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Lui & Lei

La sirenetta


di EtairosEuforos
12.09.2023    |    488    |    1 4.0
"La mia vita è così noiosa» «A chi lo dici – dissi, senza quasi far caso alla parola che aveva usato – Anche tu genitori oppressivi?» «A chi lo dici..."
Dell’estate 1990 la prima cosa che ricordo è che fu torrida. Penso di non aver mai sofferto tanto il caldo. Di quelle prime giornate di agosto trascorse sulla costa laziale ricordo le prime pagine dei giornali, tutte con lo stesso volto. Non si parlava d’altro, tra gli ombrelloni e sulle sdraio, mentre la radio trasmetteva ancora le Notti Magiche di Bennato e Nannini, sulla coda lunga della conclusione dei mondiali italiani. Ricordo anche mio padre, con quegli assurdi baffetti che aveva deciso di farsi crescere in quel periodo e che sembravano fuori posto, sul suo viso a me familiare. Tutto era fuori posto, in quell’estate, compreso me. Non avrei dovuto essere lì a Sabaudia, a morire di caldo e di noia. L’estate della maturità, l’estate sognata e vagheggiata. L’estate della liberazione, con l’università ancora abbastanza lontana. E invece era cominciata nel modo più triste. A inizio giugno, infatti, mio nonno si era svegliato nel cuore della notte, con una strana sensazione di oppressione nel petto. Aveva capito. Si era alzato, si era messo addosso il vestito del matrimonio e si era seduto sulla veranda della sua villetta a schiera a Ostia. Non aveva chiamato nessuno. Era rimasto lì, a guardare le stelle, fino a che non si era addormentato. Lo avevamo trovato ancora seduto lì, la mattina dopo.
Il dolore mi aveva annichilito. Mia madre faceva i turni, nei primi anni della mia vita, mio padre trascorreva le giornate tra le corsie dell’ospedale, con il ruolo di primario. Mio nonno era stato la persona che mi aveva sostanzialmente cresciuto fino quasi alle soglie dell’adolescenza. Il lutto era arrivato improvviso, come un lampo in una notte buia e nuvolosa. Da diverso tempo in famiglia le cose non andavano bene. I miei genitori erano ai ferri corti, alle prese con una crisi coniugale da cui non sembrava esserci via d’uscita, e io ero alle prese con un periodo balordo di incertezza sul futuro. Ero demotivato, disilluso, e avevo mollato gli ormeggi, diplomandomi con il minimo sindacale.
Quella vacanza a Sabaudia era, o voleva essere, la goffa risposta di mio padre, il suo colpo di reni contro le avversità che la famiglia stava attraversando. Cambiare aria, il più possibile era la nostra priorità. Mia madre era pochissimo convinta e io proprio non volevo salire sulla nostra Mercedes carica di valigie, lasciando il paese dove, da giovane timido e un po’ solitario, avevo lasciato i pochi amici che avevo e uno svogliato amorazzo che, sconsideratamente, coltivavo per pura vanità e soddisfazione sessuale.
Alla fine, avevo dovuto convincermi. E ripensavo malinconicamente a casa, e alla calda bocca di Marta, abbarbicato su uno scoglio a poca distanza dalle spiagge più frequentate. Un posto isolato, impervio, perfetto per i vagheggiamenti esistenzialisti di un diciottenne un po’ pretenzioso. Vani propositi autolesionisti mi attraversavano la mente, fatui come solo i pensieri di un Giovane Werther già deluso dalla vita, perché abbastanza grande da vederne le prospettive ma non abbastanza da non essere frustrato dall’impotenza e dalla mancanza di mezzi. L’età in cui il mondo è a portata di mano, oltre le sbarre della propria prigione dorata. L’egoistico disprezzo verso l’affetto altrui diventa la naturale vendetta per questo stato di cose.
Che poi Marta… Mi amava poi davvero? O in questo momento era già al bar con qualche amica a puntare qualche motociclista palestrato? Dicevo a me stesso che non mi importava, ma era un modo per rassicurare me stesso da una ferita che avrebbe potuto farmi male, e lo sapevo.
Mi decisi a tuffarmi. Qualche bracciata in mezzo alle onde e poi mi aggrappai alla roccia più vicina, per riposare. Ricordo che il sole era basso già verso ovest, e che tutto l’orizzonte iniziava ad avvampare come un grande incendio. Il mare a tratti più calmo fu attraversato da un alito di brezza che lo increspò. Iniziai ad essere flagellato contro lo scoglio da una serie di ondate. Una di queste mi portò via il costume.
