Gay & Bisex
Un Boccone Salentino «Sapore d'addio»

07.06.2025 |
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"Barcollanti, inciampammo sugli scalini del patio tra una risata e l’altra, con la sabbia ancora appiccicata addosso..."
Quella notte tornai in casa con il viso ancora umido, il sapore del suo piacere sulle labbra e la testa piena di pensieri. Avevo il cuore che batteva forte, ma non era solo per l’eccitazione.
C’era stato qualcosa di animalesco, ruvido, quasi clandestino in quel momento, ma anche qualcosa di inspiegabilmente intimo. Avevamo condiviso più del semplice sesso: c’erano stati silenzi carichi di tensione, sguardi che dicevano più di quanto avremmo mai avuto il coraggio di mettere in parole.
Mi sdraiai nel letto senza riuscire a dormire. I miei amici erano ancora fuori, sparsi per i locali della costa, e io continuavo a rigirarmi tra le lenzuola. Il suo corpo, abbronzato e caldo, la sua voce bassa e ruvida, le mani forti che sapevano dove andare, tutto tornava a ondate nella mia mente. Mi sentivo esausto e carico allo stesso tempo. Come se qualcosa dentro di me si fosse aperto… e non volesse più richiudersi.
La mattina dopo, seduto nella veranda della casa, cercai di mostrarmi normale. Avevo il caffè in mano e lo sguardo un po’ perso, ma cercavo di non farmi notare.
«Allora Andrea, ti sei ripreso dalla serata in “solitaria”?» mi chiese Marco con un sorrisetto allusivo.
«Dai, non lo stressare» intervenne Luca, mentre si spalmava la marmellata su una fetta biscottata.
«Se uno ha bisogno di stare un po’ da solo, ci sta. Però in effetti ieri sera eri sparito… tutto bene?»
Alzai le spalle e buttai giù un sorso nascosto, sorseggiando dalla tazzina del caffè.
«Ho fatto due passi in spiaggia. Aria fresca. Ne avevo bisogno.»
Marco alzò un sopracciglio. «Due passi in spiaggia, tutto solo soletto… ne sei sicuro?»
«Ognuno ha il suo modo di meditare, no?» risposi, con un mezzo sorriso.
«Mmh.... Certo… E l’illuminazione l’hai avuta prima o dopo esserti tolto i vestiti?» rise Daniele, facendomi l’occhiolino. Scoppiai a ridere anche io, scuotendo la testa.
«Idioti.»
In realtà, dentro, tremavo ancora al ricordo di quella bocca sulla mia, di quelle mani che non chiedevano mai il permesso. Ma la complicità silenziosa di quello che era successo apparteneva solo a me.
O meglio, a me… e a lui.
Alcune sere dopo, poco prima della partenza, ci ritrovammo tutti a una grossa festa sulla spiaggia.
Casse sparate, musica pop rock a tutto volume, sabbia calda sotto i piedi e corpi ovunque: a ballare, a bere, a vivere l’estate come se quella fosse l’ultima. L’aria sapeva di mare e birra, di sudore e libertà. Ridevamo, ballavamo, chiacchieravamo con ragazzi del posto conosciuti quella sera, spensierati, presi dall’euforia contagiosa del momento.
Marco, il più festaiolo del gruppo, sembrava particolarmente ispirato quella sera: rideva, ballava senza freni, e da metà serata in poi fu sempre accanto a un ragazzo locale.
Occhi scuri, sorriso sfrontato, con un culo rotondo e sodo che nemmeno Giotto sarebbe stato capace di disegnare, e quel modo di guardarlo che non gli lasciava scampo. I due si sono piaciuti subito, e verso fine serata erano particolarmente incollati. Io avevo notato tutto, ma non dissi niente, lasciavo che anche lui si godesse quel momento di piacere, in quella serata calda e caotica.
