Prime Esperienze
Letteratura Latina: Lydia Atto 3


16.05.2025 |
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"Gaius, ansimante, si abbandonò al loro tocco, il cuore lontano, perso nel ricordo di una greca che non poteva raggiungere..."
Il crepuscolo di Pompei si stendeva come un manto di cenere, soffocando le ultime luci del giorno in un abbraccio di ombre. Le strade selciate, ancora calde del sole, echeggiavano del lamento dei carretti e del vociare dei mercanti, mentre l’aria, densa di pane caldo, salsedine e sudore, si intrecciava al fumo delle lucerne. Nel Lupanare, cuore pulsante di desideri carnali, le mura screpolate sussurravano storie di piacere e dolore, illuminate dagli affreschi di Venere che cavalcava amanti alati e Priapo dal fallo svettante. Qui, Lydia, fiore ellenico calpestato dalla schiavitù, viveva la sua condanna, il corpo un altare profanato, l’anima un usignolo che cantava ancora di libertà.I giorni si susseguivano come onde che si infrangono su una scogliera, ciascuno portando nuove ferite. Il lenone, tiranno dal volto scavato e la voce come ghiaia, aveva stretto le catene della sua crudeltà. Ogni mattino, all’Hora Quarta, trascinava Lydia per le vie di Pompei, nuda come una ninfa strappata al bosco, la pelle olivastra che brillava sotto il sole, il seno, due frutti maturi, che ondeggiava a ogni passo. Un guinzaglio di cuoio, come quello di una bestia da soma, le stringeva il collo, e il lenone, con un ghigno da satiro, la mostrava ai passanti, mercanti dalle mani callose, patrizi dagli occhi famelici, marinai che odoravano di salsedine. “Guardate, o viandanti, il porto più dolce di Pompei!” gridava, e la folla si accalcava, monete che tintinnavano come promesse di peccato. Lydia, gli occhi zaffiro velati di vergogna ma accesi di sfida, camminava, i sandali intrecciati che ticchettavano sul selciato, i capelli neri che cadevano come un’onda notturna, il cuore un tamburo che batteva di rabbia e nostalgia.
Ogni giorno, la sua cella si riempiva di ombre: mercanti che la prendevano con la furia di tori, patrizi che la trattavano come un gingillo, giovani che cercavano nei suoi abbracci la gloria dei loro sogni. Dall’Hora Quarta alla seconda vigilia, il suo corpo, un’arpa dalle corde tese, suonava melodie di piacere per altri, mentre il suo giardino di Venere, un lago di nettare ormai dolente, si consumava sotto gli assalti. La sera, quando le stelle vegliavano sui peccati della città, Lydia crollava sul letto di pietra, le cosce tremanti come rami sotto la tempesta, il caldo antro del piacere martoriato, un fiore schiacciato che pulsava di dolore. Con mani stanche, spalmava unguenti di mirra e resine, un balsamo che leniva la carne ma non l’anima. Le lucerne fumose illuminavano il suo volto, e nei momenti di solitudine, il pugnale di Drusilla, nascosto sotto il giaciglio, scintillava come un sussurro di vendetta. Ogni schiaffo del lenone, ogni umiliazione, alimentava quella fiamma, un vulcano che ribolliva nel suo petto, pronto a eruttare.
Il nome di Gaius Julius, il centurione dagli occhi azzurri, era ormai un ricordo che le scaldava il cuore come un raggio di sole in un giorno d’inverno. Un cliente, un mercante di Ostia dalle mani macchiate di vino, le aveva portato la notizia, come un dardo che trafigge: “Il tuo centurione è a Neapolis, trasferito con la sua centuria. Dicono che si diverta con i giovinetti delle terme, quei fiori delicati che danzano per i soldati.” Lydia, con un sorriso che mascherava il dolore, aveva annuito, ma dentro di sé il mare di Lesbo si era infranto contro scogliere di disperazione. Gaius, il guerriero che l’aveva guardata come una donna, era lontano, e il filo che li legava sembrava spezzarsi sotto il peso della sorte.
A Neapolis, sotto un cielo che si accendeva di porpora, Gaius Julius camminava tra le terme, il corpo muscoloso avvolto da una tunica che non celava la forza delle braccia. La sua centuria, acquartierata tra le mura della città, lo teneva lontano da Pompei, e il ricordo di Lydia, con i suoi occhi zaffiro e il sorriso solare, era un’eco che lo tormentava nelle notti silenziose. Ma la carne, tiranna dei desideri, reclamava il suo tributo. Le terme, con le loro vasche fumanti e i mosaici di delfini, erano un tempio di piacere, dove giovinetti cortigiani, dai corpi lisci come statue di marmo, offrivano i loro servigi ai soldati. Uno di loro, un ragazzo di nome Lysander, dai capelli d’oro e gli occhi come olive mature, si avvicinò a Gaius, un sorriso che era invito e promessa.