Sbigottito, misi freneticamente le mani intorno alle gambe, per ritrovarlo, ma era scomparsa ogni traccia. Toccai la roccia per capire, ma niente, della tela neanche l’ombra. A pelo d’acqua nulla si vedeva. Come avrei fatto a tornare a riva? Terrorizzato tentai di costeggiare la roccia, quando ad un tratto avvertii un morbido tocco sulle reni. E un sofficissimo, caldo abbraccio avvolse il mio pene, con un risucchio ritmico.
Non credevo alle mie sensazioni. Era sicuramente un pesce, un polpo, una medusa o qualche creatura strana, dovevo immediatamente scostarmi prima di farmi male, o di farmi mordere. Questo mi diceva la mente, la razionalità. Ma il cuore, l’arrapatissimo cuore di un diciottenne che non vedeva una ragazza da una settimana, mi supplicava di abbandonarmi ancora un po’ a quella curiosa sensazione, così simile a un pompino. Alla fine, venni, devo dire abbastanza in fretta. Dopo qualche istante di silenzio, sussultai nel vedere emergere una testa di donna, coperta di capelli biondi foltissimi. Due occhi azzurri, luminosi, dall’aria intelligente mi trafissero. Era una ragazza giovanissima, con un’espressione sbarazzina. Poteva avere la mia età.
«Ciao – disse solo – sei davvero tanto carino»
Ero senza parole, paralizzato, anche perché l’avvenenza della donna mi aveva colpito profondamente. Preso alla sprovvista, la timidezza prese il sopravvento, farfugliai qualche parola confusa.
«Come ti chiami? Io sono Giada»
LA soppesai per qualche minuto. Non riuscivo a superare la mia diffidenza. Non ero mai stato approcciato così sfrontatamente da una ragazza. Temevo di essere alle prese con una malintenzionata, mi stavo intimamente chiedendo se mi avrebbe chiesto dei soldi per quel pompino estemporaneo. Esitai troppo e lei si spazientì.
«Ti facevo più simpatico – sbuffò e sparì sott’acqua – addio»
Non riemerse.
Io passavo da uno stato di terrore a quello successivo. Oddio che era successo? Affogata? Cosa stava accadendo?
La vidi spuntare in linea d’aria a un centinaio di metri da me. Si rituffò in avanti, dietro di lei apparve una lunga coda.
Era stata inghiottita da un pesce? Cosa?
Ne avevo avuto abbastanza. Scosso, risalii le rocce per tornarmene a casa. Quella notte non riuscii a dormire.
Nei giorni successivi bazzicai un po’ le rocce, nella speranza segreta di rincontrarla, o almeno di capire meglio cosa era successo. Avevo il presentimento di avere gettato al vento un’occasione importante, di un’avventura nel senso letterale del termine, un qualcosa che non sapevo dove mi avrebbe portato, ma che sarebbe stato bello vivere. Alla fine, mi abbandonai nuovamente all’abulia. Il pomeriggio successivo, più annoiato che mai, mi addormentai sullo scoglio. Quando mi svegliai il sole era ormai per metà al di sotto dell’orizzonte.
«Ciao»
Trasalii improvvisamnente. Riconobbi, tra le onde, il viso noto, i capelli biondi. Mi guardava con una risatina maliziosa.
«Allora? Non te lo meriteresti, ma sei proprio carino. Così ho deciso di darti un’altra possibilità»
«Sono Marco» balbettai, emozionato.
«Ma allora ce l’hai la lingua – rise – bravo. Certo che di tutti gli uomini con cui ho fatto amicizia mi sei sembrato decisamente il più imbranato»
Un po’ ferito, ma non dall’aggettivo che mi aveva riservato, risposi: «Ah si? Hai conosciuto tanti uomini?»
«No, in realtà pochi, perché mio papà non vuole dice che può essere pericoloso. Peccato perché sono simpatici e carini. Poi sono curiosi con quelle gambe muscolose e sode, e quei culetti scolpiti. Mica come le code di quelli della mia specie. Tanti tritoni mi fanno la corte ma io non ho voglia di impegnarmi con loro. Sono così noiosi. La mia vita è così noiosa»
«A chi lo dici – dissi, senza quasi far caso alla parola che aveva usato – Anche tu genitori oppressivi?»
