Prime Esperienze
Letteratura Latina: Lydia Atto 2


16.05.2025 |
322 |
1
"“Dimmi, centurione, preferisci forse i giovinetti cortigiani, che danzano per i tuoi capi nei banchetti?” chiese, la voce un sussurro che nascondeva un’ombra di gioco..."
Il pomeriggio di Pompei si stendeva come un manto dorato, il sole che carezzava le strade selciate con un calore che sollevava odori di pietra cotta e polvere. I carretti, carichi di anfore di vino e ceste di olive, stridevano sotto il peso, le ruote di legno che cantavano un lamento antico, mentre gli asini ragliavano, pigri sotto il giogo. Nei vicoli, i ragazzini giocavano a fare i soldati, brandendo bastoni come spade, le loro grida di guerra che si mescolavano al clangore delle botteghe e al richiamo dei mercanti. L’aria era un mosaico di profumi: il pane caldo che usciva dai forni, l’olio di rose delle matrone che passeggiavano sotto i portici, il sudore acre dei lavoratori e il fumo delle lucerne che tremolavano nelle case. Nel Lupanare, il cuore oscuro della città, l’atmosfera era più densa, un abbraccio soffocante di olio bruciato, vino versato e carne stanca. Gli affreschi di Venere e Priapo danzavano sotto la luce incerta, testimoni muti dei desideri che si consumavano tra le mura screpolate.In una cella angusta, Lydia viveva sospesa tra il dovere e un desiderio che le incendiava l’anima. I capelli neri, intrecciati con nastri logori, le cadevano sulla schiena come un’onda notturna, e gli occhi zaffiro, scintillavano di una luce solare che sfidava le ombre. La sua pelle olivastra brillava alla luce delle lucerne, e il corpo, snello ma con curve che incitavano al peccato, era un’arpa pronta a suonare melodie di piacere. La tunica azzurra, trasparente come un soffio di zefiro, scivolava sul corpo, lasciando il seno scoperto, due frutti maturi che attiravano ogni sguardo. I sandali intrecciati, che le stringevano le caviglie, ticchettavano sul pavimento, un ritmo che accompagnava la sua danza di seduzione. Ma il suo cuore, solare e resiliente, era altrove: ogni cliente, ogni moneta da cinque a venti assi, era un passo verso la libertà promessa dopo cinque anni, ma il suo desiderio, un fuoco custodito gelosamente, era riservato a un solo uomo – Gaius Julius, il centurione che le aveva rubato il respiro.
Lydia fantasticava su di lui mentre si concedeva agli altri, il corpo un guscio che eseguiva il suo compito, lo spirito una fortezza inespugnabile. Con i mercanti rozzi e i patrizi arroganti, tratteneva il suo piacere, un tesoro che non avrebbe sprecato. Nei momenti di solitudine, mentre il vociare della città filtrava dalle mura, chiudeva gli occhi e vedeva Gaius: il suo passo deciso, i muscoli scolpiti che si tendevano sotto la tunica, gli occhi azzurri che la guardavano non come una schiava, ma come una donna. Il ricordo del loro primo incontro, un’onda di passione che l’aveva travolta, le accendeva il corpo, un fremito che le faceva tremare le mani. “Torna, guerriero mio,” sussurrava al vuoto, il cuore un tamburo che batteva per lui. Ogni cliente che varcava la sua soglia dall’Hora Quarta era un’ombra, un mezzo per un fine, ma il primo pomeriggio, quando il lenone annunciò un visitatore, Lydia seppe che era lui.
