Prime Esperienze
L'invito nella zona d'ombra – Capitolo 2


01.06.2025 |
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"Alle 21:10 suonai al citofono..."
Il messaggio era arrivato come una brezza calda in pieno inverno. Uno di quei venti che non spostano solo l’aria, ma anche ciò che avevi sepolto dentro.Nel giro di qualche giorno, ci trovammo davvero. Nessun appuntamento formale, solo un’orario e un bar anonimo, quasi dimenticato dal tempo, vicino alla vecchia zona industriale. Un locale qualunque, con l’insegna stanca e una macchina del caffè che sembrava tossire a ogni erogazione.
Sedemmo in un angolo, lontani da tutto. Il suo sguardo era lo stesso di sempre: fermo, misurato, ma capace di attraversarti come uno specchio troppo nitido. Non sembrava volermi leggere—sembrava già sapere.
Parlammo poco. Le sue domande erano semplici, quasi di circostanza: “Come va il lavoro?”, “Hai più nuotato?”, ma bastava il tono per capirne la vera intenzione. Io rispondevo in modo distratto, perché ogni mio pensiero era assorbito dai suoi gesti. La mano che stringeva il bicchiere con calma, le dita lunghe che tracciavano il bordo con un’abitudine inconscia. Quando si leccò le labbra per umidificarle, il mio stomaco si contrasse in un fremito segreto.
Poi, senza cambiare tono, fece cadere la frase:
"Non pensavo ti saresti fatto vivo davvero. Quel biglietto… era una provocazione o una promessa?"
Arrossii. Non potevo evitarlo. Guardavo il fondo della tazzina, come se lì dentro ci fosse la risposta. Il corpo, però, non si ritraeva. Era il cuore a tremare, non le mani.
"Era… un gesto. Non sapevo nemmeno se l’avresti trovato. Ma sì, forse era una promessa."
Lui annuì lentamente. Poi aggiunse, con quella voce che si era fatta più ruvida, più maschia:
"Sai… il tempo non cancella certe immagini. Ti ho pensato. Più di quanto voglia ammettere."
Quelle parole mi scivolarono sotto la pelle come una carezza inaspettata. Erano più intime di qualsiasi tocco. Perché venivano da lui. Da quell’uomo che una volta mi aveva guardato e, con un mezzo sorriso, aveva detto: "Hai labbra da tenere occupate."
Alla fine, si alzò. Appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo con un gesto lento, deciso. E mi guardò dritto negli occhi:
"Se non era una provocazione, vieni a trovarmi. Quando vuoi. Troverai la porta aperta."
Fece due passi. Si fermò. Si voltò, con un mezzo sorriso, e concluse:
"Tanto so che vuoi entrare."
Mi alzai anche io, quasi senza volerlo. Uscimmo insieme. L’aria era tagliente, l’asfalto umido. Lo seguii fino al parcheggio, dove le nostre auto stavano una accanto all’altra. Prima di aprire la portiera, si girò verso di me e mi prese il polso.
Con lentezza, fece scivolare la mano lungo il mio fianco, fino a posarla sopra il mio inguine. Il tocco era deciso, fermo. Mi sfiorò attraverso i pantaloni, percependo l’erezione che mi bruciava da minuti. Non sorrise. Mi guardava soltanto.
"Te lo porti addosso, questo desiderio… da tempo. Lo sento."
Annuii. Con il respiro corto. Nessuna parola sarebbe stata più chiara del mio silenzio.
Poi mi sfilò dalle dita e, quasi fosse nulla, mi disse:
"Abito a cinque minuti da qui. Ma non serve correre. Quando decidi, sai dove bussare."
Mi allungò un foglietto con l’indirizzo scritto a penna, con la calligrafia chiara e netta che avevo visto tante volte nei rapporti tecnici del laboratorio. Salì in macchina e accese il motore. Ma prima di chiudere lo sportello, mi guardò di nuovo.
"Non fartelo dire due volte."
E ripartì, lasciandomi lì, nel silenzio elettrico di quel parcheggio. Il cuore battente. Il cazzo duro. La voglia viva.
Quella sera, mentre tornavo a casa, mi fermai davanti allo specchio. Tolsi i vestiti uno ad uno, lasciandoli scivolare sul pavimento. Rimasi solo con le labbra. Lucide. Vibranti. Vive.
