo per poter prendere il mio documento senza che io me ne accorgessi in mezzo a quel delirio che avevamo creato e nel quale mi avevi condotto senza che avessi neanche il benché minimo sentore della trappola che avevi mi teso.
Bastardo dissi tra me e me.
Ti risposi fingendo non chalance: “uè, era da te allora! La devo aver persa quando abbiamo fatto la battaglia dimmi quando posso venire a prenderla: pago pegno per la restituzione ;P (faccina lasciva) ”
Passarono altri tre giorni senza risposta prima di ricevere un tuo nuovo messaggio. Avevo un pensiero fisso: sapevi troppo di me, e la cosa mi lasciava una forte inquietudine addosso.
Il tuo messaggio era un’altra immagine: la carta d’identità aperta, e sopra la mia foto avevi appoggiato la tua cappella con un messaggio allegato: “suca”. Non che ci fosse bisogno di suggerirmelo, ma ebbi idea che tu non ti riferissi alla fellatio, ma ad altro; e questo aumentò notevolmente il mio nervosismo anche perché nel frattempo ero passato al distributore svariate altre volte e non ti avevo mai trovato (l’ultima volta avevo comprato un deodorante per auto da quel coglione con la voce stridula) per poi rimanere fermo in macchina sotto casa tua sperando di beccarti. Ma non c’era traccia tua né della tua moto.
Avevo anche valutato di sporgere denuncia nei tuoi confronti, ma l’idea era stupida ed era il frutto del mio nervosismo. Avrei avuto solo da perdere con una mossa di questo tipo: come giustificare che tu, oltre al mio documento, avevi anche un mio contatto? Mi limitai a denunciarne lo smarrimento e chiedere un duplicato. Non so perché ma questa semplice azione ebbe l’effetto di tranquillizzarmi e mi spinse al passo successivo: scriverti per chiederti di vederci.
La tua risposta arrivò dopo altri QUATTRO giorni dalla visualizzazione del mio messaggio (sei davvero un gran bastardo) e questa volta fu un video: un primo piano su quel gran cazzo eretto che si stagliava sul sottofondo del tuo addome il quale rimandava la mia memoria al tuo corpo massiccio. Con la mente volai sui pettorali e immaginai spalle e braccia percependone il calore e la forza (ammetto: sono completamente fuori di testa). Tu ti masturbavi lentamente, passando l’incavo della mano sopra la tua cappella lucida, tesa e bagnata da uno sputo. Ancora adesso, ripensandoci, vengo travolto dall’eccitazione nonostante in sotto fondo rimanga il disagio di sapere che tu hai troppe informazioni su di me. Questa sega, per quanto sia una pratica piuttosto consueta, mi fa impazzire. Mi immagino lì davanti in attesa che tu venga e mi schizzi in faccia.
Ed in effetti nel video succede qualcosa del genere: hai filmato l’ultimo minuto, inclusi i getti potenti del tuo seme che atterrano direttamente sulla mia foto annegando il documento in un mare di sperma il cui sapore ritorna come riflesso pavloviano a bagnarmi la lingua. Chiudi la mia carta d’identità: il tuo seme come collante tra sue due pagine mi ricorda a quando mi facevo le seghe coi giornaletti porno di mio fratello più grande e di come dedicassi, alla mia porno star preferita del momento, tutto il mio “amore”.
Devo interpretare questo tuo video come una dedica a me?
Credo che qualora dovessi rientrare in possesso della carta, la conserverò come un feticcio.
Sono davvero diventato la tua troia.
Finalmente, dopo altri giorni di questo stillicidio mi scrivesti: “morè, domani alle 18:00 t’insegno chi comanna a Roma. Viè ar distribbutore”
Confesso che piombai di nuovo nel pieno di una tempesta emotiva e sì: continuavo ad essere la zattera che sbatte sugli scogli mentre monta la risacca. Ed è sempre la “monta” che avevo in mente, mica il mare.
Ora che il giorno è arrivato, spero di non fracassarmi sugli scogli. Il fatto di essere stato “invitato” al distributore in orari di esercizio almeno in parte mi tranquillizza: in caso di pericolo dovrei essere in grado di attirare l’attenzione di altre persone, a prescindere dalla figura di merda, preferisco comunque aver salva la pelle.
Scrissi dunque a Franco per spiegargli la situazione e gli chiesi il favore di farsi trovare nei paraggi se il giorno dell’appuntamento, dopo un’ora dall’ultimo messaggio, non ne avesse ricevuto un altro.
Chi cazzo potrà essere mai uno che scrive in romanaccio nei messaggi invece di usare le solite abbreviazioni riconducibili a chi generalmente ignorante usa le k al posto di “ch” e scrive in maniera stereotipata all’indicativo presente sempre e comunque?
