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Un Master brutale


di CagnaGolosa
18.12.2017    |    8.189    |    6 6.7
"“basta… basta… basta…” Non è per pietà quando smette ma per ben altro: mi fa inginocchiare e mi infila il cazzo in bocca e inizia a scoparmi la gola fino a..."
Il Padrone mi ha scritto, questa mattina, e mi ha ordinato:
"Voglio che tu scriva e descriva nei dettagli l'incontro con il Master di qualche settimana fa. Fallo oggi".
"Sì, Padrone".
Il Master di cui parla è lo stesso del racconto precedente, ma la seconda seduta è stata... brutale, profondamente sadica.

E così, poiché il racconto precedente terminava con "Oggi pomeriggio, tra mezz'ora sarò di nuovo la Sua cagna." ecco i dettagli. Il racconto sarà quindi un po’ lungo, ma il Padrone mi ha ordinato di dettagliare sia gli accadimenti che le sensazioni.
Allacciate le cinture, perché sarà un viaggio movimentato, e lo racconterò in prima persona perché non riesco ancora a sentirlo, dopo cinque settimane… con sufficiente distaccato da usare la terza persona.
Anche se la mia pelle non mostra più i segni qualcosa dentro di me ancora li porta in maniera evidente.

Dunque:

Finisco di scrivere il racconto della seduta precedente e vado in bagno a lavarmi. Questo Master mi vuole perfettamente pulita internamente e quindi irroro diligentemente e copiosamente con il doccino l’interno della bocca avida tra le mie gambe.
Il calore dell’acqua che mi riscalda mi dà un brivido e ripenso alla sua grossa mano dentro di me la settimana precedente. Com’era grossa!
Aumento un po’ la forza del getto e uso quello e tre dita, voglio che sia ben dilatata per poterlo accogliere. La volta scorsa non aveva usato alcun gel, solo la mia salita, voglio esser pronta…
Un brivido mi percorre dal collo fino alla base della schiena.
Mi alzo, tiro su il perizoma, mi aggiusto le autoreggenti e mi rivesto. Torno nel mio guscio, torno Adam, tiro l’acqua per giustificare il tempo passato nel bagno dell’azienda ed esco. Metto la giacca e vado da lui.

Obbediente alla sua richiesta del pomeriggio, gli scrivo appena esco:
“Sono uscita ora, Signore”
“OK. Cerca di muoverti”.
“Sì” - rispondo mentre affronto la rampa. Premo INVIA e me ne pento immediatamente.
“Sì cosa? Imbecille”
“Sì Signore” replico, sapendo che mi costerà.

Arrivo. Parcheggio.
Diligente, scrivo:
“Ho parcheggiato, Signore. Sto salendo”

Non ricevo risposta, ma la porta di casa è aperta. Entro, chiudo e giro la chiave come da Sue istruzioni.
Mi volto.

Uno schiaffo in pieno volto mi sbilancia.

“Sì, Signore. Si risponde ‘Sì, Signore’, ricordatelo”.

Non mi chiama mai per nome. Non mi chiama neppure “cagna” o “vacca” o “troia” come fanno i più.

Scossa, lo sguardo basso rispondo solo “Sì, Signore”, e resto immobile.

“Spogliati”. E scende i due gradini che danno verso l'ampia cucina, dove sul grande tavolo in legno intravedo le corde, i guinzagli. È più buio della volta scorsa, ci sono solo alcune grandi candele che danno alla cucina un’atmosfera dungeon.
Lo seguo e mi spoglio velocemente.
La giacca, la camicia assieme alla maglia - so che la sua pazienza è molto limitata - e li appoggio su una balaustra mentre mi sfilo gli stivaletti e faccio scivolare a terra i pantaloni. Li piego sommariamente e li appoggio assieme al resto.
Una pacca, sonora, a mano piena, sul mio culo mi riporta lì e immediatamente mi immobilizzo.
La sua mano mi afferra il collo, mi volta, mi guarda, distolgo lo sguardo istantaneamente e lo porto verso il vuoto.
Arriva comunque un altro schiaffo. Non penso nemmeno “perché?”, tanto non importa perché me ne darà quanti ne ha voglia.
Mi scuoto da quella sberla con la sua ruvida mano stretta sul mio collo che mi spinge dal basso verso l’alto. Non riesco a respirare...

“Togliti anche quelle cazzo di calze da femmina. E le mutandine”.

Annuisco appena. Non riesco a respirare…
Mi spinge ancora un poco verso l’alto.

