tradimenti
La camera rossa dell’Artemide – Parte I

20.05.2025 |
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"Eravamo in tre: io, mia moglie, e Andrea, un nuovo stagista poco più che ventenne..."
Non so esattamente quando ha iniziato a insinuarsi dentro di me quel desiderio. Forse era lì da tempo, in silenzio, ad aspettare il momento giusto. Come un pensiero latente, una voglia tenuta a bada dalla vita ordinata, dai doveri, dalle routine. Ma ricordo con assoluta chiarezza la sera in cui tutto ha preso forma, concreta, carnale, inevitabile.Era una trasferta a Roma, tre giorni intensi tra clienti, riunioni, aperitivi d’obbligo e la solita frenesia da “business trip”. Nulla di nuovo, nulla che non avessimo vissuto decine di volte. Eppure, qualcosa quella volta era diverso. Forse era l’aria calda e umida di maggio, che sapeva già d’estate. Forse era la stanchezza accumulata, che toglieva filtri e lasciava affiorare la verità. O forse era semplicemente lui.
Eravamo in tre: io, mia moglie, e Andrea, un nuovo stagista poco più che ventenne. Bravo ragazzo, educato, attento, con quella cortesia mai affettata che raramente si trova nei giovani. Lo avevamo scelto perché sembrava avere qualcosa in più degli altri: sapeva osservare, capire, adattarsi. Ma forse era il modo in cui guardava mia moglie a colpirmi davvero. Un’ammirazione che sfiorava la devozione, trattenuta appena da una timidezza autentica.
Lei se n’era accorta, ovviamente. Era troppo esperta, troppo sensibile, per non cogliere quei segnali. E io, che con lei avevo condiviso più di un pensiero proibito, sapevo leggere il gioco sottile che stava nascendo. Lo vedevo nei suoi sorrisi accennati, nei toni morbidi con cui gli parlava, nel modo in cui si sedeva accanto a lui. Piccole cose. Ma erano lì. E io, invece di provare fastidio, sentivo un brivido nuovo, un’eccitazione che non avevo previsto.
L’hotel era l’Artemide, in via Nazionale. Un quattro stelle elegante, raffinato senza essere freddo. Avevamo prenotato due camere, ma un disguido tecnico – uno di quelli che sembrano casuali, ma che forse non lo sono mai – ci aveva lasciati con una doppia e una matrimoniale. Alla fine, per comodità, lui aveva preso la singola. Noi la doppia, ovviamente. Ma quella sera, dopo una cena in terrazza con vista sui tetti di Roma, la complicità era così palpabile che ci ritrovammo tutti nella nostra stanza.
Bevemmo un bicchiere di vino rosso rimasto dal room service. Il letto grande, la luce calda delle abat-jour, il profumo della pelle di lei dopo la doccia. Indossava solo l’accappatoio bianco dell’hotel. Io una maglietta e boxer. Andrea era rimasto in jeans e t-shirt, ma si era tolto le scarpe. Ridevamo piano, con quella leggerezza che arriva solo quando c’è tensione sotto la superficie.
Parlavamo a voce bassa, come se temessimo di rompere qualcosa. E in effetti qualcosa si stava rompendo: quel confine che divide il desiderio dalla realtà. Vidi mia moglie avvicinarsi a lui per porgergli il bicchiere. Le sue dita sfiorarono le sue. Andrea restò immobile, come pietrificato. Ma i suoi occhi parlavano chiaro. Lei gli sorrise. Io non dissi nulla. Avevo il cuore che batteva nel petto come un tamburo.
Si sedettero sul bordo del letto. Io rimasi in piedi, vicino alla scrivania, osservando. Lei incrociò le gambe, l’accappatoio si aprì leggermente, lasciando intravedere l’interno coscia. Andrea cercava di non guardare, ma era chiaro che il suo respiro era cambiato. Più corto. Più nervoso. La tensione era così tangibile che sembrava un personaggio in più nella stanza.
“Se vuoi… puoi toccarla.”
Glielo dissi quasi sussurrando, con voce calma. Non ero sicuro che l’avrei detto davvero, fino all’istante in cui lo dissi. Ma una volta pronunciate, le parole sembrarono liberare tutto. Andrea deglutì. Mia moglie lo guardò con un misto di dolcezza e attesa. Poi, senza parlare, si alzò appena e gli si sedette in grembo con naturalezza, il bicchiere ancora in mano. Lentamente, come un rito, lasciò che l’accappatoio si aprisse del tutto. Il suo seno, sodo e chiaro, si mostrò come un’offerta sacra.
