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Prime Esperienze

Letteratura Latina: Lydia Atto 5


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
16.05.2025    |    268    |    1 7.1
"“Bel cucciolo, ” grugnì, e prima che il giovinetto potesse parlare, una mano unta d’olio di rose violò il suo fiore nascosto, spalancandolo con un gesto brutale..."
Il mattino di Pompei si accendeva come un braciere d’oro, il sole che lambiva le strade selciate, sollevando odori di pietra cotta, pane appena sfornato e salsedine. I carretti stridevano sotto il peso di anfore di vino, le grida dei mercanti si mescolavano al raglio degli asini, e l’aria, un mosaico di profumi, portava il fumo delle lucerne e l’olio di rose delle matrone. Nel Lupanare, cuore oscuro della città, le mura screpolate sussurravano storie di piacere e dolore, illuminate dagli affreschi di Venere che cavalcava amanti alati e Priapo dal fallo svettante. Gaius Julius, tornato dalla polvere di Neapolis, si mosse con l’astuzia di un lupo, il cuore un vulcano che ribolliva per Lydia, la sua greca dagli occhi zaffiro, prigioniera di un tiranno. La visione di lei, umiliata alla gogna, il corpo profanato da mani rapaci, gli trafiggeva l’anima come un dardo. Il suo piano era chiaro: rapirla al tramonto, corrompere un mercante di schiavi e condurla a Neapolis, lontano dal lenone. Ma la legge romana, un’arpia dalle ali di ferro, poteva divorarli, e il prezzo della libertà era un abisso di sesterzi.
Nella penombra di una locanda, Gaius affidò il messaggio a Lysander, il giovinetto dai capelli d’oro che gli scaldava il letto. “Porta a Lydia la mia promessa,” ordinò, porgendogli venti assi, il prezzo di un banchetto completo, per fingersi un cliente e non destar sospetti. “Dille che stasera, quando il sole si spegne, la strapperò a questo inferno.” Lysander, gli occhi come olive mature che celavano un’ombra di gelosia, annuì, il cuore diviso tra l’amore ossessivo per Gaius e il tradimento che aveva accarezzato. Le monete, strette nel pugno, erano un peso che lo ancorava al suo compito, ma il ricordo delle parole del lenone, un veleno che mordeva, lo tormentava. Con la tunica leggera che accarezzava il suo corpo esile, si avviò verso il Lupanare, il passo incerto come un fauno smarrito in un bosco di ombre.
All’Hora Quarta, quando le lucerne fumose accendevano il bordello, Lysander varcò la soglia, l’aria densa di olio bruciato, vino versato e carne stanca. Il lenone, un tiranno dal volto scavato come un papiro antico, lo squadrò, il ghigno di un satiro che fiuta la preda. “Che abbiamo qui, un fiorellino che cerca lavoro?” sghignazzò, la voce come ghiaia che gratta la pietra. “Vestiti da donna, ragazzo, con quel corpo da efebo attirerai marinai e patrizi!” Le sue parole, un laccio che stringeva, schernivano Lysander, riducendolo a un’ombra tremante. “O forse vuoi imparare il mestiere succhiando il mio?” continuò, afferrandosi l’inguine con una risata oscena. Lysander, il volto arrossato dalla vergogna, mostrò i venti assi, le monete che scintillavano come promesse di peccato. Il lenone, con un sorriso viscido che scopriva denti gialli, gli indicò la cella di Lydia. “Vai, cucciolo, ma non svenire,” sibilò, e Lysander, l’anima stravolta dalla crudeltà di quell’uomo, sentì il suo piano di tradimento sgretolarsi. L’infamia del lenone, un lupo che sbrana senza ritegno, accese in lui un barlume di pietà per la schiava che Gaius amava, e ogni passo verso la cella era un colpo che spezzava le sue convinzioni.
La porta si aprì su una cella angusta, illuminata da una lucerna che gettava ombre danzanti sugli affreschi di ninfe e satiri. Lydia era lì, un’arpa dalle corde spezzate, la pelle olivastra segnata da ombre di fatica, i capelli neri scompigliati come un mare in tempesta. La tunica azzurra, trasparente come un soffio di zefiro, scivolava sul suo corpo, lasciando il seno scoperto, due frutti maturi che tremavano a ogni respiro. Vedendo la giovinezza di Lysander, gli offrì un sorriso solare, un raggio che trafiggeva le ombre del Lupanare. “Vieni, piccolo, non temere,” sussurrò, la voce un filo di seta che leniva il suo imbarazzo. Si avvicinò, le mani morbide che slacciavano la tunica del giovinetto, trovando la giovane verga, un’asta di bronzo ancora timida, nascosta tra ciuffi dorati. La massaggiò con dolcezza, le dita che danzavano come un’arpista su corde di piacere, un ritmo lento che accendeva il fuoco nei lombi di Lysander. La verga, risvegliata, si ergeva, pulsante come una lancia pronta a colpire, e Lydia, con un sorriso che era invito e compassione, si chinò, la sua bocca calda che l’accoglieva, le labbra che si chiudevano come petali intorno a un bocciolo. La lingua danzava, lenta e poi veloce, tracciando sentieri di calore, il sapore salato che le riempiva i sensi, un nettare che parlava di giovinezza e timore. Lysander gemette, un suono che era tempesta nascente, le mani che si aggrappavano ai capelli neri di lei, un’ancora in un mare di piacere. Ogni succhio era un’onda che lo travolgeva, il calore della bocca di Lydia che lo portava al confine dell’estasi, ma lei, esperta, si ritrasse, lasciando la verga tesa e fremente.