«A chi lo dici. Una palla. E non uscire a nuotare da sola, non emergere in superficie, non parlare con gli sconosciuti e meno che meno con gli uomini. E poi sono così bacchettoni, io ormai ho l’età per fare certe cose, sono libera ed emancipata»
Definitivamente, c’era qualcosa che mi sfuggiva. Non capivo fino in fondo quello che diceva.
«Allora, vieni con me a farti una nuotata? Dai ti porto in alcuni bei posti che conosco io» disse facendomi un occhiolino malizioso.
Da solo quello sguardo bastò a procurarmi una poderosa erezione. Il resto lo fece l’apparire del suo petto nudo e prosperoso tra le onde, quando si sollevò di più sul pelo dell’acqua. Sapevo che era una follia, ma a diciotto anni, davanti a una bionda simile, con due poppe del genere avrei accettato anche di andare al patibolo se me lo avessero chiesto.
«Certo vengo» e mi tuffai con foga, in perfetto slancio atletico. Volevo impressionarla. Affondai sott’acqua, non appena le bolle si diradarono davanti a me scorsi una lunga coda di pesce, terminante in una grossa pinna. Raggelai.
Emersi e la guardai sbigottito. Lei rispose con uno sguardo languido. «Alla buon ora». Accarezzandomi il mento, avvicinò le labbra e mi diede un torrido bacio alla francese, trascinandomi sott’acqua.
Accadde qualcosa che non so spiegare, perché da quel momento iniziai a volteggiare come avessi avuto un respiratore, senza necessità di emergere. Ero talmente euforico da quanto mi stava accadendo che non ci feci nemmeno troppo caso. Avrei seguito quella curiosa figura fino in capo al mondo se me lo avesse chiesto. Sotto di noi, il meraviglioso fondale era prodigo di ogni specie di corallo, di alga marina, di coloratissime rocce. Qui e là, il relitto malinconico di qualche barca occhieggiava tra la vegetazione. Un Cristo sommerso tendeva le braccia al cielo, circondato da pesci di tanti colori. E io seguivo la mia musa attraverso le acque, come in un sogno cinematografico.
Mi condusse al fondo di una parete di roccia sottomarina. C’era un tappeto di morbide alghe, e una barriera di alti coralli. Si adagiò tra una stella marina e l’altra, e mi fece cenno di abbracciarla.
Chiacchierammo a lungo, stesi laggiù. Mi raccontò della sua strana quotidianità e io ricambiai con le mie paturnie, i miei guai in famiglia. Quante cose in comune, a dispetto delle differenze. L’età e l’adolescenza ci univano. Alla fine mi baciò ancora con trasporto. Gli abbracci, le carezze, ci condussero presto a desiderarci fino al parossismo. Lei mi prese ancora una volta il pene in bocca, per lavorarmelo con passione. La consapevolezza di non poter ricambiare era dolorosa. Ad un tratto, lei indicò con le braccia un tratto della sua coda, sotto l’ombelico. Con stupore, vidi dischiudersi nelle membra ittiche, i bordi bianchi di una minuscola fica rosea, che ochieggiava e pulsava. Incredulo mi avvicinai, mentre lei gemeva di desiderio. Infine, entrai in lei. Fu l’amplesso più dolce della mia vita. Alla fine giacqui a lungo abbracciato a Giada, prima che lei mi conducesse in superficie. Ci lasciammo con un appuntamento per il giorno successivo. Appuntamento a cui lei non venne.
La attesi invano per due giorni. Alla fine frustrato e addolorato, mi rassegnai. Il terzo giorno, ricomparve all’improvviso, con la sua faccia da schiaffi, il suo sensualissimo musetto impertinente, quelle labbra carnose, cosi morbide sulla pelle del mio sesso.
Giada sapeva farmi godere letteralmente fino a farmi scoppiare a piangere dall’emozione. Per tutta la settimana che mi restava di vacanza a Sabaudia, quell’amore così intenso, inaspettato, così folle mi consumò psicologicamente. Anche perché con lei non c’era appuntamento che tenesse. Ogni volta che la salutavo non sapevo come e quando l’avrei rivista. Con i miei genitori divenni sempre più evasivo e assente, non ero mai a casa. Credo di essere andato a un passo dal far infuriare mio padre, dal mettermi alla catena in casa. Ma sarei stato capace di gettarmi dal balcone pur di tornare in quelle acque alla ricerca di Giada.