Gaius Julius entrò nella cella, il corpo forte e muscoloso che riempiva lo spazio, la tunica aderente che disegnava ogni linea del suo petto e delle sue braccia. I suoi occhi azzurri, come il cielo sopra il mare, la trovarono subito, e un sorriso caldo gli increspò il volto scolpito. “Lydia, sei un sogno che mi perseguita,” disse, posando venti assi sul tavolo, il prezzo di un banchetto completo. Lydia sobbalzo sentendosi chiamata per nome con il cuore che galoppava come un destriero, si avvicinò, il sorriso solare che si accendeva come una fiamma. “Allora fa’ che il sogno prenda vita,” sussurrò, e con un gesto che mai aveva offerto ad altri, posò le labbra sulle sue. Il bacio fu un vortice, le loro lingue che si intrecciavano come fili di un arazzo, un’esplosione di calore che le strappò un gemito. Le sue mani, tremanti di desiderio, scivolarono sotto la tunica di Gaius, trovando la possente verga, tesa come il remo di una galea pronta a solcare mari tempestosi. La accarezzò con passione, e la sua bocca la cerò avida. Gaius gemette, un suono roco che riempì la cella, e Lydia, con un sorriso che era miele e sfida, lo fece sedere, la sua bocca calda che accoglieva la verga, le labbra che si chiudevano intorno, un bacio che era canto e promessa. La lingua danzava, lenta e poi veloce, e con un gesto audace, la fece scivolare fino alla gola, un’ode che sorprese il centurione, il calore che lo travolgeva come una tempesta. Ma il desiderio di Gaius cercava di più. Lydia si sdraiò sul letto di pietra, le cosce spalancate come una partoriente, il caldo antro del piacere gocciolante di nettare, un lago che brillava alla luce della lucerna. Gaius la penetrò con un affondo lento, la possente verga che scivolava nel suo grembo, un suono bagnato che era un inno osceno. Ogni colpo era un’onda che scuoteva il letto, il seno di Lydia che tremava, il sudore che le colava come un ruscello tra i frutti maturi. Il piacere montava, ma lei si trattenne, un dono che avrebbe offerto solo al culmine.
Ogni colpo era un’onda che scuoteva il letto, il seno di Lydia che tremava, il sudore che le colava come un ruscello tra i frutti maturi. Il piacere montava, ma lei si trattenne, un dono che avrebbe offerto solo al culmine. Gaius, con il respiro che si spezzava come una corda tesa, la guardava con occhi azzurri che bruciavano di desiderio, un mare in tempesta che la chiamava. “Sei un’isola che voglio conquistare,” mormorò, la voce un tuono basso che rimbombava nella cella. Lydia, con un sorriso che era miele e sfida, si girò, poggiandosi al letto di pietra, e sollevò la tunica ormai sgualcita, scoprendo il caldo antro del piacere e il fiore nascosto, un’offerta che era un canto di sirena. “Vieni, guerriero, reclama il tuo trofeo,” sussurrò, le cosce che si aprivano come ali di un’aquila pronta al volo.
Gaius, con un ringhio che era fame e venerazione, la penetrò da dietro, la possente verga che affondava nel grembo, dapprima con la dolcezza di un rivo che scorre tra le rocce, poi con colpi che erano tempeste, un ritmo che faceva tremare le mura screpolate. Ogni affondo era un fulmine, il suono umido della carne che si univa un inno segreto che si mescolava al crepitio delle lucerne. Lydia strinse il suo antro intorno alla verga, un guanto di seta che lo imprigionava, il corpo che si inarcava come un arco sotto la pioggia, i gemiti che le sfuggivano, non più artefatti ma vivi, un’eco del fuoco che Gaius aveva acceso in lei. Il piacere, come un’onda che si infrange sulla scogliera, minacciava di travolgerla, ma lei lo trattenne, un tesoro da donare al momento perfetto.
Con un movimento rapido, Lydia si liberò, inginocchiandosi davanti a lui, il volto illuminato da un sorriso malizioso. Fece scivolare la possente verga tra i suoi seni, massaggiandola con le morbide curve, come un’arpista che pizzica corde di piacere, la lingua che sfiorava la punta con carezze leggere, un gioco che strappò a Gaius un rantolo profondo. “Sei un banchetto che gli dei invidierebbero,” ansimò lui, e Lydia, con un’audacia che era sfida e promessa, la prese in bocca, la verga che scivolava fino alla gola, un’ode che lo portò sull’orlo dell’abisso. La lingua danzava, un vortice di calore che lo avvolgeva, il sapore salato che le riempiva i sensi, un nettare che parlava di forza e vita. Gaius, travolto, si scostò, il respiro corto, gli occhi che brillavano come stelle in un cielo notturno.