E nel riflesso vidi qualcosa che non avevo più paura di riconoscere: un desiderio antico. Una fame che portava il suo nome.
I giorni che seguirono furono un lento tormento. Ogni cosa intorno a me sembrava muoversi con l’inerzia del quotidiano, ma dentro di me qualcosa si era svegliato. Un calore nuovo, instabile, che mi faceva bruciare le guance e la pelle sotto i vestiti.
Ogni dettaglio della scena al bar e del tocco nel parcheggio si ripeteva nella mia mente come un rituale segreto. Avevo ancora quel foglietto nella tasca posteriore dei jeans, piegato, leggermente stropicciato. Lo avevo letto e riletto mille volte, come se tra quelle lettere ci fosse incisa una formula. O una maledizione.
Iniziò così l’attesa. E con l’attesa, la preparazione.
Sotto la doccia passavo più tempo del solito. Non solo per lavarmi, ma per osservarmi. Per guardare il mio corpo con occhi nuovi. Il petto ancora pieno, le gambe forti. Le mani scorrevano sulle cosce, tra i glutei, sul ventre. Mi depilai nuovamente con cura: il pube, le gambe, le natiche. Come facevo quando nuotavo. Ma questa volta non c’era una gara, non c’era una piscina. C’era un uomo. E un desiderio da onorare.
Iniziai anche a fare prove davanti allo specchio. Fotografavo il mio viso con il lucidalabbra, le labbra lucide, aperte, morbide. A volte mi filmavo mentre le leccavo lentamente, come se stessi provando la forma di un gesto che avrei dovuto perfezionare presto.
Poi arrivarono le mutande. All’inizio, erano i miei boxer, arrotolati tra le natiche, come un gioco da solitari. Poi comprai un paio di slip, bianchi, semplici. Li infilai lentamente, stringendoli sotto ai glutei, facendo scivolare il tessuto fino a farlo aderire. Mi osservai così, nudo e coperto, depilato e teso.
Scattai qualche foto. Alcune le mandai. Avevo iniziato a scrivere con un altro uomo su Annunci69, che si faceva chiamare DominEmozioni. C’era qualcosa di strano e ipnotico in quel nome, un gioco di parole che mescolava dominio e sentimento, come se volesse avvertirmi che ogni emozione sarebbe stata presa, piegata, usata. Più diretto di Sergio, più esplicito. Dominante, deciso. Venne fuori che era di una provincia vicina alla mia, e la distanza sembrava solo aumentare la tensione. Mi chiedeva prove, sempre più dettagliate. Ogni suo messaggio sembrava voler abbattere una mia barriera.
All’inizio furono foto. Poi brevi video: mi riprendevo mentre annusavo le mutande dopo essermi eccitato, mentre allargavo i glutei nudi davanti allo specchio, mentre leccavo le dita con lentezza sensuale. E poi ancora: in ginocchio, nudo, con il viso abbassato. Tutto filmato con mano tremante ma decisa. Lui commentava con poche parole, secche, dure: “Di più.”, “Ora voglio vederti mentre ti sporchi.”
Una sera, dopo essermi fatto una sega pensando proprio al tocco di Sergio, raccolsi lo sperma con le dita. Lo osservai, lo annusai. E poi lo assaggiai. Girai un breve video. Lo inviai.
Lui rispose dopo pochi minuti: “Sei pronto. Ma io voglio vederti inginocchiato. E se incontri qualcuno, voglio che ti riprendi mentre lo servi. O che lo faccia lui.”
Quelle parole mi lasciarono scosso. Non per disgusto o vergogna. Ma perché qualcosa dentro di me si era appena acceso per davvero. Telegram era il nostro rifugio. Attivai l’autodistruzione. Ogni messaggio spariva. Ogni immagine era un frammento effimero di verità che nessuno avrebbe mai potuto rubare. Avevo ancora paura. Ma la paura, ora, sapeva di attesa. Di desiderio. Di prova. E ogni volta che mi guardavo allo specchio, quelle labbra lucide mi ricordavano: stai per essere usato. Come vuoi tu. La notte in cui accadde fu una di quelle che si annunciano con un silenzio più denso del solito. Avevo passato ore davanti al cellulare, tra le chat e le foto in galleria, cercando di capire cosa mancasse, cosa stessi aspettando. Poi il telefono vibrò. Era Sergio.