Non riesco a respirare…

Mi lascia e fa un passo indietro indicando con la testa, con un cenno, verso le mie gambe.
Sfilo immediatamente il perizomino e poi tolgo le calze rapidamente.
Non sono una “femmina”, sono a mala pena una “cagna”, penso mentre le sfilo e mi domando se la prossima volta dovrei tenerle o se averle viste l’ha mal disposto.
Ho freddo ai piedi, ma penso che sarà l’ultimo dei miei problemi, e che tra poco dimenticherò assolutamente d’esser scalza.
Appoggio l’intimo assieme al resto, mi volto nella sua direzione e assumo la posizione, in ginocchio, le gambe leggermente divaricate, la testa bassa e i palmi sulle cosce, rivolti verso l’alto. C’è questo momento di silenzio, di attesa, in quel momento. Un brivido mi scuote ma non è il freddo, né il duro cotto del pavimento che mi manda stilettate, è una sensazione più interna, non del corpo. È il non sapere cosa accadrà.
Penso a quanto ho visto di sfuggita sul tavolo dove lui si è portato adesso, lo sento che sta prendendo degli oggetti ma so quanto sarebbe pesante la sua mano se osassi cercare di guardare.

Ecco, torna. L’occhio intravede il guinzaglio, ma al collo sento la sua mano, stavolta meno stretta ma sempre decisa. Mi accarezza ruvido, dal collo sale alla nuca e poi la mano stringe i capelli e piega la testa in maniera decisa. Mi impone un collare da cane, e poi sento lo scatto del moschettone del guinzaglio.
Sospiro.
Lo vedo girarmi attorno, un paio di volte, con in mano il guinzaglio. Quando mi rendo conto che il guinzaglio ha girato anche attorno al collo è anche il momento in cui lui lo tira strappandomi verso l’alto e il dietro. Cerco di mantenere quanto più possibile la posizione. È sopra di me, la sua faccia mi guarda, e di nuovo istintivamente e istantaneamente annullo il mio sguardo portandolo verso il vuoto. Mi guarda dall'alto e mi sputa in faccia. Due volte. Tre.
Tirata come un arco dal guinzaglio, con l’altra mano mi prende la faccia e mi ficca due dita bocca, poi subito tre, quattro, e spinge verso l’interno.

“apri questa bocca…” inizia;
“tutta la mano, forza…” continua;

e una volta dentro fino alla gola lo sento che si ferma un istante, poi torna indietro e afferra la mandibola e mi apre la bocca a forza.
Caccio un mugolio...

“zitta…”
“su questo muso la bocca deve stare e restare aperta finché mi serve…”
“hai capito…?”

Annuisco e mugugno un qualcosa che spero ardentemente lui interpreti come un sì.
Mi sputa in bocca. Ancora una volta. Ancora un'altra...
Con uno strappo del guinzaglio ancora arrotolato attorno al collo la tensione diminuisce e lo svolge con un gesto, poi lo vedo davanti a me che si sbottona la patta. Faccio uno sforzo per continuare a tenere la bocca aperta, divaricata...

“Che io non senta nemmeno per un secondo quei denti…” mi dice, poi mi infila il suo cazzo in bocca in maniera decisa tirando a sé il mio muso, la bocca divaricata. Il suo cazzo è ancora un po’ morbido e attendo i Suoi ordini ma mi assicuro di continuare a tenere la bocca divaricata, la lingua rilassata su cui sento con chiarezza poggiarsi il suo cazzo che so saper diventare molto grosso.
Ordini che arrivano nella forma di una mano che mi afferra per i capelli e mi spinge a lui e il guinzaglio nell’altra che mi allontana, in maniera ritmica mi sbatte la testa avanti a indietro…

“Tieni le labbra più chiuse, voglio scoparla questa bocca” mi dice. Obbedisco.

Allento ogni muscolo, rilasso il collo, sento le labbra e tengo la lingua morbida e inerte, il suo cazzo ora sta diventando più duro, mi apra le labbra, si accomoda fino in fondo, il naso mi sbatte sui peli del suo sesso quando mi tira a sé spingendomi dalla nuca, chiudo gli occhi, mi allontana tirandomi via con il guinzaglio di nuovo stretto attorno al collo e ripete, ripete, ripete la cosa più e più volte.
Mi lascio scopare così per dei minuti e ora il suo cazzo è duro e dritto e grosso.

Un ulteriore strappo con il guinzaglio e mi sbilancio, cado quasi di lato.
Mi prende per i capelli.
“Leccalo. Succhialo…” mi ordina e sento un poco meno la tensione sul collo. Mi avvento allora sul suo sesso, lo lecco, lecco l’asta, la cappella, la base vicino alle cosce, poi lo succhio con forza come mi aveva ordinato la settimana precedente, perché ho un disperato desiderio di compiacerlo, di soddisfare ogni sua richiesta.