Lydia, con un gesto che era invito e comando, si sdraiò nuovamente sul letto di pietra, le cosce spalancate come un tempio che si apre al suo sacerdote. Gaius si posò sopra di lei, la possente verga che affondava di nuovo nel caldo antro del piacere, pompando con una furia che era conquista e devozione. Il ritmo si fece selvaggio, il letto che gemeva sotto il loro peso, il sudore che li univa come un patto antico. Quando Gaius, con un ruggito che squarciò il silenzio della cella, riversò il suo caldo seme nel grembo di lei, Lydia tremò, il suo piacere che esplodeva come un vulcano, un’onda che la scosse fino all’anima, un dono raro che mai aveva concesso ad altri clienti, un sacrificio agli dei dell’amore che la lasciò senza fiato.
Ansimanti, si guardarono, i corpi ancora intrecciati, il sudore che li avvolgeva come un manto. Lydia, con il cuore che batteva come un tamburo di guerra, si chinò su di lui, le labbra che sfioravano le sue in un bacio che era più di carne, un abbraccio quasi romantico che li unì oltre il piacere. Le loro bocche si cercarono, un intreccio di dolcezza e desiderio, e Lydia, con la mano ancora avvolta intorno alla verga, la massaggiò con una tenerezza che era adorazione, sentendolo di nuovo pronto
Esausti, si pulirono, il silenzio della cella rotto solo dal crepitio delle lucerne e dal rumore distante di Pompei che viveva il suo pomeriggio. Lydia, con un sorriso che era malizia e curiosità, si avvicinò a Gaius, accarezzandogli il viso. “Dimmi, centurione, preferisci forse i giovinetti cortigiani, che danzano per i tuoi capi nei banchetti?” chiese, la voce un sussurro che nascondeva un’ombra di gioco. Gaius, con un sorriso che era enigma e calore, le sfiorò la guancia. “Molti dei miei pari ne hanno uno, un’usanza che è quasi un impero,” rispose, la voce bassa come il vento che precede la tempesta. “Ma io non ne ho ancora. Forse, greca, sei tu il mio regno.” Le sue parole, un intreccio di verità e mistero, colpirono Lydia come una freccia, accendendo nel suo cuore una speranza che non osava nominare.
Mentre Gaius si rivestiva, posando una moneta d’argento in più sul tavolo, Lydia lo guardò, il cuore diviso tra il sogno di libertà e il calore di quel momento. La luce del pomeriggio, filtrando dalla finestrella, accendeva riflessi sugli affreschi, e il rumore dei carretti, dei ragli d’asini e delle grida dei ragazzini che giocavano a fare i soldati le ricordava la sua condizione. Ma in quell’istante, per la prima volta, si sentì vista, non come una schiava, ma come una donna. Gaius, con un ultimo sguardo che era promessa, uscì dalla cella, lasciando Lydia sola con il peso di un desiderio che era più di carne, un filo che li legava oltre le mura del Lupanare.
Il crepuscolo calava su Pompei come un velo di cenere, soffocando le ultime luci del giorno in un abbraccio di ombre. Nella cella angusta del Lupanare, Lydia giaceva, il corpo ancora caldo del ricordo di Gaius Julius, il centurione che aveva destato in lei un fremito di dolcezza, un sogno fugace di libertà. Tratteneva nel suo ventre il caldo seme che aveva ricevuto. Ma il fato, tessitore spietato, non le offrì riposo. Il lenone, padrone della sua carne e della sua anima, aveva udito i sospiri di piacere sfuggiti dalle sue labbra, un suono che per lui era un affronto, un’eresia contro il suo dominio. Con passo greve, entrò nella cella, il volto scavato da rughe di rabbia, gli occhi come tizzoni ardenti, un tiranno pronto a reclamare il suo tributo.
“Schifosa greca,” ruggì, la voce un tuono che frantumava il silenzio. “Osi godere, tu, un’ombra senza valore?” Le sue mani, dure come il ferro battuto, l’afferrarono per i capelli, trascinandola al centro della stanza. Uno schiaffo, rapido e tagliente come una lama, le colpì il viso, dipingendole la pelle di un rosso crepuscolare. “Non illuderti,” sibilò, e con un gesto di disprezzo le sputò in faccia, un marchio umido di schiavitù. “Sei mia, un vaso da riempire, non una creatura da amare.” Lydia, il cuore un tamburo che rimbombava di paura, cercò di ritrarsi, ma la forza del lenone era un torrente inarrestabile.