«Non riesco a dormire. E ho pensato a te.»
Il cuore mi salì in gola. Era la prima volta che scriveva lui per primo dopo quel giorno. Risposi subito, senza pensare: «Anche io stavo pensando a te.»
Dopo qualche scambio apparentemente casuale, arrivò il colpo:
«Quelle labbra mi sono rimaste in testa. Sono curioso di capire se rendono anche dal vivo… in ginocchio.»
Non riuscivo a rispondere subito. Guardavo lo schermo, cercando un equilibrio tra vergogna ed eccitazione. Poi, come guidato da un istinto ormai troppo forte per essere ignorato, scattai una foto. Le labbra lucide, semiaperte. La luce tenue del comodino a disegnare l’umido del gloss. Sergio visualizzò. E dopo un minuto rispose solo con una emoji: 🔥
Seguirono tre parole. Secche. Precise. Ineluttabili.
«Quando. Dove. Come.»
Lo stomaco mi si chiuse, ma la pelle era in fiamme. Risposi con la verità più semplice: «Quando vuoi tu.»
Poi, come se qualcosa si fosse rotto, continuai a scrivere. Gli confessai che da giorni immaginavo quel momento. Che avevo pensato a lui mentre mi toccavo. Che mi ero filmato, depilato, preparato. E che se avesse voluto, avrei anche potuto inginocchiarmi in silenzio, senza neppure chiedere. Solo per essere usato da lui.
Ci fu una pausa. Poi una risposta più lunga.
«Voglio vedere. Mandami ora un video. Dimmi che sei pronto. Mostrami quanto.»
Avevo già registrato qualcosa. Ma non bastava. Ne girai uno nuovo. In ginocchio. Nudo. Con il telefono poggiato su una sedia, inquadrandomi dal petto in giù. Le mani sulle cosce, la testa abbassata. La bocca aperta. Nessuna parola. Solo respiro e tensione. Quando lo ricevette, Sergio visualizzò. E poi, niente. Nessuna risposta.
Eppure, sapevo che mi stava guardando. Sapevo che, in quel momento, ero entrato davvero nella zona d’ombra che avevo sempre desiderato.
Mi coricai con il cuore in tumulto. E il telefono stretto tra le mani. Senza bisogno di sogni. Perché la notte, ormai, era già diventata realtà.
Il messaggio arrivò nel primo pomeriggio, due giorni dopo. Un semplice “stasera” con l’icona della chiave e un’ora: le 21:15.
Nulla di più. Nessun luogo, nessuna istruzione. Ma sapevo cosa voleva dire. Sapevo che si riferiva al suo garage. Una volta, Sergio mi aveva detto che quando la moglie e il figlio non erano a casa, era lì che potevamo vederci. Discreto, isolato, e senza occhi indiscreti.
Trascorsi il resto della giornata con il cuore che batteva in gola, i pensieri intrappolati tra eccitazione e ansia. Mi preparai lentamente. Scelsi con cura gli slip più attillati, quelli nuovi, bianchi, che stringevano tra le natiche depilate come una seconda pelle. Passai più volte il rasoio per essere perfetto. Indossai dei jeans morbidi, ma che segnassero appena, e sopra una felpa ampia, con il cappuccio.
Alle 21:10 suonai al citofono. La voce metallica di Sergio mi rispose soltanto con un «entra e chiudi bene dietro di te.»
Il portone del garage era già socchiuso. L’odore di olio e polvere si mescolava con quello più vivido del suo dopobarba. Lui era lì, in piedi, appoggiato a un banco da lavoro, con una lattina di birra tra le mani e uno sguardo che sembrava leggermi dentro.
Mi avvicinai. Non ci furono baci, né carezze. Ma con Sergio non serviva teatralità. Era la confidenza di chi conosce i tempi e i silenzi dell’altro. Non parlava per imporsi, ma per guidarmi con lo sguardo e con piccoli gesti. Mi fece un cenno con la testa e fu sufficiente.
Mi inginocchiai, lentamente, con la fronte quasi a sfiorargli il basso ventre. Sentivo il tessuto del suo pantalone, il calore che emanava. L’odore era forte, vissuto: una miscela densa di sudore trattenuto, pelle, dopobarba e quel fondo di umanità maschile non filtrata. Mi entrava nel naso e mi restava dentro, quasi lasciando sapore.
Il suo cazzo sotto la patta era evidente, duro, spesso. Sembrava premere contro il tessuto solo per essere sentito. E io lo sentivo tutto: la forma, il peso, la durezza. Le labbra seguirono il rilievo della patta, a cercare la sua forma, a mappare con la bocca un confine proibito ma già segnato.
«Fermo così» disse, con voce bassa, calda. «Non serve altro.»
Parlava piano, ma la sua presenza era ferma. Non doveva alzare la voce, non doveva umiliarmi. Bastava essere lì, sapere che ero davanti a lui. Lo faceva con naturalezza, come se quel momento fosse una pausa tra due gesti abituali, come bere un sorso di birra o accendere una sigaretta.
Con lentezza presi il mio cellulare. Volevo fissare quell’istante. Lo sistemai sul banco da lavoro, in modo da catturare l’inquadratura dal mio punto di vista: il jeans tirato, la patta tesa, il mio viso in ombra contro quel tessuto vivo.
Era un video per DominEmozioni, sì. Ma in quel momento, era anche per Sergio. Perché mi lasciava fare. Perché accettava di essere guardato così. Quando me ne andai, mi fissò un solo istante.
«Vediamo se te lo meriti davvero» disse.
E chiuse il portone con calma, lasciando dentro di me una fitta strana. Come se avesse aperto qualcosa che non si sarebbe più richiuso. Il video era pronto. Lo rividi una, due, tre volte. Ogni fotogramma sembrava più intenso del precedente. Le mie labbra timide ma curiose, la stoffa tesa, quel profilo che diceva più di mille parole. Ma non bastava più tenerlo per me. Quella sera stessa, con le mani che tremavano e lo stomaco contratto, lo inviai a DominEmozioni su Telegram. La consegna di qualcosa di privato, di mio, nella sua direzione.
Non rispose subito. Per ore il messaggio rimase con la sola spunta singola. Ma bastò ricevere, alle due e ventitré del mattino, un semplice “Bravo.”
E subito dopo: “Adesso che l’hai fatto, senti quella voragine anche tu, vero?”
Sì. Era esattamente così. Come se avessi scavato dentro me stesso per mostrargli qualcosa, ma anziché riempire quel vuoto, l’avessi reso più profondo. Come se il gesto stesso – la registrazione, l’invio – avesse aperto una crepa, e da lì filtrasse qualcosa di più oscuro, più autentico, più crudo.
DominEmozioni non chiese altro quella notte. Ma il giorno dopo, tornò con nuove istruzioni.
“Domani ti voglio sveglio alle sei. Prima che inizi il tuo turno. Fai colazione con quello che hai nel frigo. Ma poi… lo voglio vedere. Tutto. Fino all’ultima goccia.”
All’inizio non capii. Poi compresi. Voleva che lo facessi per lui. Che mi facessi venire. Che raccogliessi tutto. Che lo annusassi. Che lo assaggiassi. Pochi minuti dopo, un altro messaggio:
“Se vuoi diventare ciò che dici… devi cominciare da te stesso. Devi abituarti al tuo odore, al tuo sapore. Devi imparare a bere il tuo sperma, a ingoiarlo. Solo così potrai davvero bere quello degli altri. E non solo quello.”
Un’ultima nota, più secca, come un avvertimento:
“E quando sarai con me… voglio che ti stringa le palle. Che ti blocchi le erezioni. O sarò io a farlo. Con una gabbietta. Così impari a essere quello che dici. Quello che vuoi.”
La sua voce non c’era, ma le sue parole vibravano nello schermo come una scossa. Crude. Dirette. Vere.
E io? Ero già duro. E quella fame, quella sete, quell’inquietudine… si fecero carne, fino a diventare necessità.
Alle sei in punto, ancora prima che la sveglia potesse suonare, ero sveglio. Avevo dormito poco e male, il cuore che correva e lo stomaco annodato. Ma la mente… la mente era limpida. Decisa. Le istruzioni erano state chiare. Non ci sarebbe stato modo di sottrarsi.
Mi mossi in casa in silenzio, a piedi nudi, quasi come se temessi di essere scoperto. Preparai la colazione, ma non la toccai. DominEmozioni voleva che fosse dopo. Dopo di me.
Mi sedetti sul bordo del letto, il telefono puntato come richiesto, la luce che filtrava appena dalle tapparelle abbassate. E cominciai.