Andrea lo guardò. Poi lo sfiorò. Le sue mani tremavano. Ma la sua bocca si aprì leggermente, come se stesse per dire qualcosa. Lei gli mise un dito sulle labbra. “Non parlare. Solo sentimi.” E lì, la notte cominciò davvero.
Mi tolsi lentamente la maglietta. Il mio corpo era caldo, il respiro più rapido del solito. Sentivo il sangue fluire verso il basso, il cazzo già duro sotto il boxer. Andrea sembrava pietrificato, ma non si era tirato indietro. Guardava mia moglie come si guarda qualcosa che si sogna da anni, ma che non si è mai davvero pronti a toccare.
Mi avvicinai, lentamente, in silenzio. Mi misi dietro di lei, in piedi, mentre lei ancora gli stava seduta in grembo. Le posai le mani sulle spalle nude e scivolai giù con le dita, lungo le scapole, poi sui fianchi. Sentivo la sua pelle vibrare sotto le mani. Lei non si voltò, ma mi concesse un leggero movimento del bacino, come per dirmi che era pronta. Andrea le stava baciando il collo con un’avidità nuova, come se quel contatto lo avesse liberato da ogni ritegno.
Le sussurrai all’orecchio qualcosa di dolce, che non ricordo esattamente. Forse un “ti voglio”, forse solo il suo nome. Lei si voltò appena e mi baciò. Poi si alzò in piedi davanti a noi, e lasciò cadere l’accappatoio. Rimase nuda. I suoi seni pieni, il ventre morbido, la fichetta depilata e lucida di eccitazione. Andrea si alzò, ancora vestito, e le mise le mani sui fianchi, la guardava come se avesse paura di svegliarsi.
“Spoglialo,” le dissi. Lei sorrise. Gli sbottonò lentamente i jeans, tirandoli giù. Poi sfilò la maglietta, e quando il suo cazzo emerse dall’elastico delle mutande, già turgido, lei gli posò una mano sopra. Lui trattenne un gemito, mentre lei si inginocchiava e lo prendeva in bocca con calma, come assaporando un cibo prelibato.
La sua lingua danzava lenta, la bocca scendeva e saliva con maestria. Io mi sedetti sul letto, completamente nudo ormai, accarezzandomi mentre li osservavo. Il contrasto tra la sua maturità e la sua inesperienza mi eccitava a livelli mai provati. Andrea si lasciava andare, la testa riversa all’indietro, mentre lei lo prendeva in gola con decisione, guidata da una sicurezza che lo faceva tremare.
Mi alzai, incapace di restare fuori ancora. Mi avvicinai da dietro e le accarezzai il culo, aprendole le natiche e osservando la fichetta che pulsava, bagnata. La toccai con due dita, poi gliele portai alla bocca. Leccò con gusto, guardandomi con uno sguardo carico di promesse.
Le spinsi le gambe un po’ più aperte e glielo infilai lentamente da dietro. Era calda, stretta, vibrante. Lei gemette piano, ma continuò a succhiare Andrea senza fermarsi. Era perfetta. Il nostro triangolo si era finalmente chiuso, e tutto fluiva con una naturalezza quasi commovente.
Penetrai a fondo, lentamente, mentre Andrea la prendeva per la testa, dettando il ritmo del pompino. I nostri corpi si muovevano come se si conoscessero da sempre. I gemiti si confondevano con i respiri, e il rumore umido delle spinte riempiva la stanza. Ogni tanto, lei si staccava per gemere più forte, e poi tornava a prenderlo in bocca, affamata.
A un certo punto, ci fermammo. Volevamo vederla godere, darle tutta la scena. La stendemmo sul letto, gambe aperte, Andrea da un lato e io dall’altro. Le alternavamo le carezze, i baci, le leccate. Andrea le infilò due dita dentro mentre io le leccavo il clitoride. Lei si contorceva, si mordeva il labbro, afferrava le lenzuola. Poi venne. Un orgasmo lungo, profondo, fatto di tremori e respiri spezzati. Restò lì, con il petto che si sollevava e abbassava lentamente, gli occhi socchiusi, le labbra umide.
Ci guardammo. Io e Andrea. Non servivano parole. Eravamo dentro qualcosa di più grande di noi. E non volevamo più uscirne.
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