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Prime Esperienze

Letteratura Latina: Lydia Atto 4


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
16.05.2025    |    65    |    1 9.0
"Ma il prezzo era alto, e la legge romana, un lupo famelico, avrebbe potuto divorarli entrambi..."
Il mattino di Pompei si accendeva come un braciere, il sole che lambiva le strade selciate, sollevando odori di pietra calda e pane appena sfornato. Il Lupanare, ancora assopito, si preparava al suo eterno rito di piacere e dolore, le mura screpolate vegliate dagli affreschi di Venere e Priapo, testimoni muti di un’umanità in catene. Gaius Julius, tornato dalla polvere di Neapolis, attraversò i vicoli con il cuore che galoppava come un destriero, il desiderio di Lydia, la sua greca dagli occhi zaffiro, che gli bruciava l’anima. All’Hora Quarta, quando le prime ombre si ritiravano, varcò la soglia della sua cella, il passo deciso di un guerriero che cerca il suo porto.
Lydia era lì, ma non era la musa solare che ricordava. Il suo corpo, un’arpa dalle corde spezzate, giaceva su un letto di pietra, la pelle olivastra segnata da ombre di fatica, i capelli neri scompigliati come un mare in tempesta. Eppure, quando lo vide, un sorriso, fragile ma vivo, le illuminò il volto, un raggio che trafiggeva le nubi. “Gaius,” sussurrò, la voce un filo di seta. Lui, chiamandola per nome, si avvicinò, le labbra che sfioravano le sue in un bacio dolce come il miele di Lesbo. Le loro bocche si fusero, un vortice di calore che cancellava il mondo, le lingue che danzavano come fili di un arazzo. Gaius la strinse, le mani che accarezzavano il seno, due frutti maturi, e la tunica azzurra scivolò come acqua, rivelando il giardino di Venere, un lago di nettare che chiamava il suo desiderio.
Si sdraiarono, i corpi intrecciati come edera, e per la prima volta non fu solo carne, ma amore. Gaius, con la possente verga tesa come il remo di una galea, la penetrò con lentezza, un rivo che scorre tra le rocce, il caldo antro di Lydia che lo accoglieva con un suono bagnato, un inno osceno che riempiva la cella. Ogni affondo era un’onda, il seno di lei che tremava, il sudore che li univa come un patto antico. Lydia gemette, un canto vivo, le mani che si aggrappavano alle sue spalle, il corpo che si inarcava come un arco sotto la pioggia. Il ritmo si fece selvaggio, un tuono che scuoteva il letto, e quando il piacere montò, un vulcano pronto a eruttare, Gaius riversò il suo caldo seme nel grembo di lei, un fiume bollente che la scaldava dall’interno. Lydia tremò, il suo orgasmo un’onda che la scosse, un grido che squarciò il silenzio, le braccia che lo stringevano come se temesse di perderlo. Ansimanti, si guardarono, i corpi ancora fusi, il cuore di lei che batteva contro il suo, un tamburo di guerra e amore.

Ma la luce del loro abbraccio si spense sotto un’ombra di dolore. Lydia, con il volto rigato di lacrime, si raggomitolò contro Gaius, la voce spezzata come un giunco. “Non è più vita, questa,” mormorò, e gli confidò le angherie che la straziavano. Il lenone, lupo famelico, la trascinava nuda per le vie, un guinzaglio al collo come una bestia, il seno esposto agli sguardi lascivi, il corpo un trofeo per mercanti e patrizi. Ma l’ultima umiliazione, un marchio di vergogna, era stata la più crudele. Una sera tarda, sotto un cielo di stelle indifferenti, il lenone l’aveva posta alla gogna davanti al Lupanare, le mani legate, il culo sollevato come un’offerta agli dei della lussuria. La folla, un’orda di ombre senza nome, si era accalcata, marinai dai volti bruciati dal sole, ubriachi dalle mani rapaci, che la prendevano senza ritegno. Ogni uomo, con la verga tesa come una lancia, affondava nel suo fiore nascosto, un porto violato che pulsava di dolore. I loro affondi, rapidi e brutali, erano tempeste che la scuotevano, il suono della carne che si apriva un inno osceno che echeggiava nella notte. Uno dopo l’altro, riversavano i loro caldi ruscelli, un’offerta amara che le colava lungo le cosce, il sudore e il seme che si mescolavano alla polvere della strada. Lydia, con il cuore che gridava, non poteva muoversi, il corpo un altare profanato, il culo dolente che la tormentava. Per due giorni, non riuscì a sedersi, ogni movimento un pugnale che le trafiggeva la carne, e il lenone, ridendo, la scherniva: “Un vaso rotto è più utile di te.” La vergogna, un manto di cenere, la soffocava, ma il desiderio di vendetta, un vulcano che ribolliva, le accendeva l’anima. Confessò a Gaius il suo piano: uccidere il lenone, affondare il pugnale di Drusilla nella sua gola. Ma la paura, un’ombra che sussurrava, la frenava: se scoperta, l’aspettavano la forca, il collo spezzato sotto il peso della legge romana. Gaius, il volto scolpito dalla furia, la strinse, il calore del suo abbraccio un faro nella tempesta. “Non sei sola, Lydia,” giurò, e dalla tunica estrasse una collana di corallo rosso, un gioiello che brillava come sangue vivo. Gliela posò al collo, un pegno d’amore e promessa.