Con un movimento brutale, la gettò sul letto di pietra, il corpo di lei che si piegava come un giunco sotto la tempesta. Lui, simile a un lupo famelico che divora la preda, le salì sopra, la tunica strappata come petali di un fiore calpestato. La sua possente verga, rigida come l’asta di una lancia, si aprì cammino nel caldo antro del suo piacere, un’invasione che era furia e dominio. Lydia, con gli occhi inondati da un ruscello di dolore, pregava in silenzio, un canto di supplica che si perdeva nell’aria pesante. Ogni affondo era un colpo di maglio, un’onda che la travolgeva, il suo corpo un usignolo con le ali spezzate sotto il peso di un dio crudele.
Il lenone, con un rantolo animalesco, riversò il suo caldo seme nel suo grembo, un’offerta amara che la marchiò di vergogna. Uscì da lei con sprezzo, pulendosi sul suo volto come un conquistatore che calpesta il campo di battaglia. Un ultimo schiaffo, un sigillo di potere, risuonò nella cella, poi si allontanò, lasciandola sola, tremante e ferita. Lydia, raggomitolata sulla pietra fredda, era un fiore schiacciato ma non privo di bellezza, un’anima che, pur straziata, custodiva ancora un barlume di luce, un sussurro di speranza nel ricordo di occhi azzurri.
Ma il destino, capriccioso burattinaio, non aveva ancora finito di giocare con i fili della sua vita. Mentre Lydia giaceva, il corpo dolente e l’anima in frantumi, un’ombra si mosse silenziosa oltre la soglia della cella. Era Drusilla, la vecchia meretrice del Lupanare, una donna dal volto segnato dal tempo e dagli uomini, ma dagli occhi acuti come lame. Aveva visto tutto, nascosta nell’oscurità, testimone muta della crudeltà del lenone. Nei suoi giorni di giovinezza, anche lei era stata preda di mani rapaci, e il suo cuore, indurito ma non spento, si accese di una scintilla di ribellione.
Con passi felpati, Drusilla si avvicinò a Lydia, portando con sé un panno umido e una coppa d’acqua, offerte semplici ma cariche di pietà. “Non piangere, piccola,” mormorò, la voce rauca come il vento tra le rovine. “Il lupo divora, ma non sa che anche la preda ha zanne nascoste.” Pulì il viso di Lydia, cancellando il sudiciume del disprezzo, e le porse l’acqua, un rivo di freschezza in quel deserto di sofferenza. Lydia, con mani tremanti, bevve, gli occhi fissi su quella donna che sembrava un oracolo avvolto in stracci.
Drusilla si chinò, sussurrando come se temesse che i muri stessi potessero udirla. “Il lenone dorme ora, ebbro di vino e di potere. Ma il suo sonno è profondo, e la notte è lunga.” Dalla tunica lacera estrasse un piccolo pugnale, la lama opaca ma affilata, un dono del passato che aveva custodito per anni. “Non sei sola,” disse, posando l’arma accanto a Lydia. “Un fiore calpestato può ancora pungere chi lo schiaccia.”
Lydia fissò il pugnale, il cuore che batteva un ritmo nuovo, non più di paura ma di possibilità. La luce della luna, filtrando dalla finestrella, accese un riflesso sulla lama, un bagliore che sembrava promettere giustizia. Non rispose, ma nei suoi occhi, un tempo velati di lacrime, si accese una fiamma, debole ma viva. Drusilla si alzò, tornando nell’ombra da cui era venuta, lasciando Lydia con il peso di una scelta: restare un usignolo ferito o divenire un falco che reclama il cielo.
Disclaimer! Tutti i diritti riservati all'autore del racconto - Fatti e persone sono puramente frutto della fantasia dell'autore.
Annunci69.it non è responsabile dei contenuti in esso scritti ed è contro ogni tipo di violenza!
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Commenti per Letteratura Latina: Lydia Atto 2:
