Lui & Lei

Sinti


di rasss
13.09.2018    |    7.139    |    1 8.9
"Do fuoco alla paglia che ha in bocca..."
E’ un’estate torrida.
Le lancette dell’orologio segnano le tre del mattino. Ciononostante, nel mio appartamento si muore di caldo. Sperando che fuori sia più fresco, con la scusa di buttare la spazzatura nei cassonetti collocati vicini al parco del mio quartiere, esco per fare una passeggiata.
Giunto in prossimità dei cassonetti noto la luce di una torcia che illumina l’interno di uno di questi.
Capisco che è qualche rom che di notte va a rovistare nella speranza di recuperare qualcosa di ancora utile.
Non mi faccio problemi e mi avvicino per buttare il mio sacchetto di spazzatura.
Il “cercatore” è una ragazza rom.
Chiedo permesso per gettare il mio sacchetto.
La ragazza si gira verso di me. Ha circa trent’anni, davvero molto bella, alta, carnosa, con lunghi capelli neri raccolti in una morbida treccia.
È vestita con una gonna di cotone amaranto, aderente fino al ginocchio, e una maglietta bianca che lascia intravvedere due enormi tette sudate, sode nonostante fosse evidentemente senza reggiseno.
Devo essermi soffermato qualche momento di troppo sul suo generoso décolleté, perché mi rivolge bruscamente la parola chiedendomi cosa avessi da guardare.
Le rispondo di stare calma e che mi ero solo soffermato a pensare perché una ragazza così bella si ritrovava a rovistare in un cassonetto, per di più in piena notte, invece di starsene con il suo fidanzato.
Mi risponde, di farmi gli affari miei e di andarmene a fare in culo. Ricambio la sua cortesia invitandola a recarsi nello stesso luogo ameno.
Mi giro e riprendo la mia passeggiata. Dopo pochi passi, la ragazza mi chiama. Dice di volersi scusare perché è stata maleducata.
“E va bene” – penso – “eccheppalle, ora mi batterà sicuramente soldi”.
Invece, mi dice se mi va di restare per fumare una sigaretta insieme a lei. Ovviamente non ne ha. Sono io che devo offrire.
Ci sediamo su una panchina che si trova lì vicino, nascosta da una siepe.
Do fuoco alla paglia che ha in bocca. La fiamma le illumina il viso nel buio della notte. Non è solo bella. È proprio un gran pezzo di fica.
La ragazza non parla, ma mi guarda sottecchi. Allora, dopo qualche boccata di fumo, sono io a rompere il ghiaccio. Le chiedo come si chiama. Mi risponde – secca – “Alexuta”. Poi continua e mi dice che gli amici la chiamano Alex, perché Alexuta è un nome di merda, e che un fidanzato non ce l’ha.
“Quindi – le chiedo – come devo chiamarti?”.
“Alex, va bene”, dice lei.
“Perciò siamo amici?”.
Mi risponde che i miei sono stupidi sillogismi e, in ogni caso, che dipende.
“Dipende da che?”, chiedo io.
Non risponde alla domanda, ma inizia a parlare e mi racconta di essere arrivata in Italia quando era ancora bambina e che nonostante i grandi sacrifici suoi e della sua famiglia non è riuscita mai ad emanciparsi dalla propria condizione. Ha studiato e si è perfino laureata in lettere, ma nessuno è stato disposto ad offrirle l’occasione di redimersi.
Mi chiedo se sia vero o se le sue siano solo cazzate per impietosirmi.
Il pregiudizio è forte, ma in fondo decido di crederle. Mi ispira fiducia, è intelligente, anche colta, e poi è un pezzo di fica incredibile.
Penso che in Italia molte donne, sebbene ignoranti, hanno avuto una occasione solo perché erano belle e avevano scopato con le persone giuste. Quella ragazza, che al contrario, aveva fatto sacrifici avrebbe quindi meritato più di loro.
Un ragionamento a dir poco banale.
Le parole uscirono spontanee “bella come sei, dovresti stare in parlamento”.
Per la prima volta sorrise. Aveva due occhi neri come la notte, ma emanavano una luce pazzesca. La bocca morbida e sensuale.
“Insomma – ripresi il discorso che lei aveva lasciato cadere poco prima – da cosa dipende se possiamo essere amici?”.
Mi guardò dritto in faccia e disse “dal fatto che tu mi consideri o meno alla pari delle ragazze italiane”.
Mi chiese un’altra sigaretta e si avvicinò. Eravamo praticamente appicciati. Non sapevo cosa dire, ma avevo capito benissimo.
Ci guardavamo dritti in faccia. Allora, decisi di dire la verità e vedere cosa succedeva. “Sei così bella e intelligente che sei meglio di molte di loro, te lo assicuro. Mi dispiace che tu non abbia un uomo che ti rende felice …”.
Prima ancora che io finissi di parlare ci stavamo baciando. Posò la mano sulla mia patta e inizio a massaggiarmi. Sentivo il cazzo bagnato esplodere nei pantaloni.
Mi guardò in faccia e sorrise ancora. Si inginocchiò davanti a me e, sussurrandomi che gli piaceva il mio modo di guardarla e di baciarla, lo tirò fuori e inizio a succhiarlo. Era vorace, ma delicata.
Si vedeva che le piaceva quello che stava facendo. Percorreva la mia verga con una dedizione incredibile, non aveva fretta. Lenta, inesorabile e appassionata.
Sarà stata la situazione, sarà che il pompino era da oscar, ma dopo pochi minuti le riversai in bocca un bel po’ di sborra, ma lei non fece una piega. La sentivo ingoiare. Continuò fino a quando non fu sazia della mia viscida carne.
Avevo un solo pensiero ora: dovevo scoparla.