“Non aver paura,” mormorò, sdraiandosi sul letto di pietra, le cosce spalancate come un tempio che si apre al suo fedele. Il giardino di Venere, un lago di nettare gocciolante, brillava alla luce della lucerna, un invito che Lysander, imbarazzato ma spinto dal fuoco nei lombi, non poté rifiutare. “Prendimi, ragazzo,” sussurrò Lydia, e lui, con un respiro spezzato, si posizionò sopra di lei, la verga che affondava nel caldo antro del piacere con un suono bagnato, un inno osceno che riempiva la cella. Ogni affondo era un’onda timida, il corpo esile di Lysander che si muoveva con goffaggine, il seno di Lydia che tremava sotto la sua inesperienza. Il ritmo, incerto come un rematore novizio, era un canto di desiderio represso, e Lysander, sopraffatto, sentì il piacere montare come un vulcano. Dopo pochi colpi, la verga pulsò, e con un gemito che era canto e vergogna, riversò il suo caldo seme nel grembo di Lydia, un ruscello bollente che la scaldava dall’interno, un’offerta che si mescolava al sudore e agli umori. Lei, con un sorriso che mascherava la sua stanchezza, lo accarezzò, le mani che sfioravano il suo viso come una madre con un figlio smarrito, il seno che si alzava e abbassava, due frutti maturi che brillavano alla luce tremula.
Ma un’ombra si mosse alle loro spalle, un lupo che fiuta la preda. Il lenone, con un ghigno che scopriva zanne di lussuria, era entrato, le mani rapaci che palpavano il culo di Lysander, un arco di marmo ancora tremante. “Bel cucciolo,” grugnì, e prima che il giovinetto potesse parlare, una mano unta d’olio di rose violò il suo fiore nascosto, spalancandolo con un gesto brutale. La possente verga del lenone, tesa come l’asta di una lancia, lo penetrò con una furia che era conquista e dominio, ogni affondo un maglio che scuoteva il corpo di Lysander. Il dolore, un fulmine che trafiggeva, si mescolava a un piacere inatteso, e Lysander, intrappolato sopra Lydia, gemette, un suono che era tempesta e supplica. Il lenone, con un ritmo selvaggio, affondava nel profondo del giovinetto, il suono della carne che si apriva un inno primordiale che si mescolava al crepitio della lucerna. Lydia, con il cuore che gridava per la sua umiliazione, gli massaggiò la verga con dita esperte, un balsamo per lenire la sua vergogna, pizzicando la base con una dolcezza che era venerazione. Ogni colpo del lenone era un tuono, il corpo di Lysander che si piegava come un giunco sotto la tempesta, e quando il piacere montò, un vulcano pronto a eruttare, il tiranno, con un ruggito animalesco, riversò il suo caldo seme nel fiore nascosto del giovinetto, un ruscello bollente che gli scaldava l’intestino, un’offerta amara che lo marchiava. Lysander, travolto, tremò, il suo piacere che esplodeva di nuovo, schizzando perle di nettare sulle mani di Lydia, un sacrificio agli dei della vergogna.
Il lenone, non sazio, estrasse la verga, sporca di seme e umori, e la spinse nella bocca di Lydia. “Pulisci, cagna,” grugnì, e lei, gli occhi velati di distacco, la accolse, la lingua che lambiva il sapore amaro, un rito di sottomissione che le pesava sull’anima. La verga, ancora pulsante, riempiva la sua bocca, il gusto acre che si mescolava al sudore e al seme, un nettare osceno che le pizzicava i sensi. Il lenone, soddisfatto, si pulì sul suo viso, un gesto di disprezzo che la marchiava, e con un ultimo ghigno sibilò: “Venti assi, il trattamento completo.” La sua risata, un tuono che echeggiava nella cella, lo accompagnò fuori, lasciando i due soli, ombre spezzate sotto la luce fumosa.
Lysander, il corpo tremante, si ricompose, il volto rigato di vergogna. Lydia, con un gesto lento, si lavò in un bacile d’acqua, il cuore un tamburo che batteva di dolore e speranza. Il giovinetto, l’anima in tumulto, si inginocchiò accanto a lei, la voce un sussurro spezzato. “Gaius mi manda,” confessò, gli occhi che evitavano i suoi. “Stasera, al tramonto, ti rapirà, ti porterà via da questo inferno.” Lydia, gli occhi zaffiro che scintillavano di una luce nuova, strinse la collana di corallo rosso al collo, un pegno d’amore che le scaldava il petto. “Digli che lo aspetto,” mormorò, la voce un filo di seta, il sogno di libertà che le accendeva l’anima.
Lysander lasciò la cella, il cuore diviso. La crudeltà del lenone aveva spezzato il suo piano di tradimento, e la pietà per Lydia, un fiore calpestato, lo spingeva a onorare la promessa di Gaius. Ma la notte, complice oscura, custodiva ancora i suoi segreti, e il tramonto, un manto di porpora, si avvicinava, portando con sé la promessa di salvezza o rovina. Lydia, sola, guardò l’affresco di una ninfa inseguita da un satiro, il pugnale di Drusilla nascosto sotto il giaciglio, un sussurro di vendetta che le scaldava il sangue. Il Vesuvio, gigante silente, vegliava, e il destino, tessitore capriccioso, attendeva di svelare il suo disegno.

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