“Centurione, lascia che le mie mani sciolgano le tue fatiche,” sussurrò Lysander, la voce un flauto che incantava. Gaius, il cuore diviso tra il ricordo di Lydia e il fuoco che gli ardeva nei lombi, cedette. Nella penombra di una sala avvolta dal vapore, Lysander, inginocchiato come un sacerdote davanti a un altare, slacciò la tunica di Gaius, trovando la possente verga, tesa come il remo di una galea pronta a solcare mari tempestosi. Le sue mani, morbide come petali, la massaggiarono con un ritmo che era musica, un’arpa che pizzicava corde di piacere. Gaius gemette, un suono roco che si perse nel vapore, e Lysander, con un sorriso malizioso, guidò la verga nel suo fiore nascosto, un porto stretto che lo accolse con un calore che era tempesta.
Gaius, con un ringhio che era fame e conquista, prese il giovinetto con forza, ogni affondo un’onda che scuoteva il pavimento di mosaico, il corpo di Lysander che si piegava come un giunco sotto la furia. Il piacere montava, e Lysander, con un grido che era canto e supplica, riversò il suo caldo seme sul pavimento, un ruscello di perle che brillava alla luce delle torce. Gaius, travolto, si ritrasse, offrendo la verga alla bocca avida del giovinetto. Lysander la accolse, la lingua che danzava come un’onda sulla scogliera, e Gaius, con un ruggito che squarciò il silenzio, inondò la sua gola di un fiume bollente, un nettare che il ragazzo ingoiò con un gemito di piacere.
Il gioco, come un vino che inebria, divenne un’abitudine. Nelle sere successive, Gaius si lasciò tentare da due giovinetti, Lysander e un altro, un ragazzo dai capelli di bronzo chiamato Phaon. Distesi su un letto di panni, i due si baciavano, le lingue che si intrecciavano come serpenti, le mani che accarezzavano le loro giovani verghe, tese come lance di giovani guerrieri. Gaius, eccitato dal loro abbraccio, li prese a turno, la possente verga che affondava nei loro fiori nascosti, un ritmo che era tempesta e conquista. I gemiti dei giovinetti, un coro di usignoli, si mescolavano al crepitio delle torce, e quando il piacere esplose, un vulcano che li travolse, i loro caldi ruscelli si unirono sul pavimento, un’offerta agli dei del desiderio. Gaius, ansimante, si abbandonò al loro tocco, il cuore lontano, perso nel ricordo di una greca che non poteva raggiungere.
A Pompei, il destino di Lydia si faceva sempre più cupo. Il lenone, come un lupo che fiuta la preda, intensificava le sue crudeltà. Ogni sera, dopo ore di clienti, Lydia si ritirava nella sua cella, il corpo un campo di battaglia, il giardino di Venere un lago dolente che pulsava di fatica. Gli unguenti, spalmati con mani tremanti, erano un rito di sopravvivenza, ma il pugnale di Drusilla, nascosto sotto il giaciglio, cantava una promessa di riscatto. Ogni schiaffo, ogni umiliazione, ogni passo al guinzaglio sotto gli occhi della città, accendeva in lei una fiamma che non era più solo speranza, ma furia. “Un fiore calpestato può pungere,” le aveva detto Drusilla, e quelle parole, come un mantra, le scaldavano l’anima.
Una notte, mentre la luna vegliava su Pompei, un cliente, un vecchio patriarca dai capelli bianchi, le parlò di Gaius. “Il centurione di Neapolis,” disse, la voce un soffio di vento, “si dice che tornerà a Pompei per un incarico. La sua centuria scorterà un carico di vino.” Lydia, con il cuore che galoppava come un destriero, nascose il tremore delle mani. Gaius, il suo guerriero, sarebbe tornato. Ma il lenone, come un’ombra che fiuta il pericolo, intensificò il suo dominio, costringendola a servire più uomini, il suo corpo un tempio profanato, l’anima un falco pronto a spiccare il volo.
La sorte, tessitore capriccioso, stava intrecciando i fili del loro destino. Mentre Gaius, a Neapolis, si perdeva nei piaceri dei giovinetti, il ricordo di Lydia, come un faro in un mare di tempesta, lo richiamava. E a Pompei, Lydia, con il pugnale in mano, guardava la luna, il cuore diviso tra l’amore per un uomo lontano e la vendetta contro un tiranno. Il Vesuvio, gigante silente, custodiva il loro futuro, un segreto che solo il tempo avrebbe svelato.
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