La sera, Gaius tornò al Lupanare, il cuore pesante come piombo, ma la cella di Lydia era un tempio conteso. Tre uomini anziani, dai volti rugosi come papiro antico, attendevano il loro turno, le monete già nelle mani del lenone. Gaius, respinto, si ritirò nell’ombra, il desiderio di vedere Lydia che lo spingeva agli spioncini, fessure nelle mura che offrivano uno spettacolo crudo ai voyeur. Là, sotto la luce fumosa delle lucerne, vide un vecchio, forse sessantenne, la barba bianca come schiuma di mare, che dominava la cella. Con un ghigno, afferrò i capelli neri di Lydia, spingendo il suo viso verso la verga, un’asta floscia ma tesa dall’ardore. “Succhialo, cagna greca,” grugnì, e Lydia, gli occhi velati di distacco, accolse la verga nella sua bocca calda, la lingua che danzava come un’onda costretta, un bacio che era sacrificio. Il vecchio gemette, un rantolo che era tempesta, e con una mano le assestò uno schiaffo, il suono che echeggiava come un tuono. La fece girare, il culo di lei un arco di marmo, e la penetrò con violenza, la verga che affondava nel giardino di Venere, un lago martoriato che si apriva con un suono bagnato. “Troia da taverna,” ringhiò, ogni affondo un maglio che scuoteva il letto, il seno di Lydia che tremava, il sudore che le colava come un ruscello. Il ritmo si fece selvaggio, un’orda che saccheggia, e il vecchio, con un ruggito che squarciò la cella, riversò il suo caldo seme nel grembo di lei, un ruscello amaro che la marchiava. Ansimante, si ritrasse, ordinandole di pulirlo. Lydia, inginocchiata, accolse la verga nella bocca, la lingua che lambiva il sapore salato, un rito di sottomissione. Ma il vecchio, non sazio, le assestò uno schiaffo sul giardino di Venere, un colpo che la fece contrarre, un grido di dolore che le sfuggì. Poi, con un gesto di disprezzo, uno schiaffo sonoro le colpì il viso, lasciandola tremante, un fiore calpestato sotto un cielo di cenere. Gaius, dall’ombra dello spioncino, sentì il cuore spezzarsi, la furia che gli ribolliva come lava. La vista di Lydia, degradata e umiliata, era un pugnale che lo trafiggeva. Incapace di sopportare oltre, si allontanò, il passo pesante, il giuramento di salvarla che gli bruciava l’anima come un braciere.
Nella penombra della sua stanza, illuminata da una lucerna fumosa, Gaius escogitava un piano: corrompere un mercante di schiavi, rubare Lydia sotto il velo della notte e condurla a Neapolis, lontano dalle grinfie del lenone. Ma il prezzo era alto, e la legge romana, un lupo famelico, avrebbe potuto divorarli entrambi. Eppure, il fuoco del suo amore, un vulcano che ribolliva, lo spingeva a osare.
La sua mente, però, fu tradita dalla lingua. Lysander, il giovinetto dai capelli d’oro che a Neapolis aveva conquistato i suoi lombi, era tornato con lui, un’ombra che lo seguiva come un cane fedele. Lysander, innamorato perso, vedeva in Gaius non solo un guerriero, ma un dio da venerare, e la sua devozione, un miele che inebriava, nascondeva un cuore geloso. Quella sera, mentre Gaius, disteso su un letto di panni, confidava il suo piano, Lysander, inginocchiato come un sacerdote davanti a un altare, accoglieva la possente verga del centurione nella sua bocca calda. Le labbra, morbide come petali, si chiudevano intorno, la lingua che danzava come un’onda sulla scogliera, un bacio che era canto e promessa. “Tutto andrà bene, mio signore,” sussurrava tra un succhio e l’altro, la voce un flauto che incantava, mentre le sue mani, esperte come quelle di un arpista, pizzicavano corde di piacere. Gaius, il cuore diviso tra il piano e il fuoco nei lombi, gemette, un rantolo che si perdeva nella notte.
Lysander, con un sorriso malizioso, si alzò, il corpo liscio come marmo che brillava alla luce della lucerna. Salì sopra Gaius, guidando la verga tesa come il remo di una galea verso il suo fiore nascosto, un porto stretto che lo accolse con un calore che era tempesta. Si mosse con forza, le anche che danzavano come un’onda che si infrange, la mano che accarezzava la sua giovane verga, un’asta di bronzo che pulsava di desiderio. Ogni affondo era un tuono, il letto che gemeva sotto il loro ritmo, i gemiti di Lysander un coro di usignoli. Quando Gaius, travolto, riversò il suo caldo seme nel profondo del giovinetto, un ruscello bollente che gli scaldava l’intestino, Lysander tremò, il suo piacere che esplodeva come un vulcano, schizzando perle di nettare sul petto scolpito di Gaius. Ansimante, si precipitò a leccare ogni goccia, la lingua che lambiva il sudore e il seme, un rito di devozione che non lasciava traccia di sporco.
Gaius, esausto, si abbandonò al sonno, il cuore pensieroso, tormentato dal rischio del suo piano. Ma Lysander, gli occhi come olive mature che brillavano di un’ombra oscura, vegliava. Il suo amore, un laccio che stringeva, non poteva tollerare la perdita del suo dio. Nella mente del giovinetto, un piano prendeva forma: tradire Gaius, rivelare il suo intento al lenone, assicurarsi che Lydia rimanesse incatenata e che Gaius, legato a lui, non lo abbandonasse mai. La notte, complice silenziosa, custodiva il suo segreto, mentre Pompei dormiva sotto un cielo di cenere, ignara del destino che tesseva i suoi fili.

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