“Basta. Ora stai ferma lì” e si allontana verso il tavolo che è dietro, sono di schiena, non posso vedere e non oso voltarmi. Mi concentro sull’attesa, sui suoni, cerco di intuire cosa stia prendendo e poi capisco che sono le corde.

Mi solleva tirandomi per il guinzaglio, il gesto è cosi repentino che mi taglia il respiro, mi sforzo di alzarmi ma quasi cado. Mi prende per i capelli, mi solleva e mi divarica le gambe allo stesso tempo, poi mi piega a libro, la testa bassa, la mano che spinge il collo, mi sforzo di tenere le gambe dritte. In un istante ha legato i polsi e caviglie tra loro.
Non riesco a muovermi e sento i polsi segati dai molti giri della corda e la mia unica preoccupazione è se riuscirò a stare in piedi. Ah, che ingenuità!
Al primo colpo della dura cintura di cuoio con cui mi aveva già colpito la scorsa settimana il mio pensiero si sposta sulla fitta alla schiena.
Un altro colpo che arriva fino al lato del corpo mi conferma che ho ben altro di cui preoccuparmi: non urlare. Non tollera che si urli. Non devo urlare. O mi tapperà la bocca con un limone e una benda come la volta scorsa e i colpi saranno ancora più duri.
Conto mentalmente i colpi, per cercare di spostare il pensiero dal dolore.
Uno.
Due.
Tre.
Quattrocinqueseisetteotto. Perdo il conto, non riesco a contare, la bocca è spalancata. La schiena, i glutei, le cosce, il retro delle gambe, di nuovo la schiena e soprattutto i colpi che giungono con la punta fino al fianco mi strappano il respiro in maniera atroce. Inizio a vibrare. Mi prende per i capelli.

“Ti fa male?”
Prendo fiato. Cosa dovrei rispondere? Cosa?
“Ti ha fatto male?” mi ripete stringendo la presa sui capelli.
Annuisco. Non riesco a parlare e annuisco lievemente.
“Bene. Mi piace quando ti fa male. E ora stai ferma qui, in questa posizione.” E mi divarica ulteriormente le gambe e mi inclina leggermente. La mia testa poggia su un mobile, i polsi e le caviglie sono immobilizzati, le gambe sono tese, doloranti, la schiena e le natiche pulsano…

Lui si allontana per un attimo e poi torna, ancora una volta da dietro.
Sento come un pungiglione…

“No… aghi no… per favore, no…”
“Aghi!? Imbecille, ma quali aghi! È cera” e inizia a farla colare sul mio sesso. Sono tante piccole fitte, ma meno dolorose di quanto ho provato finora. Poi si sposta sul culo e sulla bocca che ho lì e poi lungo tutta la schiena e torna infine al mio sesso e riempie di cera la microscopico clitoride, ne fa un blocco unico. Penso che è bene che non abbia peli. Sto tirando il fiato. Fa male, ma nulla a confronto di quanto ho subito pochi istanti prima.

Lo vedo che si abbassa verso di me e con un singolo gesto scioglie i nodi alle caviglie; mi sorprendo a pensare che è stato bravo, ha usato quella che in gergo si chiama “chiave”, ma ancora una volta avrei da preoccuparmi di ben altro.

“Rimettiti le mutande, ti pulirai a casa tua”.
Obbedisco immediatamente, mentre lui torna al tavolo e lo intravedo posare la grossa candela e prendere… il grosso guinzaglio intrecciato.
Ho messo appena il mio piccolo sesso tutto racchiuso in un blocco di cera bianca dentro al perizoma quando mi arriva il primo colpo con il retro del guinzaglio, dritto sulla coscia. Mi strappa un gemito che so esser stato troppo rumoroso.

“Ti devo tappare la bocca?” mi chiede ruvido.
Scuoto la testa e sento un brivido perché non so se lo farà comunque.