Lo feci lentamente. Non solo per eccitazione, ma per rispetto. Perché ogni gesto, ogni tocco, ogni respiro, era un’offerta. A lui. A ciò che stavo diventando. E ogni movimento veniva ripreso, come richiesto. DominEmozioni voleva tutto. Ogni fase. Ogni dettaglio. Il risveglio, il respiro, la preparazione, la tensione.
Quando venni, fu breve ma potente. Un sussulto che attraversò il corpo e la mente. E come ordinato, raccolsi tutto. Ma non sul palmo: in un bicchiere di vetro trasparente, come mi era stato suggerito, per mostrare quanto fosse stato intenso. Ero rimasto senza toccarmi per giorni, su richiesta. DominEmozioni voleva vedere la quantità, il risultato concreto di quell'attesa obbediente.
Il bicchiere si riempì con un liquido denso, biancastro, ancora caldo. Lo osservai, col cuore che batteva forte. Era il mio corpo, la mia vergogna e il mio orgoglio, insieme. Lo portai al naso. Il profumo era forte, salmastro, muschiato. La prova olfattiva fu intensa, più della volta precedente. Mi bruciò in gola ancora prima di assaggiarlo.
Poi presi un sorso. Il gusto era pieno, persistente, vischioso. Ne ingoiai una parte, tremando. Poi l’altra. Fino a finire tutto, senza lasciare nulla.
Solo allora, mentre il bicchiere era vuoto e il mio stomaco pieno di me stesso, conclusi la registrazione del video. Ogni fase era documentata. Ogni ordine eseguito. Lo inviai. Non c’erano parole da aggiungere. Lui sapeva.
E io, per la prima volta, cominciavo davvero a capire chi stavo diventando.
Il video era stato inviato da pochi minuti, eppure il cuore continuava a martellare nel petto come se dovesse ricevere una sentenza imminente. E in effetti, quel messaggio in arrivo aveva tutto il peso di un giudizio.
DominEmozioni rispose con poche parole. Precise. Secche. Ma cariche di potere: “Bene. Così voglio vederti. Vuoto. Sottomesso. Pronto.”
Seguirono altre istruzioni. Avrei dovuto restare così per almeno altri tre giorni: niente tocco, niente eiaculazione, solo controllo e silenzio. Mi chiese di fotografare le mutande ogni sera, mostrando l'effetto della tensione repressa. E ogni mattina, un breve video del mio corpo nudo, girato in silenzio, con le luci basse e lo sguardo rivolto a terra.
Ma non era finita lì. Il passo successivo era chiaro: voleva che imparassi a mostrarmi anche fuori casa. Con prudenza, certo. Ma senza più giustificazioni. Dovevo uscire indossando uno slip più aderente, magari un tessuto lucido o colorato, e sotto i pantaloni larghi o una tuta. Dovevo sentire la pressione del tessuto tra le natiche, mentre camminavo in pubblico. Dovevo sapere che stavo obbedendo anche lì, fuori.
Mi spinse anche oltre. “Domani mattina mi mostri un intimo più piccolo. Sfacciato. Sì, anche se resta maschile. Voglio vederti provocante, ridotto. Poi ti cambi. Niente intimo. Esci così. E torni nel posto del primo incontro con Sergio. Senza vederlo. Solo per respirare quell’aria. Restaci dieci minuti. Poi vattene. E mandami la registrazione audio del tuo respiro mentre sei lì.”
Sapeva come entrare nella mia mente. Come far germogliare le sue volontà dentro il mio desiderio.
Quel giorno passò lento. Ogni gesto sembrava amplificato, ogni parola detta sul lavoro sembrava fuori luogo rispetto alla marea che mi scorreva dentro. Ma aspettai.
La mattina seguente scelsi uno slip stretto, bianco, aderente come una seconda pelle. Lo indossai, lo fotografai. Poi lo tolsi. Nessuna protezione. Nessun filtro. Solo pantaloni larghi, una felpa leggera. E così, con il telefono in tasca e la registrazione attiva, tornai nel parcheggio.
Non dissi nulla. Solo respiri, spezzati. Profondi. Quelli del corpo, ma anche quelli dell’anima. E una tensione nuova, data dal freddo del tessuto, dal brivido del rischio. Mandai anche quello.