Lo aveva capito bene quello che volevo. Non ci voleva certo un genio. Prima che potessi dire qualsiasi cosa, mi chiese se poteva venire a casa da me, voleva fare una doccia e – se mi andava – fotterla (disse proprio così: fotterla) per tutto il tempo che volevo.
E vabbè, decisi di rischiare e di portarmi questa stupenda sconosciuta a casa.
D’altro canto era una situazione che aveva dell’incredibile e poi … al cazzo non si comanda.
Mentre camminavamo verso il palazzo dove abito, non c’era il minimo imbarazzo e lei mi chiese se mi era piaciuto il suo pompino. Il mio sguardo fu più che eloquente. Le misi una mano sul culo e la palpai. Era sodo. Sotto la sua gonna di stoffa leggera se ne percepiva la perfezione delle forme. Capii che non aveva mutandine.
Non volevo aspettare che si facesse una doccia. Volevo scoparla subito. Non ce la facevo più a resistere. Glie lo dissi e mentre glie lo dicevo, in ascensore, con il cazzo duro e le palle dolenti, le tirai giù la maglia e iniziai a ciucciarle le tette. Erano ancora più grandi di quello che sembravano. Strabordavano dalle mani.
Si girò di scatto, e dalla borsa che aveva tirò fuori un anal plug di discrete dimensioni. Mentre lo leccava oscenamente mi chiese di tenerle le chiappe allargate e di insalivarle bene e in profondità il buco del culo.
Lei si chinò in avanti, io mi abbassai e feci come aveva detto. Sentivo l’odore della sua figa bagnata mischiarsi a quello del suo culo e al sudore. Mi scansò il viso e si infilò il plug nel culo.
Mi guardò e disse con malizia: “lo preparo per dopo”. Notai che il plug non aveva incontrato la minima resistenza mentre le scivolava dentro. Vedendo la mia faccia inebetita, mi disse “si, mi piace prenderlo nel culo! E allora!?”.
È sveglia la troia!
“Ne hai presi molti?”, chiesi oramai con il cervello lesso e lo sguardo incollato al suo mandolino perfetto. Attese un attimo. Poi disse “da tutti quelli del mio accampamento; mi chiamano Alexuta la troia, che nella lingua tzigana vuol dire la gran troia. Ecco perché odio il mio nome”.
Anche se, da come si comportava e dalla brama di cazzo che aveva, pensai che non avessero tutti i torti ad appellarla in quel modo, la sua risposta mi fece completamente impazzire. Appena usciti dall’ascensore, la feci inginocchiare sui gradini del mio pianerottolo e le infilai il mio cazzo nella fica. Era umida e bollente. Mentre spingevo e mi ritraevo mi venne in mente che la stavo fottendo senza preservativo, ma non me ne importava nulla; ora il mio cazzo era un tutt’uno con la sua figa.
Mentre la scopavo, con le mani le accarezzavo i fianchi, la pancia, il seno, il collo. A lei doveva piacere quello che provava perché protendeva il culo verso di me tenendo le gambe ben larghe affinché le mie penetrazioni potessero raggiungerla in profondità.
Il mio cazzo si mise a pulsare e le palle diventarono dure. Era l’evidente segnale che stavo per venire. Quando stavo per togliermi, con voce flebile e impastata, quasi biascicante per il piacere, mi disse: “ti prego vieni dentro, fidati di me, non toglierti, ti voglio sentire fino alla fine”. Non so cosa mi passò per la testa, ma sospesi ogni raziocinio, e le inondai la figa di sborra, grugnendo ad ogni fiotto che scaricavo. Con il mio cazzo ancora dentro sentivo la figa riempirsi e diventare sempre più morbida e viscida. La avevo riempita fino a colmarla. Lei godeva con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, ansimando piano.
Era di una bellezza mozzafiato.
Entrammo in casa e mentre stavo ancora chiudendo la porta, si spogliò completamente. La figa colava di sborra, ma lei parve non farci caso. Mi chiese dove era il bagno – mentre io guardavo estasiato il suo corpo perfetto - e si lanciò sotto la doccia.
Pensai che sarebbe stato bello scoparla anche mentre si lavava, ma poi me ne andai e la lasciai fare con comodo
Quando tornò da me, aveva i capelli ancora bagnati e sciolti. Se possibile, era ancora più bella di prima. Il cazzo mi venne di nuovo duro e lei se ne accorse. Io la guardai e le dissi “Beh, sei tu che mi hai detto che potevo fotterti tutte le volte che volevo, no??”. Sorrise compiaciuta.
Mi guardo qualche istante. Poi, mi chiese se avevo qualche vestito pulito.
Vivendo da solo, non avevo abbigliamento femminile. Mi tornò in mente che da qualche parte nell’armadio avevo ancora qualcosa di una donna sposata con la quale ogni tanto mi vedevo a casa mia nella pausa pranzo del lavoro. Mi aveva lasciato tutte quelle cose che le avevo comprato per i nostri incontri d’amore clandestini. Recuperai una minigonna di jeans, una confezione ancora nuova di autoreggenti nere, un perizoma, un top nero e nu paio di scarpe alti con tacchi a spillo.
Quando glie li porsi, mi chiese cosa ci facessi con quei vestiti da troia in casa.
La provocai dicendo che le ragazze italiane si vestono così.
Raccolse la sfida e indossò gli abiti che le avevo dato.
Era magnifica. Una vera dea.
“Usciamo!” – mi disse.
“Vestita così” – chiesi io, stupito?”.
“Sei tu che hai detto che le ragazze italiane si vestono così”.
Touché.
“Dai portami a fare un giro in centro, come se fossimo una coppia normale”, rilanciò.
Non avendo nulla da eccepire, acconsentii.
Quella fu la prima di molte uscite e di molti altri incontri ...
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