In mezzo a tutto quel caos non ci accorgemmo subito che Marco era sparito. Solo più tardi, ridendo per l’ennesima battuta storta, Daniele si voltò e disse:
«Oh, ma Marco dov’è finito?»
«Non era con quel salentino con la maglietta tagliata col culo da reato?» rispose Luca ridacchiando.
«Si esatto, Nicolò. Secondo me l’ha convinto a fare un after privato, lontano dalla confusione.» risposi vago.
«Sicuro, rispose Daniele. Si saranno dileguati tra le dune… o in qualche macchina parcheggiata.»
«Credo che Marco stasera faccia esplorazione geologica del Salento… ridevamo tutti di gusto…
«E domani, lo ritroviamo col sorriso stampato e senza forze.»
Rientrammo che albeggiava, ancora storditi dalla musica nelle orecchie e con l’alcol che ci scorreva nelle vene. Barcollanti, inciampammo sugli scalini del patio tra una risata e l’altra, con la sabbia ancora appiccicata addosso.
Appena entrato in casa, mi buttai sul letto ancora vestito.
Il sonno tardò ad arrivare, poi calò all’improvviso, profondo e pesante, come un coperchio silenzioso a sigillare tutti i pensieri delle notti passate. Mi svegliai a metà mattina, con il sole già alto e un silenzio irreale in casa. Tutti dormivano.
La notte li aveva svuotati. Con i vestiti ancora della sera prima camminavo scalzo sul pavimento fresco, ancora un po’ stordito. Entrai in bagno, e feci subito una doccia rigenerativa, ne avevo proprio bisogno.
Uscendo, mi diressi in cucina per bere un bicchiere d’acqua, con l’intento di farmi anche un caffè.
Sentii il telefono vibrare. Un messaggio WhatsApp, Alberto.
“Se hai voglia, sto preparando del latte caldo. Ti va?”
Appena lessi il suo nome, il cuore fece un balzo dal petto.
“Ho proprio voglia di una buona colazione.” risposi. Mi misi subito dei vestiti puliti e uscii di casa. Scesi le scale e mi diressi verso il suo appartamento. Bussai piano alla sua porta. Aperta. Entrai. Era lì, in cucina, con una tazza in mano, vestito solo con dei bermuda di lino e una canotta, che lasciava intravedere il suo petto, con un cenno di capezzolo fuori.
Il profumo del latte bollito con la cannella mi colpì subito.
C’era qualcosa di tenero, quasi domestico, in quella scena.
«Ho sentito il rumore dell’acqua, ho pensato ti fossi svegliato» rise, porgendomi una tazza.
«Mi sono svegliato di colpo. Sete, credo. O fame. O…» risposi maliziosamente.
Lui sorrise appena. «O… solo voglia di tornare.»
Ci guardammo per qualche secondo. Nessuno dei due disse niente.
Sedemmo uno accanto all’altro sul divano, sorseggiando piano. Il suo atteggiamento era leggero, stavolta.
C’era qualcosa di rilassato in lui, meno teso, meno ansioso. Forse queste notti di assenza lo avevano sciolto, portando con sé altre intenzioni.
«Sai» disse all’improvviso, «non mi aspettavo che rispondessi al messaggio.»
«E perché non avrei dovuto?»
«Perché certe cose succedono una volta e basta. Poi son solo ricordi.»
Mi girai bene verso di lui. «E invece, certe cose succedono una seconda volta.
Per capire che devono finire lì.»
Posò la tazza sul tavolino, mi prese il viso come se volesse pizzicarmi il mento, guidandomi verso il suo.
Mi guardò fisso negli occhi. Non servivano più parole.
Mi si avvicinò e mi baciò. Fu un bacio caldo, profondo, lentissimo. Le sue labbra sapevano di cannella e di voglia trattenuta. La sua lingua entrò nella mia bocca con una dolce violenza, come se volesse prendersi tutto quello che non ci saremmo più detti. Le sue mani mi accarezzarono la nuca, la schiena, e poi scesero sui fianchi. Io lo toccai ovunque, come se stessi cercando di imprimermi la forma del suo corpo nella memoria. La mia eccitazione saliva sempre di più man mano che toccavo quel corpo duro che sprizzava di sensualità ed erotismo.