E quando arrivò la risposta – solo un’emoji 🔥 – sentii che un nuovo confine era stato superato.
La risposta di DominEmozioni arrivò il pomeriggio seguente. Questa volta non c’erano solo parole. C’era un’idea precisa, un’istruzione più spinta, più pericolosa. “Ora mostrati. Voglio un video. Fuori. In un luogo reale. Voglio vederti mentre ti esponi. Solleva la felpa, lascia che la videocamera veda lo slip ridicolo che indossi. Mostra il sedere. Toglilo. E lascialo lì, dove qualcuno potrebbe trovarlo. Uno come quelli colorati e lucidi che ti ho mandato. Scegline uno. E fallo diventare il tuo segnale.”
il pomeriggio seguente. Questa volta non c’erano solo parole. C’era un’idea precisa, un’istruzione più spinta, più pericolosa. “Ora mostrati. Voglio un video. Fuori. In un luogo reale. Voglio vederti mentre ti esponi. Solleva la felpa, lascia che la videocamera veda lo slip ridicolo che indossi. Mostra il sedere. Toglilo. E lascialo lì, dove qualcuno potrebbe trovarlo.”
Il cuore accelerò subito. Era un salto. Un altro. Ma anche un desiderio. Il desiderio di oltrepassare la soglia. Di diventare visibile. Reale. Trasformato.
Scelsi un posto appartato ma frequentato saltuariamente: un sentiero vicino al parco della zona industriale, poco lontano da dove avevo fatto i primi respiri. C’erano dei cespugli, una panchina isolata, e un lampione guasto che lasciava quell’area nell’ombra.
Mi vestii con cura: pantaloni leggeri, una felpa lunga, sotto lo stesso slip nero lucido. Portai con me un altro cellulare, dedicato solo a DominEmozioni. E lì, in quell’angolo semi-nascosto ma pericolosamente vicino al passaggio, impostai la videocamera e iniziai a girare.
Sollevai la felpa. Lentamente. Fino a scoprire lo slip. Poi mi voltai, feci inquadrare il sedere e lentamente, con un respiro spezzato, abbassai lo slip lasciandolo sfilare lungo le gambe. Rimasi così. Per diversi secondi. Nudo sotto. Il cazzo duro, ma nascosto. I brividi della pelle scoperta. Poi raccolsi lo slip e lo lasciai piegato sulla panchina, come fosse stato dimenticato. Come un messaggio. Senza voltarmi, spensi il video. E me ne andai.
Quella sera lo inviai. Con un solo messaggio allegato:
“Mi sto lasciando andare.”
E lui, glaciale e preciso, rispose: “Lo so. E questo è solo l’inizio.”
Quella notte non dormii. Le immagini del video, il gesto compiuto, l’eco della risposta di DominEmozioni: tutto restava inciso sulla pelle e nella mente come un tatuaggio invisibile. Ma chiaro. Definitivo.
Restai steso, nudo, le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe, mentre il buio della stanza sembrava sussurrare i comandi di quelle ultime settimane. Ogni respiro era una memoria del desiderio, ogni brivido una richiesta ancora aperta. Ma più di tutto, tra le immagini che mi attraversavano, c’era lui. Sergio. Il primo. Il reale. L’uomo che aveva innescato tutto.
Ripensai a quel garage, alla lattina tra le dita, a come mi aveva guardato dall’alto mentre ero in ginocchio. E a quella frase, incisa dentro: “Vediamo se te lo meriti davvero.”
Lo presi come una promessa. E forse, dopo tutto questo, il momento era arrivato.
Alle 07:46, ancora con l’odore del mio corpo addosso, le labbra secche, gli occhi lucidi, scrissi il messaggio. Diretto. Sincero. Corto. Come chi si arrende. Come chi è pronto.
“Sergio, sono pronto. Se lo sei anche tu, dimmelo.”
Passarono sette minuti. Sette minuti lunghi, feroci. Poi la sua risposta arrivò. Tre parole sole. Taglienti.
“Stasera. Garage. Solito orario.”
Il cuore non tremò. Iniziò a battere con precisione. Ritmica. Come una marcia.
Mi alzai. Mi guardai allo specchio. Non ero lo stesso.
Sapevo cosa significava. Sapevo che, ora, tutto ciò che avevo attraversato – prove, video, desideri – non era più solo preparazione.
Era inizio. Era consegna. Era lui.
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