Lui & Lei
Puttana

04.02.2025 |
80 |
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"Sguardi impavidi di seduzione, un gioco di ammiccamenti e fughe, attese e desiderio, gomiti appoggiati sul bancone, una barriera fisica del tutto illusoria e incapace di frenare la connessione..."
A ValeL’altra sera ho chiesto ad Alexa una musica di sottofondo non impegnativa. Ho scelto Bill Evans, un jazz orecchiabile un po’ retrò con armonie leggere. Nel mentre, girando su questo sito di birbaccioni, ho aperto il suo profilo. Scorrendo le foto, tra un sorso di whisky e l’altro, pensavo a cosa le avrei scritto più tardi. Poi, lo sguardo è andato verso la cucina buia rischiarata solo dalle luci soffuse che scendono dalla cappa e ho pensato che lì dentro, lei ci sarebbe stata benissimo. È passato un po’ di tempo da quella sera, ma lei è come se fosse rimasta prigioniera nella mia cucina. In mezzo a familiari rientrati, amici abituali e ospiti casuali della mia settimana libertina, la signora delle pulizia, mia madre, la suocera, lei sta lì, ogni tanto pufffh.. all’improvviso appare, mi guarda, sorride, mi strizza l’occhio di nascosto e con una smorfia ammiccante si aggiusta il corpetto. Come una bolla di sapone sospesa nell’aria, la vedo fluttuare in controluce lì dentro, appoggiata al bancone a sorseggiare il drink che le ho preparato. Bicchiere largo di cristallo, una fetta d’arancia, un cubetto di ghiaccio e due dita di amaro dal colore ramato al profumo di bergamotto. Un incontro occasionale. Anzi, più che occasionale, un incontro voluto dal destino all’improvviso. Da quando c’eravamo sentiti la sera prima poi più nessun segnale, al punto che oramai c’avevo messo una pietra sopra già dal pomeriggio e, fatta sera, me ne ero uscito da solo a mangiare un boccone. Avevo lavorato tutto il giorno e non avevo più voglia di starmene in casa a rincoglionirmi con una partita di calcio o a rivedere un vecchio film conosciuto a memoria e visto almeno già tre volte. Ricordo che percorrevo via di Donna Olimpia con le mani nella tasca del giubbotto perchè faceva freddo nonostante fosse già aprile e questa immagine mi rimandava al Robert De Niro della locandina di taxy driver perché, effettivamente, quella sera ero molto nell’umore da taxy driver. “Che fai?” il suo messaggio improvviso e ormai del tutto inaspettato. “Mangio una cosa” la risposta secca. “E tu mangi sola?”. “Si”. Che spreco di energie, sorrisi tra me e me, realizzando poi che occupavamo in maniera irrazionale e del tutto inefficiente due tristi tavoli singoli a meno di trecento metri l’uno dall’altra. Così, sono rientrato di corsa a casa, ho fatto una doccia al volo e ho aspettato che finisse fuori dal suo ristorante. Nel mentre, pensavo a come l’avrei salutata. Quando l’ho vista all’uscita dal ristorante, la prima cosa che ho pensato è stata “mo’ se nel palazzo mi vedono rientrare con una vestita così ho finito di campare”. La seconda - immediatamente dopo - è stata “...e se pure fosse, non me ne frega un cazzo”. Sono i particolari che fanno sempre la differenza. Le scarpe sono state la prima cosa che ho notato, ma qui lo ammetto, è una tara genetica di famiglia. Le sue erano davvero belle, un tacco importante e la forma che saliva e girava intorno alla caviglia fin su quasi al polpaccio a cingere le calze a rete a maglia larga. Immagine molto provocante, devo ammetterlo. Davanti era praticamente nuda, con un giacchino nero a coprire - senza particolare successo - una scollatura pressoché totale. Così mi guarda mentre sorseggia il suo drink, con la luce soffusa che le scende addosso e veste d’ambra la sua meravigliosa pelle bianco lattea. Sguardi impavidi di seduzione, un gioco di ammiccamenti e fughe, attese e desiderio, gomiti appoggiati sul bancone, una barriera fisica del tutto illusoria e