Dunque ora sono qui: al distributore sul GRA dove più di un mese fa è iniziato tutto. Mi aspetto un messaggio da parte tua e puntualmente arriva: “parcheggia dietro dove stanno i camion e resta dentro che te pijo io”.
Sono diviso in due fisicamente ed emotivamente: vorrei fuggire e rimanere. Ho i muscoli tesi, le gambe che sembrano un budino, il cazzo barzotto e l’umore vacillante: potrebbe essere una gran scopata o qualcosa di veramente pericoloso che eventualmente non potrei raccontare a nessuno. Esiste situazione peggiore?
Mentre mi guardo intorno chiuso nel mio abitacolo con anche una certa propensione ad avviare il motore e fuggire, penso che non ci dovrebbero essere ragioni plausibili perché mi accada qualcosa di male.
Finisco il pensiero insieme alla sigaretta e ti vedo uscire dal retro del negozio con quella tuta arancione coi catarifrangenti: disteso, quasi sorridente, direi divertito. Ora so che qualunque cosa succeda io resto e sti cazzi!
Ti avvicini e abbasso il finestrino cercando di rispondere con un sorriso il più naturale possibile al quel ghigno rilassato.
“Bella morè, ggiu ‘n fondo, dopo la porta del negozio c’è quella der magazzino. Entro io, conti ddu’ minuti, e poi entri tu”
Come in trance, appena entra, metto il cronometro: 120 secondi. Sono arrivato senza volere a rispettare degli ordini anche quando questi non vengono presentati come tali. Ma percepisco come una propensione al comando alla quale non posso far altro che adeguarmi in virtù del desiderio di compiacerlo. Il sospetto di aver perso qualunque ritegno si è fatto strada da giorni, e credo che questo mio attenermi scrupolosamente alle sue indicazioni sia l’esempio più limpido.
Scatta il momento, esco, mi dirigo verso il magazzino, apro e passo dalla luce del crepuscolo alla luce elettrica.
Adriano è lì: seduto mollemente su un divanetto che probabilmente avrebbe più di qualche storia da raccontare. A gambe larghe si massaggia il pacco sapendo perfettamente di avere la situazione in mano.
Mi spoglio e mi inginocchio su di lui: mi prende per i capelli e preme la mia faccia sul suo cavallo: adoro sentire come il suo cazzo reagisca alla ricerca che la mia bocca fa attraverso il tessuto spesso della tuta e delle mutande. Inalo l’odore dell’ambiente e tutto mi dice che questo sia un posto solo suo: mi tranquillizzo e con le mani risalgo verso i pettorali nascosti dalla tuta semi aperta. Sono in mano mia, si toglie le scarpe e abbassa la zip che dal collo arriva fino alla vita liberandosi mano a mano dei vestiti così come faccio anche io.
In un minuto il suo sesso si fa strada dentro la mia bocca e cresce come fatto in passato prendendosi tutto lo spazio che posso dargli. In poco tempo sono a sua completa disposizione: con una mano si aggiusta l’inguine e libera quella mazza fino a spingermela in gola: avrei voluto giocare di più con la cappella ma è lui che mi tiene la testa ed io non ho voglia di fare resistenza. Anzi.
Con l’altra si infila prepotentemente di dietro e cedo per accogliere le sue dita in attesa di altro. Entra senza difficoltà e senza cerimonie, ma nell’esplorazione è un grande: il cervello va in tilt.
“A morè, che pensi che nun me ricordo de quanto sei troia? Ora ‘r cazzo te lo tieni bene dentro in gola che tanto nun serve che pparli”
Tra le sue parole, i miei ansimi ed i conati indotti dal suo sesso, a malapena trova posto il pensiero: “MA CHI CAZZO VO’ PARLÀ, SPIGNI!” che si manifesta ad alta voce in romano anche nella mia mente.
Si alza: è in piedi di fronte a me mentre continuo a succhiarlo e guardarlo. Credo che la mia espressione sia estatica e quasi vorrei vederla. Mi “accontento” di guardare la sua, è più che chiara negli intenti e nell’apprezzamento per quanto sto facendo.
Mi masturbo mentre mi prendo cura del suo sesso. Sbavo come sempre mi succede con lui. Ad un certo punto mi ferma la nuca e mantenendomi per i capelli inizia la sua energica cavalcata dalle labbra all’esofago alternando spinte dure e ad affondi morbidi, come a voler saggiare sistematicamente tutti gli angoli della mia bocca.
Dalla sua bocca, invece, è un diluvio di appellativi tutti dello stesso tipo, che probabilmente dice a tutti quelli con cui va, ma che a me sembrano scelti apposta per me: “succhia cazzi, fino in gola lo voi eh? Puttana!”