“Allora nemmeno un fiato” e mi tira per un braccio e mi sbatte sul tavolo, pancia sotto, i piedi toccano appena terra, lui mi tira dal braccio, la testa è schiacciata sul piano del tavolo.
Iniziano i colpi. Cerco di contare ma non riesco. Non so quanti sono ma sono tanti, e dolorosi, molto, vorrei divincolarmi ma non ci riesco, riesco appena a saltare sotto l'impatto dei suoi colpi. Lui lascia la presa e si sposta di fianco e da lì i colpi si abbattono ripetutamente, con violenza, di nuovo sulla schiena, il retro delle cosce, e sul mio culo. È un'unica interminabile fitta che sento su tutto il corpo finché il corpo stesso inizia a vibrare ma non come un orgasmo: con violenza. E arrivano ancora dei colpi su schiena e fondoschiena finché non mi dimeno, uno scuotersi incontrollato - non ho controllo, salto quasi sul tavolo, e questa sensazione di perdita di controllo su quanto sta accadendomi mi atterrisce, ho il timore di svenire - e in quel momento lui non mi colpisce più, sembra che mi stia osservando.

Non svengo, ma respiro a fatica.

Arriva allora ancora un colpo, stavolta sotto i piedi. Sto per cacciare un urlo, lo soffoco.
Mi afferra per il collare del guinzaglio e mi rimette in piedi, sento il mio corpo che si scuote ancora e ancora non riesco a controllarlo. Ondeggio come un giunco nella tempesta.

“Sdraiati, a terra, e tira su i piedi” è l'ordine che ricevo.

Capisco cosa vuole fare e so che farà male, che non lascerà segni, ma che sarà insopportabile come anche che non accetterà un no.
Mi sdraio e sollevo le gambe unite portando le piante dei miei piedi in sacrificio verso di lui.
Inizio a contare per restare lucida, gli occhi chiusi, i colpi che arrivano sulle piante dei piedi con il grosso guinzaglio intrecciato.
Uno.
Due.
Sono tre.
Sono cinque, sono sette… non so più quanti sono finché dico in un filo di voce:

“… basta… per favore, basta…”

Non avevo mai detto “basta”… a nessuno... mai prima...
Non resisto più. Ho abbassato le gambe e ora il freddo del pavimento gelato è un refrigerio per le piante in fiamme.

“Alza le gambe…”
“No, Signore… per favore…”
“Alza le gambe ho detto. Alza le gambe e te ne darò uno solo. Altrimenti ti alzi e te ne vai via.”

È una minaccia.
Ed è peggiore del pensiero dei colpi.
Allora sollevo lentamente le gambe, stringo i pugni, i denti, gli occhi… e arrivo fino a mezz’aria, ma poi come con uno schianto torno coi piedi giù a terra

“non riesco” piagnucolo.

“Alzati. Vattene”. È arrabbiato e si volta verso il tavolo con un'espressione di disprezzo.

Mi alzo e si volta verso di me mi prende per capelli.

Me li tira con forza e mi ringhia nell'orecchio: “Questa è la prima e unica e ultima volta che mi disobbedisci”, e con una mano mi rimette nella posizione in cui ero con i polsi e le caviglie legati, con l’altra prende la cinta di cuoio e… mi punisce con dieci, quindici, venti colpi ovunque - a eccezione del volto probabilmente - finché non resisto più e inizio a piangere, un pianto soffocato e dimenandomi...

“basta… basta… basta…”

Non è per pietà quando smette ma per ben altro: mi fa inginocchiare e mi infila il cazzo in bocca e inizia a scoparmi la gola fino a venirmi in faccia.

“vestiti e vattene”, mi dice, e mi allunga un pezzo di carta. Vuol dire che non potrò andare in bagno e perciò mi concentro sul vestirmi il più velocemente possibile e andare via.
Voglio andare via…
Ho paura… ho paura di non volere andar via… ho paura di voler tornare su quel tavolo, e poi di volermi sdraiare e sollevare le gambe e "chiedere perdono” per la mia insubordinazione, io, una cosa inutile perché gli ho negato la soddisfazione di sfogare interamente la sua voglia sadica, io una cosa inutile perché non ho saputo resistere ai colpi.

Per questo vado via.



E questo è quanto è successo.
Guidare, sedermi, perfino dormire sdraiata sulla schiena è stato difficile, quella notte.
I lividi sono fioriti ed esplosi di colori violacei due giorni dopo, e sono durati per quasi tre settimane. Ho documentato ogni giorno il mutare dal rosso, al nero, al viola, al giallo.
Guardare quelle foto, quell’album genera ancora adesso in me, dopo tutte queste settimane, sensazioni forti. Molto forti.

E che non so razionalizzare interamente e compiutamente.

È stato brutale.
È stato un atto di sadismo intenso al di là di cosa è stato compiuto, ma per come è stato compiuto.
Un atto di sadismo cui ho sottoposto volontariamente il mio corpo, e non solo quello.

Qualcosa che non farò più, per preservare l'integrità della bambola, fisica e psichica.
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