Si avvicinava la fine della vacanza, ed avevo angoscia al pensiero di tornare nella mia città, in cui non c’era, naturalmente il mare. Fantasticavo di trasferirmi, trovare un lavoro, abbandonare il proposito dell’università o, perché no, andare in una località di mare. Lei apparve dalle acque mentre ero assorto in questi pensieri e come sempre mi travolse con il suo entusiasmo e il suo appetito sessuale.
«Oggi ho una sorpresa per te – mi disse – ti invito a una festa speciale con tanti miei amici. Vedrai, sarà divertente»
La seguii fiducioso. Vagammo a lungo sott’acqua, si insinuò in una grotta sotterranea, seguendo un condotto fino a un ampia stanza subacquea, come una grande caverna. Arrivati, lanciò un curioso richiamo, un verso strano. Dall’oscurità vidi apparire una gigantesca piovra.
Ero terrorizzato. Feci per voltarmi e fuggire e vidi arrivare alle mie spalle due gigantesche murene.
Giada rideva abbandonandosi ai tentacoli della piovra.
Le murene avanzarono con le loro teste mostruose, si avvolsero intorno al mio torace, strisciando la pelle morbida e calda contro la mia. Fui privato, ancora una volta del costume. Insieme, i pesci iniziarono ad avvolgersi intorno al mio membro. Poi, contraevano ritmicamente i muscoli, gettandomi in un godimento insospettabile. Un nugolo di pesciolini mi avvolse gli arti, stimolando i miei capezzoli, solleticando i miei piedi, le mie dita, accarezzandomi il collo.
E poi vidi venire avanti la grande piovra. Poco più lontano, Giada stava gemendo di piacere, penetrata davanti e dietro da due pesci, mentre un polpo le avvolgeva i capezzoli. Riuscii a vedere la scena prima che i tentacoli mi avvolgessero completamente, aderendo completamente al mio corpo, afferrando il mio cazzo, titillando la mia bocca. Sentii la punta di un tentacolo penetrarmi il buco del culo, entrando sempre più in profondità, provocandomi una fitta di intenso dolore. Feci per scostarmi, ma era letteralmente impossibile muovermi. In pochi secondi quella sensazione si placò trasformandosi in calore, poi in una sensazione di pienezza, di gonfiore, per poi trasformarsi in piacere puro. Sentivo il pesce pulsare dentro di me e io pulsare con lui. Il mio pene duro come il marmo, masturbato dalla piovra iniziò a spruzzare fiumi di liquido mentre io, perso nel più torrenziale orgasmo della mia vita, persi definitivamente i sensi.
Mi svegliai, nudo, sulla spiaggia deserta. Il sole era tramontato da qualche minuto, e l’orizzonte dorato si incupiva.
Non ebbi nemmeno la forza di vergognarmi, di avere paura di essere sorpreso da qualcuno. Mi alzai smarrito, avvicinandomi a una barca rovesciata abbandonata sulla spiaggia. Di lei più nessuna traccia. Intimamente, qualcosa mi diceva che non l’avrei più rivista.
Malinconico, di lì a poco avrei fatto le valigie per tornare in città. A ogni spron battuto cercavo famelico il mare con lo sguardo, nella speranza di vedere il suo profilo apparire tra le acque. Cominciavo a dubitare di me stesso. Temevo di essere caduto nella lusinga del più crudele dei sogni.
Alla fine l’automobile mi portò definitivamente via da Sabaudia, con i miei sogni e le mie velleità. Trascorsero gli anni, la vita mi portò altrove, in giro per l’Europa. Sposai un avvocato inglese, vissi a lungo all’estero. Eppure non ho mai dimenticato quell’estate così speciale. Trent’anni dopo, con mio figlio e con mia moglie, riuscii a tornare a Sabaudia. Rivedere quelle spiagge, quel mare, fu sorprendentemente un evento che non mi procurò molta emozione. Il mio cuore trepidava nel timore e nella speranza di vedere riapparire quei capelli biondi e quegli occhi azzurri, tra i bagnanti, tra le onde, nel mare baciato dal sole. La verità però è che quell’estate era destinata a restare irripetibile, come quella stagione della mia vita, e a bruciare per sempre nel caminetto della mia memoria, fino a consumarsi dolcemente nell’oblio. Accarezzando la testa di mio figlio, mi augurai che anche per lui il destino avesse in sorte di incontrare una Giada, con la coda o con le gambe, che lo soccorresse nella mediocrità dell’adolescenza, con un sogno. Un sogno che basta a far risplendere tutta la vita di un uomo. Il sogno di aver vissuto, un fragile istante di bellezza della gioventù.
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