Presi dalla foga di quel bacio, mi spinse dolcemente all’indietro, facendomi adagiare sul divano, mentre il suo corpo si posava sopra al mio con naturalezza, come se fosse il suo posto. I nostri bacini si cercarono e si incastrarono con una fame istintiva: sentivo la pressione calda del suo corpo contro il mio, il suo cazzo che si gonfiava contro il mio, già duro al primo sfiorarsi. Il respiro cominciava a farsi più corto, più denso, intrecciato tra i nostri sospiri.
Mi lasciava quasi confuso quella sua dolcezza nel toccarmi e baciarmi, così diversa dalla prima volta, più tenera, più intima. Ma non mi dispiaceva affatto. Anzi, quella cura inaspettata accendeva qualcosa in me, qualcosa che andava oltre il puro desiderio. Mi fece alzare, mi prese per mano e mi portò in camera. Le persiane erano socchiuse e la luce dorata del mattino filtrava tra di esse disegnando linee orizzontali sul pavimento. L’aria profumava di lui, legno, sudore e desiderio, riempivano la stanza. Questa volta non c’era urgenza, non c’era dominio. Mi spogliò con lentezza, con rispetto, iniziando dalla maglietta. Si prese il tempo di guardarmi, di sfiorarmi, di baciarmi tutto.
Le sue dita la tirarono su piano, accarezzando l’addome man mano che il tessuto si sollevava. Quando rimasi nudo, sentii il suo sguardo attraversarmi, come se stesse imparando a memoria ogni centimetro della mia pelle. Si abbassò, con una lentezza quasi religiosa, e mi baciò il ventre, poi l’interno coscia, poi risalì lungo il fianco con la lingua, fino al collo.
Lo aiutai a togliersi i bermuda. Era già duro, teso, vivo. Lo presi tra le mani con un gesto naturale, istintivo, quasi affettuoso, e lui gemette piano, quasi sorpreso dalla delicatezza.
Mi spinse piano sul letto e si posizionò nuovamente sopra di me. Il suo petto velatamente peloso era caldo, muscoloso, e mi coprì come una coperta. Le nostre erezioni si sfioravano e si spingevano l’una contro l’altra, creando un attrito umido, febbrile. Mi baciò a lungo, con la lingua profonda, carnale, le mani che intanto esploravano il mio petto, le spalle, le cosce.
Mi prese il viso tra le mani e sussurrò contro le mie labbra:
«Rilassati… lasciati prendere ancora una volta.»
Mi girò con calma, poi con forza, ma senza brutalità. Mi sistemò a carponi sul letto, poi si inginocchiò dietro di me e iniziò a baciarmi la schiena, lentamente, partendo dalla base della nuca fino al coccige, tracciando linee calde con la lingua.
Mi aprì le gambe con le mani e cominciò a leccarmi. Era preciso, famelico.
La sua lingua lavorava tra le natiche, affondava e girava, mi faceva fremere, gemere, perdere il respiro.
Ogni suo movimento era un possesso, una promessa.
Mi infilò un dito lentamente, poi un altro, con movimenti esperti, ritmati, profondi. Il suo respiro era corto, affannato.
Lo sentivo ansioso di essere dentro, ma si tratteneva, come se volesse godersi ogni secondo prima di liberare i suoi istinti.
Quando fu il momento, mi posizionò sopra di lui. Voleva vedermi in faccia mentre entrava. Mi prese per i fianchi e, con un gesto fluido, affondò dentro di me.
Era grande, duro, e mi riempì subito. La bocca mi si aprì in un gemito strozzato. Ci guardammo negli occhi mentre spingeva più a fondo. Non c’era violenza, ma una fame, di carne, di contatto, di esserci completamente.