incapace di frenare la connessione mentale stabilita fin dal primo istante che ci siamo sfiorati passeggiando in strada meno di mezz’ora fa. “Siamo molto compiaciuti” a un certo punto mi dice guardandomi dritto negli occhi. Effettivamente lo eravamo, pensai, e senza staccarle gli occhi di dosso, ricordo che intinsi l’indice nel suo bicchiere e le passai qualche goccia di liquore sul capezzolo. Aveva un buon sapore, gusto elaborato e raffinato, anche se io di regola preferisco sempre il whisky. Ma era buono, dolce e profumato. "Siamo molto compiaciuti", è vero, ma più di tutto ero molto compiaciuto di me che le stavo baciando il seno al retrogusto di bergamotto ancor prima di averle dato un bacio sulla bocca. Alterazione dell’ordine convenzionale, o libera interpretazione del copione di un incontro occasionale. Il copione, quella traccia rassicurante scritta a margine della vita dove leggi cosa fare, cosa dire, quando farlo e come dirlo. Tra moglie e marito, alla fine, è sempre un copione. Coi figli è copione, con gli amici, i colleghi, i famigliari lo stesso. Negli incontri occasionali, soprattutto, prima o poi, tutto diventa un copione. Un paio di messaggi, un appuntamento in un bar o a volte direttamente in camera, due scemenze d’entrée, le calze a rete, le mutande, il sesso, le parolacce, uno schiaffo sul culo, un bacio di saluto su labbra che restano chiuse, un messaggio di ringraziamento il giorno dopo per i più raffinati, un feedback a volte e poi avanti un altro. Il copione è tranquillità, conforto, abitudine, baratto di libertà in cambio di sicurezza. Ognuno, coi suoi tempi e modi, costruisce il proprio. Lei s’era cucita addosso quello della puttana, la femmina di tutti che apre le cosce al mondo avendo scelto il cazzo come personale strumento di riappropriazione dell’ego. Così, quella sera si preparava ad incontrarmi dopo averne già strapazzati quattro nel pomeriggio. Forse è anche grazie alla loro - singolare e collettiva - inadeguatezza a essere maschi e probabilmente uomini che devo la fortuna di quell’incontro. Io, che mentre l’aspettavo fuori dal ristorante, pensando al suo saluto, ripassavo in fretta la mia parte, il copione del seduttore occasionale, la camicia bianca, la musica di sottofondo, i liquori selezionati, la ricerca del gusto estetico dove coccolare gli ospiti in transito temporaneo sulla mia vita. Ma quella sera, per noi il destino aveva deciso diversamente. Forse per la fretta di quell’appuntamento, per distrazione o forse anche per una recondita speranza di ricevere ospiti, quella sera lei era uscita lasciando la porta aperta. Lì però di solito non ci si entra o, meglio, non ci si dovrebbe mai entrare. I quattro di prima, forse, di quel luogo non ne conoscevano neppure l’esistenza. Il cazzo, lì, non ci si avventura mai. Lui si gonfia di sangue, pompa feromoni in ogni orifizio, si libera delle sue secrezioni sulle tette, saluta e se ne va. La porta era aperta però, giuro! L’ho vista di riflesso nel suo volto sfigurato dai sensi mentre le tiravo i capelli e scopavamo forte in camera. Con gli occhi mi ha implorato di violarla, di entrarci dentro e liberarla. E così l’ho violata, l’ho punita sul corpo e sulla guancia con mano ferma e parole di spregio, l’ho purificata dalle sue squallide sporcizie di strada col sudore della fronte e la sapidità delle mie lacrime mentre lei, in estasi su un letto ormai madido di umori e sesso, gemeva di piacere per questo inaspettato incontro, per la mia dolce violenza, per il mio essere maschio giusto, uomo profanatore del più vergognoso dei tesori, l’amore ultimo di una puttana che la dà a tutti ma che schiude la sua porta solo a chi è stato realmente in grado di violarla.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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