Mi aggrappo alla sua vita e tiro giù la parte di tuta da lavoro che ancora aveva indosso. Non posso vedere le sue gambe ed il suo culo, ma le mie mani mi ricordano quanto fossero tornite. Arrivo alle palle: sempre grandi. Lo blocco e lo butto di nuovo sul divano, mi spoglio e gli salto addosso nel vero seno della parola. Siamo un groviglio nel quale in questo momento parei io stia conducendo il gioco. Ma è mera illusione: sono sotto di lui ed ho i polsi bloccati dietro la schiena mentre la gamba sinistra è appoggiata a terra lasciando visibilità e accesso al mio culo che ovviamente non aspetta altro che essere violato. Puntualmente mi arrivano le sue dita in bocca. Sono certo: non ha mai toccato una pompa di benzina. Per quanto siano robuste e quasi callose, il suo lavoro è certamente un altro. Le lecco come fossero il suo cazzo. E poco dopo scendono ad aprire un varco dentro di me per far posto alla sua virilità in un secondo momento.
Mentre esplora il mio ano è la sua lingua che entra e si aggroviglia con la mia. Io sono bloccato sul divano e mi offro come fossi selvaggina per un famelico cacciatore. Una preda nella tela di un ragno curiosamente felice di venire divorata.
Approfitto di un suo spostamento e mi metto carponi sul divano. L’invito è esplicito: inculami.
L’invito è colto. Sento aprire il preservativo, mi volto per guardarlo, una manata mi piega la testa in basso e per reazione il mio culo si alza di più. Posa il piede sulla seduta del divano, con una mano si aggrappa al mio fianco, appoggia il suo sesso e spinge: deciso, caldo, ineluttabile si fa strada dentro di me.
GODO
Inizia con le sue spinte ed i suoi grugniti fino a quando non è completamente dentro. Vorrei urlare il piacere che provo, ma mi tappa la bocca buttandomisi addosso mentre tra una spinta e l’altra la sua lingua passa dal collo all’orecchio all’occhio fino a tornare tra le mie labbra impegnate a serrare il suo indice nella mia bocca.
Sono suo. Inequivocabilmente suo. Oggetto del suo personale piacere che di riflesso è mio.
Mi ansima nelle orecchie: “Te rompo ‘r culo, te rompo ‘r culo, te rompo ‘r culo TROIA”
Dite quello che volete, ma per me è poesia, che complice il suo arrivare lì dove mai nessuno era arrivato prima, (Star Trek lev’te da miezz’ a via) si stamperà a caratteri d’oro nelle pagine del diario che ho deciso di scrivere per poter ricordare per filo e per segno quanto ho vissuto.
Sto dando per scontato che potrò scrivere e che ci sia un domani dopo questo incontro.
I nostri sudori si mischiano e così anche altri umori, sono quasi allo stremo e nonostante tutto voglio andare avanti. Non che lui si preoccupi di come mi sento, ma dal momento in cui è entrato in me, il mio corpo si è adattato a lui e ora ha tutta la comodità di muoversi come meglio desidera. E si sente.
Passa il tempo in una modalità che non saprei misurare, ma è sempre comunque veloce ed eterno allo stesso tempo quando complice l’irrigidirsi dei suoi muscoli e l’ansimare più profondo mi dice: “mo te do ‘a sborra ‘ o sai? Puttana MO TE DO ‘A SBORRA HAI CAPITO PUTTANA??”
Di scatto si solleva, di rimando mi giro per guardarlo nella sua massiccia completezza, si toglie il preservativo e mi avvicino per riprenderlo in bocca mentre d’un tratto mi prende per i capelli e mi tiene a distanza, lo guardo a bocca aperta perché voglio che capisca ciò che desidero e lui, che evidentemente ha compreso, mi tiene volontariamente più lontano fino a quando con un paio di massaggi emette un verso gutturale ancestrale e innumerevoli getti di sperma che mi atterrano in faccia, sul collo, sul petto, per terra mischiandosi poco dopo col mio.
Non so dire se i rumori del traffico di auto e persone al di fuori del magazzino del distributore abbiano coperto i nostri rumori. Il sangue mi romba nelle orecchie insieme all’ansimare dei nostri respiri. Continuo ad avere la lingua fuori della bocca spalancata con lui che mi tiene la testa per i capelli.
Siamo immobili a fissarci tremanti entrambi. Un ultima goccia cola dal suo glande. L’appoggia sulle mie labbra come fosse un marchio che mi appone e lentamente si abbassa tenendo fissi gli occhi su di me.
Il battito cardiaco ricomincia la sua corsa insensata. Attacca la sua bocca alla mia ed entrambi sentiamo il suo sapore in un bacio che ha un solo univoco significato: sono sua proprietà.
Ho capito chi comanda a Roma.
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