Cominciò a muoversi lentamente, con spinte lunghe, rotonde, profonde. Ogni affondo era accompagnato da un bacio, da una mano che stringeva, da un sussurro caldo nell’orecchio. Mi teneva stretto, come se volesse impedirmi di scappare via da quella connessione.
Poi lo sentii cambiare ritmo. Mi afferrò la schiena, mi schiacciò contro di sé, e iniziò a scoparmi con una foga crescente.
Le sue mani mi stringevano le natiche, mi guidavano sul suo cazzo, su e giù, mentre io gemevo contro il suo collo, ormai incapace di trattenermi.
Mi fece girare di nuovo, mi mise a pancia in su, sollevò le mie gambe, baciò i miei piedi, e ricominciò a scoparmi con movimenti più veloci, affamati. Il suo sudore colava sulla mia pelle, i nostri corpi che sbattevano l’uno contro l’altro in un suono umido, primordiale. Ogni suo colpo mi faceva perdere un po’ di lucidità, controllo.
Le mani mi accarezzavano il petto, mi sfioravano i capezzoli, mi stringevano i polsi sopra la testa.
«Guarda come ti prendi tutto» mi sussurrò, ansimando. «Sei bellissimo così.»
Mi prese il cazzo in mano e cominciò a masturbarmi con ritmo deciso, in sincronia con le sue spinte. Le sue dita scivolavano umide sul glande, stringevano al momento giusto, lo facevano quasi con amore.
«Vieni con me… voglio sentirtelo addosso.»
E io venni. Con uno scatto, un grido. «Oh sììì, cazzo, sto venendo…» un tremito che mi attraversò la schiena come una scossa. Gli spruzzai sul petto e sul ventre, mentre lui continuava a spingere dentro di me, ancora più forte, ancora più veloce. Poi affondò con un gemito strozzato, stringendomi con forza, e lo sentii venire dentro, caldo, abbondante, profondo. «Oh sto venendo… cazzo, è abbondante… senti quanto ti riempio…»
Rimanemmo così, appiccicati, sudati, senza parole. Mi strinse a sé, mi baciò una spalla, poi scivolò lentamente fuori, quel fluido usciva copiosamente tra le mie natiche.
Si sdraiò accanto a me, col petto che si sollevava piano, il respiro che lentamente tornava regolare.
Io mi girai su un fianco, lo guardai. Lui si voltò, mi fece un piccolo sorriso. Mi passò una mano tra i capelli.
Poi si alzò senza dire niente e andò in cucina. Tornò con due bicchieri d’acqua.
«Hai ancora fame?» chiese, ironico.
Sorrisi. «Sempre… Ma oggi… basta così.»
Bevemmo in silenzio.
Si stava facendo tardi, i ragazzi si sarebbero potuti svegliare, mi accompagnò alla porta, con una mano sulla mia schiena.
«Stai bene?» mi chiese.
«Sì. Anzi, benissimo.»
Mi guardò. «Da domani, non potrò più invitarti a scendere.»
«Lo so. Torneremo a Milano…»
«Ma non scorderò questi momenti.»
«Neanche io.»
E poi, con un ultimo bacio, breve e silenzioso, chiuse la porta.
Quando tornai in casa, i ragazzi dormivano ancora. Mi infilai a letto, per non dare sospetto, ma non dormii. Fissavo il soffitto, sentendo ancora il suo odore sulla mia pelle. Non mi vergognavo di nulla, né avevo difficoltà a raccontare ciò che era accaduto tra noi. Ma sentivo che certe cose, certe emozioni non avevano bisogno di essere spiegate o condivise con chi non le aveva vissute. Volevo che restasse solo nostra. Intima, naturale. Senza parole di troppo, senza occhi curiosi e senza fraintendimenti.
Certe storie non servono a durare.
Servono a farti sentire vivo.
Una volta. Una soltanto.
E quella… era bastata.
Per voi,
Ymex_91
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